La notte: ricordando Elie Wiesel

Elie Wiesel è nato il 30 settembre nel 1928 a Sighet, in Transilvania. Venne deportato ad Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra per alcuni anni fu giornalista in Francia per poi trasferirsi a New York dove si è spento il 2 luglio 2016. Nel 1986 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. La sua fondazione difende i diritti dell’uomo nel mondo, lavora per la pace e contro la povertà. Di lui la Casa Editrice Giuntina ha pubblicato La notteCredere o non credereIl testamento di un poeta ebreo assassinatoIl processo di ShamgorodL’ebreo erranteIl quinto figlioLa città della fortunaCinque figure bibliche e Il Golem. Lo ricordiamo a pochi giorni dal giorno della sua nascita su Polytropon Magazine con l’incipit de La notte (Giuntina Editore, 1980) per concessione dell’Editore.

Lo chiamavano Moshé lo Shammàsh, come se dalla vita non avesse avuto un cognome. Era il factotum di una sinagoga chassidica. Gli ebrei di Sighet – questa piccola città della Transilvania dove ho trascorso la mia infanzia – gli volevano molto bene. Era molto povero e viveva miseramente. Di solito gli abitanti della mia città, anche se aiutavano i poveri, non è che li amavano tanto: Moshé lo Shammàsh faceva eccezione. Non dava fastidio a nessuno, la sua presenza non disturbava nessuno. Era diventato maestro nell’arte di farsi insignificante, di rendersi invisibile.

Fisicamente aveva la goffaggine di un clown, e suscitava il sorriso con quella sua timidezza da orfano. Io amavo quei suoi grandi occhi sognanti perduti nella lontananza. Parlava poco. Cantava, o meglio canticchiava. Le briciole che si potevano cogliere parlavano della sofferenza della Divinità, dell’Esilio della Provvidenza, che, secondo la Cabbalà, attendeva la Sua liberazione in quella dell’uomo.

 Feci la sua conoscenza verso la fine del 1941. Avevo dodici anni ed ero profondamente credente. Il giorno studiavo il Talmùd e la notte correvo in sinagoga per piangere sulla distruzione del Tempio.

Un giorno chiesi a mio padre di trovarmi un maestro che potesse guidarmi nello studio della Cabbalà.

 – Sei troppo giovane per queste cose; soltanto a trent’anni, ha detto Maimonide, si ha il diritto di avventurarsi nel mondo pieno di pericoli del misticismo. Prima devi studiare le materie di base che sei in grado di capire.

 Mio padre era un uomo colto, poco sentimentale. Nessuna effusione, neanche in famiglia: si occupava più degli altri che dei suoi. La comunità ebraica di Sighet aveva per lui la più grande considerazione e lo consultavano spesso per gli affari pubblici e anche per questioni private. Noi eravamo quattro bambini. Hilda, la maggiore; poi Bea; io ero il terzo e unico figlio maschio; infine Judith, la più piccola.

 I miei genitori erano commercianti. Hilda e Bea li aiutavano nel lavoro. In quanto a me, il mio posto era nella casa degli studi, dicevano.

 – Non ci sono cabbalisti a Sighet – ripeteva mio padre. Voleva scacciare quell’idea dal mio spirito, ma invano. E io stesso mi trovai un Maestro nella persona di Moshé lo Shammàsh.

 Mi aveva osservato un giorno mentre pregavo, al crepuscolo.

 – Perché piangi pregando? – mi domandò, come se mi conoscesse da molto tempo.

ARTICOLO DI ELIE WIESEL

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