Mordere la nebbia: Alessio Boni al Bif&st 2021

L’essere umano è crisi. Si può essere in crisi perché si è felici, si può essere in crisi perché si è infelici. Che nasca dalla gioia, che nasca dal dolore, qualcosa, se si è umani, conduce ad una linea d’ombra sottile quanto oscura. E con quella bisogna giocarci, un po’ come faceva Osvaldo Cavandoli con il fumetto che aveva battezzato proprio La Linea. Dopo Conrad, Pirandello, Shakespeare perché siamo ancora qui a ripeterci l’ovvio?

Alberto Crespi e Alessio Boni al Bif&st 2021 – Teatro Margherita

Perché nel nostro tempo, la crisi è qualcosa che ci rifiutiamo di accettare. Anzi, chi riesce a costruire sulla contraddizione, chi riesce a stare in bilico su quell’orizzonte affacciandosi sugli opposti per capirli e scegliere ci sembra un alieno venuto a sconvolgere la quiete apparente della causalità.

Alessio Boni ha conosciuto una crisi: è diventato padre in un momento storico tremendo. Mentre nei primi mesi del 2020 Bergamo, Brescia, Milano e la Lombardia tutta conoscevano la morte e venivano travolte dai numeri del contagio, lì più feroce che nel resto d’Italia in ogni caso colpita, mentre il virus strappava i nomi ai corpi e ai volti e i corpi alle famiglie e agli amici, suo figlio veniva al mondo e lo interrogava. «Mio figlio sembrava chiedermi “ma chi sei, cosa ne sarà di me?” con i suoi occhi pungenti anche se ancora ciechi, perché appena nati i bambini vedono solo ombre, non distinguono nitidamente ciò che hanno intorno. Lorenzo ha subito avuto questo sguardo penetrante e io ho potuto guardarlo a lungo, conoscere e riconoscere tutti i suoi pianti, le sue prime smorfie». Poi il piccolo Lorenzo fa una cosa: si morde il labbro inferiore e suo padre Alessio torna a se stesso, si rivede in lui perché da bambino aveva esattamente lo stesso vezzo.

Ecco, per Alessio Boni, che è attore in quanto uomo e viceversa, comincia un percorso di analisi del passato. Potrebbe essere presto per scrivere una biografia, non ha ancora cinquantacinque anni, eppure è necessario non soltanto fare un bilancio, ma tornare alla scoperta di se stesso attraverso gli altri: perciò questo libro riesce a non essere autocelebrativo e autoreferenziale, ma somiglia più ad un diario di bordo (parziale, certo) di un’anima che fa ricerca e continua a stupirsi anche di ciò che sfiora e da cui viene sfiorata.

Sì, Mordere la nebbia (Solferino Editore) racconta proprio questo: la fame di incontri del ragazzo che appena maggiorenne fugge dalla provincia lombarda e supera la spessa coltre di fatalismo e proverbiale attaccamento al lavoro che si è sempre tramandato di padre in figlio nella famiglia della piccola borghesia e questa fame rimane costante, diventa quella dell’uomo che vuole darsi al mondo e riceverlo. Quella di Alessio Boni, in fondo, è la storia di tutti i giovani curiosi che superano le Colonne d’Ercole con l’incoscienza e il desiderio caparbio di diventare donne o uomini prima ancora che operai, avvocati, medici o nomi su un cartellino, su una porta di un ufficio, su un documento.

Certo, Boni dimostra che bisogna proprio inventarsi la vita, costruirla con fatica e coraggio, studiando tanto, con passione e dedizione totale. Altrimenti come lui stesso avrebbe potuto conoscere la scuola di Alessandro Fersen, forse meno noto di Orazio Costa Giovangigli e di altri maestri, ma altrettanto importante per il nostro Teatro (se vi capita, L’universo come giuco può essere una lettura davvero avvincente), o Strehler che lo scelse per il ruolo di Cleante appena uscito dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’amico dopo gli anni di studio con Adreas Rallis. Come avrebbe potuto interpretare Matteo Carati ne La meglio gioventù diretto da Marco Tullio Giordana e cominciare così un percorso attorale mai banale, perfino nella televisione dove è rimasto l’ultimo attore in grado di mantenere un livello recitativo coerente, colto e assolutamente puro. «E per me La meglio gioventù, che fu proposta in versione integrale, sei ore di cinema accolte con commozione dal pubblico al Festival di Cannes, viene subito dopo Novecento di Bertolucci. È come se Marco Tullio avesse scritto il capitolo successivo, quello che racconta gli Anni Sessanta fino ai primi del 2000. Marco Tullio con gli sceneggiatori, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, ha proprio creato un compendio del pezzo di Storia che a scuola, lo sappiamo, non si affronta mai» spiega Boni.

E proprio La meglio gioventù, girato per sei mesi a partire da gennaio 2002, è un film che mette insieme alcuni dei suoi compagni di Accademia come Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio. «La possibilità di incontrare gli altri mi sembra qualcosa di assolutamente prezioso, a me non è mai interessato costruire un muro o tenermi lontano da chi incontro o pensare di poter giudicare qualcuno. Per me, se un uomo è in mare e ha bisogno di essere salvato, io allungo la mano e lo porto a riva. Non mi importa chi è, so che sta soffrendo e non posso rinunciare alla mia umanità in quel momento. Poi ci sarà un tribunale o una commissione che cercherà di capire chi è quell’uomo e perché è qui. Ma se sta morendo, io lo salvo e basta» aggiunge Boni e mai come ora le sue parole hanno un significato profondo, politico, non sono retorica vuota.

Ad Alessio Boni e in Alessio Boni si crede: quando recita e interpreta Caravaggio o Walter Chiari e quando racconta che la vita è un mare di rose perfino nel lebbrosario di Belo Horizonte, quando viaggia nella metà dimenticata ad Haiti e quando conosce la frontiera dell’oblio che è Lesbo. Ulisse è in lui perché Boni vuole essere un uomo libero, non si accontenta mai di sé, non accetta mai la comodità occidentale e la falsa coscienza dei nostri tempi ed è pronto ad assumere molte forme, cioè a guardare in molti modi, anche diversi tra loro, la realtà. Una cosa ben diversa dall’essere un falso ideologico o un opportunista.

Così, quando gli chiedo di dirmi cosa prova in questo Festival, cosa sente, cosa percepisce entrando in sala e incontrando il pubblico mi risponde con estrema lucidità. «Dopo un anno, ero all’Anteo l’ultima volta che ci sono stato, il giorno prima che chiudesse. Vidi Volevo nascondermi, il bellissimo lavoro che ha fatto Elio Germano diretto da Giorgio Diritti. Credo che il lockdown abbia solo accelerato quello che sarebbe accaduto nel giro di sei o dieci anni. Lo diranno in tremila modi, tremila persone e non scopro niente. Però lo dico così: un biglietto del cinema costa dieci euro per uno spettacolo, Netflix con nove euro e novanta ti offre un mese di tutti i film del mondo, ovunque, come vuoi e c’è gente che ha preferito investire in uno schermo più grande in casa. Il cinema diventa sempre di più per appassionati. Sta diventando come il Teatro, una cosa elitaria, di nicchia. Io esorterei le piattaforme a non proiettare anche il cinema degli autori. Lo so, quelle stesse piattaforme adesso producono i film degli autori, ma è chiaro che vederli in sala è un’altra cosa, ha un’altra valenza: spegni il cellulare, non hai distrazioni, ti concentri e stacchi tutti i contatti con il mondo per quell’ora, quelle due ore. È quasi una condizione ieratica, come entrare in chiesa, vedi l’espressione, ascolti il suono in quel modo, cogli il dettaglio. Non è un fatto vederlo in casa o dove preferisci. Il fatto è quando entri nel cinema. E a me dispiace, ma io sento e sto vedendo con i miei occhi che sì, c’è voglia di andare al cinema, ma la maggior parte lo aspetta a casa, tanto dopo due mesi lo trova in piattaforma. E non è poco quello che ti dico ora: una famiglia di quattro persone, una famiglia media diciamo, esce e va al cinema, poi a cena. Spendono almeno duecento euro in una sera. Ma con nove euro e novanta avranno il Cinema in casa per un mese, la cena in casa, non prenderanno la macchina e non spenderanno duecento euro. È ovvio: è una concorrenza spietata. Bisognerebbe fare una legge che preservi l’autorialità. Per esempio, per due anni non si possono inserire in piattaforma i film dei grandi autori, quelli che vanno ai Festival. Però purtroppo come puoi impedire a chi produce di inserire i propri film sulla propria piattaforma? Sì, è un cane che si morde la coda. Non ho la soluzione, ci sto ragionando adesso, con te. Però sento questo. Saremo stati in cinquanta questa mattina alla proiezione de La meglio gioventù. Li ho visti con gli occhi luccicanti, erano appassionati. Io, è chiaro, mi sono emozionato, il Teatro Kursaal è meraviglioso, come hanno potuto tenerlo chiuso per dieci anni? Ma eravamo un piccolo gruppo questa mattina. Concludo pensando a Pasolini. La Poesia è per pochi, non ci puoi fare niente. E il Cinema, quello vero, quello che devi vedere sul grande schermo è Poesia e quindi…».

Certo, la Poesia non è merce, non è consumabile. E forse, oltre la nebbia, nella linea d’ombra, sta la risposta che cerchiamo ed è una risposta che dovremo conquistare con grande fatica perché non ha prezzo. Quella risposta è la nostra libertà.

ARTICOLO E FOTO DI IRENE GIANESELLI

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