La rivoluzione di Adolphe Appia: la luce attiva nel teatro di regia

Il processo evolutivo dell’illuminazione scenica fa parte della storia del Teatro e ha contribuito notevolmente a strutturare l’identità della moderna idea di messinscena.

Agli inizi dell’Ottocento, non ancora considerata un linguaggio al pari degli altri, la luce aveva un ruolo ancillare: si usava solo per rischiarare e rivelare il quadro scenico e per valorizzare la tridimensionalità della componente scenografica alla quale, per secoli, è stata servilmente subordinata.

Le cose cambiano nel momento in cui, con l’illuminazione a gas e successivamente con quella elettrica, diventa possibile pensare una componente luministica più stabile, modulabile e soprattutto gestibile anche a distanza. L’illuminazione della scena comincia ad essere considerata un linguaggio capace di una sua espressività e non più soltanto puro tecnicismo artigianale.

I primi proiettori muniti di filtri colorati, che permettono di direzionare un fascio di luce più potente e pulito implicando infinite possibilità creative, nascono nella seconda meta del Secolo XIX, dopo l’invenzione della lampada con filamento al carbonio e si sostituiscono all’illuminazione a gas sopperendo a tutta quella serie di inconvenienti che l’uso di tale  fonte di illuminazione comportava: dal rischio di incendi al colorito giallognolo degli attori, dalla desaturazione dei colori della scenografie dipinte al cattivo odore.

In contesto si colloca l’opera del regista ginevrino Adolphe Appia che con la sua rivoluzionaria concezione scenica ha scardinato per sempre la convinzione che solo il corpo dell’attore e l’immagine dipinta potessero comunicare il senso della messinscena, generando un’attenzione tutta nuova verso la componente emotiva del linguaggio luministico.

Per Appia il teatro e la rivoluzione della messinscena sono state l’unica vera ragione di vita, una sorta di missione divina da dover portare a compimento nel più alto dei modi possibili.

Appia è tra i pionieri di una concezione innovativa di teatro ed il suo contributo è stato determinante per la definire l’autonomia della scena, luogo che veicola emozioni non necessariamente mettendo in scena un testo, che trasmette il suo messaggio attraverso la volontà dell’unico vero autore dello spettacolo: il regista.

Con Appia si compie un passo importante nella direzione del teatro di regia: è un teatro che lavora in scena attraverso la luce, le emozioni e le ideologie del regista e che quindi supera la concezione di un teatro che è mera messa in scena di un testo letterario.

Ed è nell’ambito dell’opera musicale di stampo wagneriano, un contesto ancora più complesso, in cui sperimentare un uso innovativo della componente luministica che Appia, superando lo stesso Wagner, eleva la scena al pari della magnificenza della musica e diventa visibile sul palco per mezzo dei movimenti corporei dell’attore, minuziosamente illuminato.

Per la prima volta nella storia del teatro con Appia  si parla di “luce attiva” ovvero di “luce emotiva”, quella luce principale in grado di trasmettere la qualità espressiva del racconto scenico e di “luce diffusa” per indicare un’illuminazione secondaria e diffusa per trasparenza, necessaria a determinare il chiaroscuro illuminando debolmente solo gli spazi scenici necessari a collocare visivamente la narrazione.

Da queste premesse si avvia un processo che vedrà nella luce l’unico strumento possibile per mutare continuamente  l’aspetto della scena senza interrompere l’unità visiva del racconto, evitando i vecchi cambi di scena a vista e modificando la luminosità in base alle sole esigenze diegetiche.

Con Adolphe Appia si inaugura anche la pratica di progettare minuziosamente la messinscena attraverso dei bozzetti che serviranno a disporre l’illuminazione, i costumi e la piantazione in maniera non più casuale ma necessariamente ben calibrata anche ai fini di una migliore conoscenza della scena da parte degli attori che, d’ora in poi, dovranno conoscere gli effetti dei cambi di luce ai fini di una maggiore espressività.

Degli studi di Appia ci restano i bozzetti per la rivisitazione scenica di alcuni dei drammi wagneriani più famosi quali La roccia delle Walchirie (III Atto della Walchiria), la Foresta Sacra e la Torre di Klingsor (I e II Atto del Parsifal), Tristano e Isotta.

In tutti i bozzetti è evidente la necessità di distinguere la scena su più livelli o dividerla in un’ambientazione esterna in cui prevale l’uso di una luce eterea e diffusa, spesso azzurra, ed un’ambientazione interna molto intima e suggestiva, attraversata da un solo fascio di luce cruda, capace di generare dei contrasti molto elevati, riservata ai momenti di assolo dei personaggi.

Il corpo dell’attore diventa l’epicentro della scena, il punto focale da cui si dipana il ritmo scenico, esaltato dalla luce e sublimato dalla musica.

Il teatro di regia sarà possibile solo a partire da queste premesse e solo nel momento in cui, grazie al contributo di Appia prima e del regista Gordon Craig poi, si comincerà a pensare alla scena non più come un quadro, dinanzi a cui intrattenersi semplicemente ma proprio come ad un luogo in cui sperimentare una dimensione artistica ed emotiva della luce, dimensione che genererà le premesse per quel rapporto individuale e soggettivo con la messinscena alla base della concezione teatrale dei secoli successivi.

ARTICOLO DI KATIA MANIELLO

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