Senza Piume e con responsabilità, la ricerca teatrale di Damiano Nirchio

Damiano Nirchio nasce a Bari nel 1975, vive a Giovinazzo e ha radicato in Puglia il suo lavoro di teatrante. “Il Principino” è il suo ultimo lavoro di drammaturgo e regista, ispirato dalla traduzione in lingua barese di Vito Signorile del “Piccolo Principe” di de Saint-Exupéry dopo “Senza Piume” (Premio Eolo Awards 2010 – Migliore novità dell’anno), “Come Pollicino”, “Dalla parte del lupo” e “Ahia!” (Premio Eolo Awards 2017 – Migliore spettacolo dell’anno, Miglior drammaturgia e Miglior attore non protagonista) e “Don Chisciotte”. In questa conversazione Nirchio racconta dell’ultimo spettacolo in scena nella stagione 2018-19 al Teatro Abeliano di Bari e in Puglia e del proprio percorso che dalla Compagnia Diaghilev lo ha portato a collaborare con diverse realtà del territorio pugliese, come La luna nel letto con cui nel 2006 ha avviato il Teatro Comunale di Ruvo di Puglia, e a fondare poi la sua Compagnia Senza Piume assieme ad Anna de Giorgio.

Quando hai cominciato a fare Teatro e perché?

Mio padre ha sempre avuto una grande passione per il Teatro e faceva parte della piccola compagnia amatoriale del mio paese, Giovinazzo, per cui da piccolino mi portava con sé. Vivevo e giocavo in questo spazio (in un luogo) nel centro storico della cittadina, dove la qualità del lavoro era piuttosto alta: giocavo in questi magazzini pieni di maschere, pupazzi animati, tra sipario, quinte, pubblico che arrivava… erano tempi in cui era possibile fare Teatro rilasciando una ricevuta scritta a mano, in spazi che non avevano nulla di sicuro ma erano nutriti di passione. Erano gli Anni ‘80, tempi in cui ci si misurava con la drammaturgia italiana contemporanea… si lavorava su Brecht e sugli altri. Credo che in qualche modo la dimestichezza e la naturalezza con cui a un certo punto il Teatro è rimasto per me importante tra le cose che ho sempre coltivato, sia nata da piccolino. Poi l’amore è continuato nelle letture al liceo quando anch’io ho cominciato a giocare con la stessa compagnia amatoriale di mio padre, che nel frattempo aveva avuto un ricambio generazionale. Poi è arrivata l’università dove ho avuto modo di coltivare tutta la mia passione per la scrittura, soprattutto quella teatrale, tanto è vero che mi sono laureato con il Professor Vito Amoruso proprio con una tesi sperimentale sulla drammaturgia contemporanea di Edward Bond che in Italia era stato letto e tradotto pochissimo, mi sono occupato di fare alcune traduzioni e tutt’ora la mia tesi viene letta e consultata da chi ora in Italia prosegue la ricerca su Bond.

Quali altri luoghi sono stati importanti per la tua formazione?

Negli anni dell’università sono arrivato alla Casa dei Doganieri, dal Centro Diaghilev, dove sono rimasto a fare la scuola più bella che secondo me si possa fare: quella meno ufficiale ma più interessante per quello che poi è il senso del mio far teatro. Avevo la possibilità di lavorare ogni stagione con tre o quattro con maestri importanti a livello nazionale e anche internazionale. Si poteva stare un mese e anche di più con loro seguendo il loro metodo e la loro ricerca, si debuttava con il lavoro finale e si rimaneva quindici giorni in scena, a volte anche di più. Sono passati Marco Sgrosso, Elena Bucci, Simona Gonnella, Gianni Conversano, Daniele Abbado, Caporossi e Raimondi, in ordine sparso… lì ho conosciuto Mariano Dammacco che incominciava la sua ricerca di drammaturgo e regista e con lui ho lavorato come attore e come assistente alla regia a tre lavori. Poi potevamo vedere il teatro di grandi artisti come Ruggero Cappuccio, Isa Danieli, Enzo Moscato… e quindi seguivo, anche nel buio e seduto in un angolo, una settimana di riallestimento e vedevo da vicino come quegli attori facevano il loro training per andare in scena… Per sette anni è stata la scuola più bella per me…

Come hai scelto di lavorare per i giovani?

È nata una amicizia con il CREST di Taranto con cui abbiamo cominciato a lavorare ad un Teatro per ragazzi scoprendo quello che sarebbe diventato uno degli ambiti in cui oggi ci impegniamo maggiormente: dedicare la ricerca teatrale alle nuove generazioni ha per noi da subito una valenza etica, di progetto sociale e civile sulla comunità, molto importante. In quegli stessi anni cominciai il lavoro con il disagio psichico perché mia madre, due o tre anni dopo la legge Basaglia, aveva aperto nella nostra regione insieme ad altri collaboratori una delle prime comunità dedicate al disagio psichico in Puglia. È una delle più antiche e longeve, tutt’ora operativa, è diventata una grande cooperativa, la Cooperativa Antropos con sede legale a Giovinazzo. Quindi la mia esperienza nel sociale nasce con mia madre che mi dice “Beh, fai teatro da tanti anni, perché non lo fai con i nostri utenti?” e di lì è nata la grande passione che si è tramutata in studio e approfondimento per poter fare sempre al meglio e sono nate, per me, esperienze umane innanzitutto, ma anche proprio artistiche fortissime.

Così è nato anche “Senza piume”.

Eravamo al Teatro Traetta di Bitonto per un nostro progetto e uno degli utenti, Nicola, un’ora prima della rappresentazione si siede sui gradini del teatro Traetta e dice “Io oggi non vado in scena” e questa è una cosa che quando si lavora con un certo tipo di attori bisogna mettere in conto. Gli rispondo “Ma perché non vuoi? Io rispetto la tua decisione, se a te non va non lo facciamo, andare in scena deve essere un piacere quindi se non lo è va bene così… però dimmi perché”. Lui dopo tanti ragionamenti mi dice “No, non posso andare in scena oggi perché sono triste” al che gli chiedo ancora “Perché sei triste?” e lui, guardando le rondini – era maggio – “Perché fin da quando sono nato vorrei tanto volare ma sono nato senza ali”. Una metafora di una poesia unica. Sono riuscito a convincerlo solo perché davanti a tanta poesia, davanti a tanta sintesi così artisticamente perfetta… non si hanno argomenti di nessun tipo, riuscii solo a replicare “Hai descritto perfettamente la mia condizione, io credo che tutti conviviamo con questa sensazione, appartiene a tutti gli essere umani, a tutti coloro che hanno un minimo di sensibilità… tutti si trovano un giorno a fare i conti con i propri sogni, con tutte le cose che nella vita per vari motivi non sono riusciti a realizzare o non potranno realizzare, il confronto col proprio limite…”. Solo quando Nicola ha avuto la sensazione che quello che viveva era una condizione diffusa, solo allora ha deciso di fare lo spettacolo. Quando poi si è trattato di dare il titolo allo spettacolo e il nome alla compagnia l’anno dopo, ho pensato che la locuzione “senza piume” raccoglieva tutta la nostra poetica. Oltre che il nostro sentire.

Il filo conduttore di tutta la vostra storia sia proprio nella capacità di fare della solitudine un momento che si può anche superare da cui trarre ricchezza. Tornando al tuo lavoro con i malati psichiatrici qual è la ricaduta maggiore che hai visto negli attori e nel pubblico attraverso il Teatro?

È proprio la possibilità di non usare un “loro”. Nel tempo sono diventato anche mediatore, come consulente del tribunale, lavoro con tutto ciò che ha a che fare con la giustizia non più punitiva, retributiva, risarcitoria ma riparativa che è il nuovo corso, si spera, della giustizia. È proprio la possibilità di non usare quel “loro”, il “noi” e il “loro”, anche in maniera metaforica è poter abbattere, annullare quella linea di demarcazione… mi piace pensare che se il Teatro ha ancora un senso, una funzione è questa. Guai difendere a spada tratta il bisogno della in-funzionalità di ciò che si fa… non credo molto in questa cosa un po’ romantica, per quanto io faccia una battaglia continua contro il diritto all’in-funzionale, cioè il fatto di non essere immediatamente produttivi per come la società richiede di esserlo, sono uno che difende molto il fatto che ogni nostro pensiero, gesto o azione, poiché ha inevitabilmente una ricaduta in quanto gesto comunicativo, ha bisogno di responsabilità. Responsabilità significa avere sempre contezza di quello che produce, in termini anche soltanto emotivi nella relazione, il teatro è l’esaltazione del gesto comunicativo, perché è moltiplicare all’infinito l’azione del comunicare, dell’essere. Automaticamente deve avere un livello di responsabilità decuplicato, è mediazione, tramite, il Teatro deve costruire ponti tra i lembi slabbrati della comunità. Anche il teatro per ragazzi, sfuggendo a qualsiasi tipo di teatro per ragazzi che rimane divertimento, intrattenimento dei piccoli, deve fornire ai ragazzi le parole e gli strumenti per poter fare la loro crescita, i loro ragionamenti, la loro interpretazione del reale. Il fatto che la domenica vengano le famiglie a vedere lo spettacolo e che quindi due o più generazioni assistano allo stesso lavoro, significa dar loro un terreno comune su cui poter continuare il confronto e il dialogo su determinati temi. Fornire quindi un pretesto, delle parole, delle immagini, delle metafore per poter parlare della morte, della malattia, del sesso, del destino, del senso dello stare al mondo, di tutto ciò di cui il Teatro si è sempre occupato.

Arriviamo a Il Principino. Anche in questo caso c’è un tema molto forte e temuto che è quello dell’Alzheimer. Come hai costruito questo lavoro?

Come per tutti i lavori, lo so che è strano da dire, ma è così, c’è una parte della genesi che so spiegarti razionalmente e una parte che non so come spiegarti. Allora, quella spiegabile razionalmente è che accadono nell’arco di alcuni mesi delle cose che si incastrano in maniera insolita tra di loro. Vito Signorile che mi regala la sua traduzione del Piccolo Principe per cui mi ritrovo tra le mani un Piccolo Principe in una lingua che apparentemente non avrebbe molto da aggiungere, un incontro insolito, uno strano binomio quello che leggo e poi c’è la conclusione della vita di uno zio di cui io ho avuto purtroppo la possibilità di osservare, di vivere da vicino tutte le fasi della sua malattia. È stata un’alchimia che non saprei spiegare, perché quando poi ho cominciato a chiedermi cosa poteva diventare quella traduzione in dialetto barese del Piccolo Principe sulla scena, è venuto fuori la possibilità di raccontare innanzitutto un rapporto padre-figlio (ed era un momento in cui avevo appena saputo che sarei diventato papà)… quindi credo che inevitabilmente si facciano un po’ i conti con il figlio che si è, si è stati e il papà che ci si accinge ad essere. Lo spettacolo non condivide quasi nulla del rapporto che invece felicemente ho costruito con mio padre, però ha a che fare con quell’inevitabile intrigo di amore-odio che col proprio genitore si ha, fosse solo per il fatto di appartenere a epoche uguali ma differenti. Tutto questo è andato a finire nella stessa pentola finché, come sempre mi accade, mi sveglio la mattina e sento di avere una sintesi, un’idea possibile da rincorrere. L’ho rincorsa con la scrittura che è sempre il metodo con cui io mi approccio ai progetti… nascono quasi sempre prima sulla carta, nascono sempre in maniera abbastanza chiara, nel senso che quando ho finito di scrivere ho un’idea piuttosto chiara di come voglio tradurlo in scena, salvo poi interrogare la scena e divertirmi a tagliare… ma c’è sempre un’idea di massima che rimane integra dal momento in cui poggio le mani sulla tastiera del computer al momento in cui consegno lo spettacolo al pubblico. La drammaturgia per me non è ancillare rispetto al lavoro di messa in scena ma è già una messa in scena e in questo caso, come ultimamente mi sta capitando, ho scritto sapendo per chi stavo scrivendo… è una cosa molto bella perché io regista del lavoro incontro l’attore già nella scrittura, ed è già un misurarmi con lui o con lei o con loro che ho avuto già modo di vedere in altri lavori, prima ancora di incontrarli sulla scena, per cui è veramente uno scrivere con, uno scrivere per, non è uno scrivere e basta. Non lo so se è fondamentale, ma cerco la strada a me più congeniale.

Ma si può, tu pensi, scrivere senza avere un riferimento, una immagine mentale, all’attore che poi dovrà mettere in scena?

Non lo so, io non l’ho mai fatto e non lo saprei fare. Ho bisogno di scrivere, mi piace scrivere sapendo, immaginando già…è una scrittura che non è mai svincolata da quello che poi accade in scena, è proprio un simularsi la scena in testa.

Del resto la Drammaturgia è per la carne, sulla scena. Un dettaglio mi ha colpito molto, rispetto al tema del ricordare e del dimenticare. Hai usato la canzone di Gino Paoli, Senza Fine, proprio per il finale e, sarà per il taglio di luci, sarà per la tematica padre-figlio, sarà per la musica stessa, mi è tornato in mente “La pazza gioia” di Virzì. Hai cercato la citazione?

Non in maniera diretta… però come sempre accade l’eco delle cose lette o viste al cinema sicuramente poi trova una connessione nel lavoro di composizione che risuona di (quelle) cose già viste, già lette già sentite… è più bravo lo spettatore a trovare le connessioni e a ripresentarle a chi le ha scritte, a chi le ha composte sulla scena, di chi invece le compone… come sempre accade a chi vede le cose troppo da vicino poi sfugge tutto il quadro d’insieme e il rapporto col complesso. La canzone finale, anche lì è stata un po’ un’alchimia… eravamo vicini alla fine dell’allestimento e a volte io quando scrivo immagino anche già tutta una serie di musiche possibili laddove sento che sarebbero quelle drammaturgicamente esatte. Per il finale in questo caso no… poi arriva per radio, un bel giorno, Senza fine e scopro che il testo dice più di qualsiasi testo che io avrei potuto scrivere… ed è entrata prepotentemente in scena.

Il lavoro di Signorile per costruire questo personaggio che lotta con la sua malattia è stato anche incontrare i malati di Alzheimer, tu sei stato con lui?

No, lui è andato da solo ad incontrarli. Anche perché lui, avendo assistito suo padre, ha portato nel lavoro inevitabilmente la sua storia, il suo ricordo, la sua memoria. No… lui ha voluto incontrare da solo queste persone anche perché il Presidente dell’Associazione a cui si è rivolto è un suo amico. Credo che abbia fatto un tipo di lavoro che era meglio far rimanere molto intimo, perché anche l’osservazione, lo stare assieme rischia di diventare poi un fatto un po’ troppo scientifico… quasi zoologico se si fa in gruppo. Invece ho ritenuto con Vito, abbiamo condiviso questa scelta senza dircelo, di lasciare questo lavoro molto suo, anche perché aveva la sua esperienza molto dolorosa … io avevo la mia che mi era servita per concepire il tutto… era giusto lasciarci soli.

In scena c’è sabbia e c’è polvere. Il deserto, ancora una volta e la solitudine. Poi c’è il veleno della Fibronit. Un altro tema piuttosto dilaniante: quello dell’industrializzazione e dei suoi effetti cancerogeni.

Rispetto alla polvere, ai veleni e all’industrializzazione diciamo che negli ultimi quaranta/cinquanta anni il grosso ricatto – soprattutto qui al sud, penso all’esperienza paradigmatica della Puglia con l’Italsider, ILVA, ora Ancelor Mittal – si basa sul barattare senza troppi infingimenti la salute e la vita della gente con la possibilità di poter lavorare e quindi poter illusoriamente vivere dignitosamente la vita residua, superstite grazie alla sicurezza del salario. Se dovessimo individuare un filone possibile della tragedia di oggi direi che è proprio questo… per cui, come diceva John Lennon, “L’eroe della tragedia contemporanea è colui il cui arbitrio è leso da questo tipo di ricatto dove non è possibile scegliere di vivere in una determinata maniera perché l’unica possibilità è quella di vendere la vita stessa in nome della vita”. Una forma di sacrifico eroico che il padre incarna perfettamente perché è perfettamente conscio e cosciente di sacrificare la propria esistenza, addirittura la propria moglie, la donna che ama di più al mondo, scambiando legittimamente la vita, la realizzazione, ciò che di buono può fare, l’amore del figlio, con quel tipo di scelta. Ed è qualcosa di molto comune in quella che è stata la classe media delle nostre città.

C’è un momento nello spettacolo in cui il figlio ripercorre gli Anni ’60 e ’70, tra attentati e violenze, in maniera volutamente grottesca. Sembra un ritratto del nostro tempo, in cui la tensione morbosa vince sulla riflessione critica.

Sì, lì c’è volutamente una provocazione, l’ennesima del figlio, in cui la sfera privata e quella pubblica fanno ancora una volta un corto circuito e lui prova a sfondare il muro della sfera privata provando a passare dalla parte del pubblico, visto che il padre è ormai morbosamente attaccato alla TV, ai telegiornali e a quello che le TV mandano. Ovviamente è un gioco, una provocazione, ripercorre quelli che sono stati i primi scandali di cronaca che hanno tenuto banco in quegli anni, che poi trovano nella tragedia di Alfredino la loro grande prima celebrazione. Con Alfredino accade quello che succederà da quel momento in poi col grande paradosso di affezionarsi alle sorti di un bambino caduto in un pozzo dimenticandosi dei bambini di casa ed è quello che accade tutt’oggi, per cui si passano ore e ore davanti alla TV, ora davanti ai social network, a tutto ciò che è informazione, possibilità di rimanere in contatto con una storia sacrificando la propria storia, la propria sfera intima, personale, privata, gli affetti, le relazioni più vicine… per cui è veramente il paradosso di prendersi cura e preoccuparsi dell’Alfredino della TV e dimenticarsi degli Alfredini che ci sono in giro per casa.

Proprio la televisione è un’altra protagonista, presente in scena. Perché hai scelto di ambientare la vicenda in questo lacerto di tempo, quello della tragica caduta nel pozzo di Alfredo Rampi a Vermicino?

Trovo che quella vicenda, ma non lo dico solo io, è un’analisi già fatta e già dimenticata, per alcuni aspetti rappresenta il momento in cui per la prima volta gli italiani si rendevano conto che c’era metaforicamente il più piccolo di loro in fondo a un pozzo che rischiava di morire. Il fatto che l’Italia intera non sia stata capace di fare questa operazione di salvezza con la sua cura, col suo impegno e con chi materialmente era lì a operare, in qualche modo profetizzava e prefigurava quello che sarebbe successo: viviamo in un’epoca in cui nelle mense scolastiche c’è il più piccolo, il più debole che non può pagarsi la mensa e viene chiuso in un’altra stanza con acqua e crackers. Quanti piccoli Alfredo abbiamo lasciato nei pozzi e ci siamo rassegnati a lasciarveli.

articolo di irene gianeselli

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