
A quattordici anni ha incontrato il Teatro a Napoli. È socio fondatore delle Compagnie Falso Movimento e Teatri Uniti, l’innamoramento con l’altrove è vivo e appassionato, si percepisce dal suo racconto. Andrea Renzi ha alle spalle un solido percorso di attore e regista, ora si trova a Pistoia «Sono al Festival Dialoghi sull’uomo che è alla decima edizione, sto curando la regia di una cosa particolare… sto lavorando con Michele Serra. Ha superato i 25 anni di Amache (l’Amaca è la sua rubrica per La Repubblica, ndr) e Feltrinelli gli ha dedicato un libro che raccoglie una selezione di questo appuntamento quotidiano sul giornale. Insieme stiamo montando L’amaca di domani. Considerazioni in pubblico alla presenza di una mucca, è una conferenza-spettacolo» racconta «sono contento del rapporto che si è creato con Michele perché abbiamo conversato a lungo prima di prendere questa decisione e trovo bello che un giornalista, uno scrittore con un percorso come il suo, abbia deciso di incontrare il suo pubblico a teatro e solo lì. Non in televisione, non sui social, ma in un teatro. Michele è un commentatore molto ironico riguardo le vicende della sinistra italiana, l’ultimo saggio che ha scritto è proprio La sinistra e altre parole (Feltrinelli Editore, 2017). Il monologo che debutta il 24 maggio prende le mosse proprio da lì».
Il titolo di questa conferenza è piuttosto interessante. Perché ci sarà una mucca in scena?
È una scelta che abbiamo fatto insieme perché nel suo percorso di scrittore il rapporto con la natura ha un senso forte ogni giorno di più. Una parte della sua attività è proprio concentrata su una piccola fattoria negli Appennini dove vive e lavora da un po’ di anni. Ha fatto una scelta che gli fa vivere la natura con un’attenzione che in questa epoca è piena di senso. La mucca è il testimone di un desiderio di silenzio profondo che gli animali ci insegnano. Michele parla con gli occhi della mucca puntati su di sé. Noi ci stiamo divertendo e speriamo sia così anche per gli spettatori del Teatro Manzoni di Pistoia e per quelli che ci vorranno vedere nelle tournée future.
La scelta del Teatro è di molti giornalisti e saggisti in questo momento.
Credo che in questo momento le presenze in tutti i settori dello spettacolo dal vivo siano in crescita. È una reazione forse sintomatica dell’invasione delle nuove tecnologie. L’architettura ci consegna vari luoghi in cui la comunità s’incontra… alcuni sono sacri, come le chiese, altri sono spazi all’aperto, come le piazze, il teatro è il luogo d’incontro della società civile. La presenza di nuove tecnologie, quelle che rendono possibili gli incontri sui social in particolare, non lo possono danneggiare davvero perché la sua funzione e la sua identità restano forti e definite. È il cinema che sta vivendo un momento di transizione proprio dal punto di vista tecnico, stanno crescendo generazioni abituate a fruire di narrazioni che una volta erano solo cinematografiche. È la sala cinematografica che sta vivendo un momento di ridefinizione. Al contrario, i confini linguistici del teatro sono molto netti. È chiaro che anche il teatro vive il particolare momento culturale “ristagnante” del nostro Paese, ma la sua identità non mi sembra messa in difficoltà dai cambiamenti comunicativi che la tecnologia ha portato in questi ultimi anni.
A proposito di identità. Che bilancio faresti di questi trent’anni di Teatri Uniti?

Siamo riusciti a celebrare un passaggio inaspettato. Siamo stati bravi a rimanere uniti. Certo, intorno al 2000 il fondatore Mario Martone prese un’altra strada, e fu un momento “traumatico” ma questo non ha impedito di mantenerci in rapporto e di avere collaborazioni importanti (penso a Noi credevamo al cinema e a Edipo a Colono in scena). In un periodo così lungo Teatri Uniti ha avuto fasi molto diverse, trent’anni sono davvero tantissimi e il fatto che questa compagnia esista ancora e sia in attività testimonia anche una convinzione: ci si può evolvere, ci si può aprire a nuove esperienze “in gruppo”. Questo è il dato più importante. Poi le fasi di lavoro andrebbero analizzate strettamente nel merito perché ce ne sono state di molto diverse fra loro. Penso al lavoro sulla drammaturgia francese con Servillo o, al momento della fondazione di Teatri Uniti, il lavoro sulla tragedia greca con Martone. Poi c’è il percorso fondamentale con Antonio Neiwiller e il mio “approccio” alla regia sviluppato nel lavoro insieme a Enrico Ianniello e Tony Laudadio a partire da Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Stoppard fino a Magic People Show di Montesano. È stato un percorso composito, il dato generale è che abbiamo pervicacemente continuato a confrontarci, l’intelligenza è stata quella di non chiuderci. Tutti abbiamo fatto esperienze professionali che ci hanno portato lontano da Teatri Uniti: cinematografiche, televisive, individuali o con altri gruppi di lavoro (penso a Baliani o al Teatro dell’Elfo)… ma è stato bello sentire di avere questa casa comune nella quale poter tornare. Sento che una forza propulsiva si è propagata dalle prime esperienze – anche prima di quelle con Falso Movimento – fino ad oggi ed è stato possibile solo perché nel corso degli anni mi sono conquistato una consapevole libertà: un gruppo troppo chiuso porta a dei picchi espressivi ma può anche essere fortemente condizionante. Avere una casa comune e riuscire a mantenere la porta aperta, ecco quello che è stato il nostro percorso. Il merito di questa longevità è senza dubbio di Angelo Curti, il nostro “manager, produttore, organizzatore” – non saprei come definirlo con una sola parola – sempre centrale nella gestione di questa casa piena di stanze e finestre.
Un bravo padre di famiglia?
Sì, ma anche un amico e un fratello: ha ricoperto tanti ruoli, è stato flessibile in tanti momenti diversi in questi trent’anni. Per esempio, a differenza del Teatro dell’Elfo di Milano con cui sentiamo una forte vicinanza, noi non abbiamo mai avuto un teatro. Loro si sono dati come obiettivo quello di aprire il Teatro Elfo Puccini e ci sono riusciti, è un luogo di cultura bellissimo. Noi non abbiamo mai avuto “mura” e questa scelta, frutto anche, ahimè, di tentativi non andati a buon fine, l’abbiamo letta come un destino di “leggerezza”. Niente mura ma uno spazio per la discussione e la produzione, progettuale vivo e aperto.
Cosa vedi nel futuro di questa Casa?

© Cesare Accetta
Francamente non saprei in questo momento. Uno spirito progettuale più a medio termine ha caratterizzato il periodo della direzione artistica di Martone, gli anni fondativi, è una sua caratteristica personale. Dal 2000 in poi la direzione artistica di Servillo si è focalizzata sul rapporto con la drammaturgia e il lavoro sull’attore, e il suo “stile” ha positivamente influenzato l’approccio di tutti noi a queste grandi questioni. Abbiamo fatto meno piani di medio-lungo respiro e ci siamo concentrati con grande passione sul singolo progetto teatrale. Per quel che mi riguarda la dimensione della regia, che prima consideravo più marginale nel mio personale percorso, mi sta invece stimolando sempre più. Mi sembra di aver messo più a fuoco un personale desiderio di lavoro con e per gli attori, benché io sia uno spettatore aperto e felice di fronte a spettacoli di stili molto diversi. Sento che il mio lavoro come regista è fortemente centrato sulla sobrietà, ho una passione profonda per l’attore, mi piace moltissimo veder crescere l’interpretazione di un giovane o guidare un attore più esperto a scoprire qualcosa di nuovo. E proprio per le ragioni che dicevo, credo che lo spazio dell’attore sia quello che in questo momento definisca al meglio i confini e l’identità del linguaggio teatrale. Per me è un piacere irrinunciabile il dialogo con l’attore e con il me stesso-attore. Sento dentro di me la stessa curiosità degli inizi ma con una maturità diversa. Adesso sento che mi appassionerebbe molto, all’interno di questo discorso attorale, poter aprire un Atelier – e non è facile in questo momento – sull’evoluzione del linguaggio dell’attore. Questo aspetto del nostro lavoro è secondo me è poco approfondito.

© Cesare Accetta
Allo sguardo di spettatori conservatori, il ritrovato rapporto con la parola di alcune compagnie, inclusa la nostra, che provengono dalla ricerca, può sembrare un “tornare indietro” «Ecco – li senti dire – anche chi faceva ricerca sul corpo si è accorto del valore della parola» mentre io credo che ci sia uno spazio diverso, altro, da esplorare. Non un tornare indietro, ma un capire cosa è la parola nel corpo. Avendo avuto nella fase iniziale della mia formazione una esperienza di performer, resta in me un desiderio profondo di fare evolvere la questione: un attore contemporaneo come può misurarsi col suo linguaggio? Ma questo momento culturale rende difficile lo sviluppo della ricerca pura. Negli anni in cui ho cominciato era un po’ più “facile” affrontare certi progetti, le generazioni degli Anni ’60 e ’70 ci hanno spianato la strada e il clima culturale era tutt’altro. Oggi i territori della ricerca si sono ristretti e non è solo questione economica, che pure conta. Anche noi artisti che agli inizi degli Anni ’80 ci siamo aperti ad un desiderio di comunicazione più vasto e a più livelli dovremmo mantenere viva anche la strada della ricerca sperimentale. Rispetto a questo penso, nella mia personale esperienza, a Tango Glaciale che ha incontrato un forte favore di pubblico, sia numericamente che geograficamente: nel 1982 ha letteralmente fatto il giro del mondo. Mi piacerebbe in questo senso, come progetto futuro in Teatri Uniti (che, se giochiamo con le parole, è pensata come gli Stati Uniti del Teatro), ecco, in questa “major” del teatro napoletano, mi piacerebbe trovare il tempo di occuparmi in un ambito laboratoriale dell’evoluzione del linguaggio dell’attore.
Hai però sempre avuto un rapporto molto forte con la parola e col verso. Penso al tuo lavoro su Majakovskij tradotto da Ripellino.
Quello su Majakovskij è un lavoro di sintesi tra quella che è stata la prima fase di Falso Movimento, un percorso di lavoro quasi esclusivamente sul gesto, e quella sulla drammaturgia. Majakovskij è un poeta che faceva della ricerca linguistica uno degli aspetti fondanti del suo lavoro, ha inventato “parole nuove” in russo, che inevitabilmente, si perdono nella pur formidabile traduzione di Ripellino. Proprio il rapporto con la sua poesia innovativa di attore mi ha permesso di utilizzare un linguaggio assolutamente non convenzionale. Ma credo il mio rapporto con la parola poetica dipenda anche dalla frequentazione con Antonio Neiwiller e Leo de Berardinis. Leo è stato un regista sempre molto attento a questo aspetto, sia nel lavoro su se stesso come attore, sia come Maestro nelle sue compagnie, ha formato attori capaci di un linguaggio altro. Riconosco questa tensione e se fossi libero (ma libero veramente) vorrei che il cuore del mio lavoro nei prossimi anni potesse essere la ricerca sul linguaggio dell’attore, un tema che non finisce mai di incuriosirmi, interrogarmi e stimolarmi.
Ma Majakovskij come lo hai incontrato?

© Giuseppe Distefano
Ero nella libreria Feltrinelli di Palermo e sono incappato in una Antologia di sue poesie. Quando ho letto l’incipit di La nuvola in calzoni non ho resistito alla tentazione di immedesimarmi in quella voce “giovane” e nel corso del tempo ho dato vita a Fuochi a mare, spettacolo che mi ha accompagnato per tantissimi anni di repliche. Ho utilizzato una parte de La nuvola in calzoni per presentarmi nel laboratorio di Grotowski. Poi Renato Carpentieri mi chiese di preparare una lettura pubblica in uno spazio di Ferrara: da quella lettura e dal lavoro fatto per Grotowski nacque l’idea di farne una sorta di conferenza poetica con un cielo stellato alle spalle. Mi è servito a far dialogare il corpo futurista e destrutturato con i versi. Anche se l’incontro folgorante è stato con l’anima della poesia di Majakovskij, con la sua biografia così appassionata e complessa: già ne La nuvola in calzoni, scritto a 22 anni, affronta temi universali. Il rapporto con Dio, con la poesia, con l’amore, con la letteratura… questa sua capacità di misurarsi con l’universale con un’energia e un coraggio formidabili mi hanno dato entusiasmo e letteralmente folgorato. Ora non lo sento più nel corpo… sarà che ho cinquantasei anni e penso a lui morto giovane suicida, con quella scossa di gioventù… penso ai miei capelli bianchi e non riesco a sentirmi credibile. Poi mi intristiva che lo spettacolo venisse letto in chiave di nostalgia comunista come se Majakovskij fosse rottamabile propagandista, una lettura legata a fattori contingenti davvero misera. Come diceva Carmelo Bene «Majakovskij è la rivoluzione» e la poesia è rivoluzione. Adesso però sento l’esigenza di trovare confronti adeguati a questa mia stagione della vita. L’ultimo incontro poetico dal quale ho sviluppato uno spettacolo è stato quello con Caproni che ritengo uno dei massimi poeti italiani contemporanei. Fosse per me farei quasi solo teatro di poesia. Forse in questo, oltre ad una indole personale, ha avuto un peso decisivo il rapporto e l’insegnamento di Antonio Neiwiller.
Non posso fare a meno di pensare al Manifesto del Teatro pasoliniano ascoltandoti.
Dritto all’inferno di Antonio Neiwiller era dedicato proprio a Pasolini. Antonio aveva un approccio ai mondi poetici che affrontava non centrato sulla parola, partiva dal silenzio e dal mistero della presenza. E di Pasolini, che è stato un artista che si è espresso in discipline diverse e che ha lasciato una traccia importante del suo lavoro anche nel cinema, ha tenuto fortemente presenti tutti gli aspetti “visivi”. In Canaglie, spettacolo che non andò in scena per la prematura scomparsa di Neiwiller, il suo desiderio era quello tornare alle fonti, alle sorgenti della poesia: era un lavoro su un immaginario circolo di poeti. Anche per me i poeti sono le fonti, sono le luci. Mi sento un po’ simile ai russi in questo… penso ai funerali di Pasternak: una folla oceanica per salutarlo. La Russia ha un rapporto intenso, viscerale coi suoi poeti: li riconosce come Maestri spirituali. Penso anche alle giornate finali di Tolstoj. Il popolo russo i suoi poeti li interroga come dei santi, sono figure di riferimento che indicano una strada.
È accaduto proprio a Pasolini, al suo funerale Campo de’ Fiori non riusciva a contenere la folla.

© Alessandro Gattuso
Sì, forse perché Pasolini si è fortemente esposto. Ma non è accaduto a Caproni, a Zeichen e a tanti altri, poco, troppo poco letti. Felici Pochi per la Poesia, no? Ma va bene così, peccato per chi rinuncia a un simile piacere. Per me l’incontro con la poesia è davvero folgorante, anche se avviene a strappi, per fasi. Entro in un mondo poetico e poi devo dargli il tempo di farlo risuonare, di assimilarlo. E attraverso la poesia rafforzo il legame con la lingua italiana, sento la necessità di avere un corpo a corpo profondo con la mia lingua madre. Dopo Caproni ho approfondito Ungaretti, però non me la sento di proporlo… sul mercato devi avere una forza produttiva e di impatto che non ho. Carmelo Bene se lo poteva permettere …
Come si dice? Erano altri tempi?
È vero… però, ad esempio, Toni Servillo legge Napoli è uno spettacolo di pura poesia: Di Giacomo, Moscato, Sovente, Eduardo poeta… ed è uno spettacolo tutto dentro la lingua napoletana in cui il teatro incide sullo spettatore con le sue forze primarie: quella dell’attore e della presenza umana e quella della poesia.
Di fatto un attore deve trovare un canto per stare in scena quando affronta la poesia.
Sì, del resto all’origine la poesia è orale. Quindi è un momento in cui il corpo, il respiro e la voce cantano insieme… come dici tu, solo se trovano un canto, fanno poesia. Mimmo Cuticchio è un poeta, canta poeticamente. Mi fai ricordare di quando avevo quindici anni e andai a Castelporziano, al Festival dei poeti, organizzato da Simone Carella del Beat 72… mi ricordo lo stupore di tutti quando Leroy Jones lesse Denaro (Money) una sua poesia: fece un rap, quando il rap non esisteva ancora, cantò. E fu un momento di grandissima emozione e coinvolgimento per una folla di persone. Pensiamo all’anziano Ungaretti che legge i suoi versi con quella voce roca e graffiata… c’è un corpo poetico, un corpo teatrale che emerge dalla poesia. Oltre Carmelo Bene, anche Leo de Berardinis mi ha lasciato ricordi di teatro e di poesia ineguagliabili. Andai alla prima del suo spettacolo dedicato a Leopardi a Recanati, lo fece rivivere con la sua voce unica in un labirinto di tulle bianco. Allora seguivo ogni suo passo: è stato un maestro, un punto di riferimento per una fase importante della mia formazione. Voglio chiarire che mi piace moltissimo lavorare anche con compagnie teatrali numerose: mi piace la discussione, la relazione in scena e lo stare a stretto contatto durante le tournée. Vita e teatro si mischiano e si nutrono a vicenda.
Tornando a Neiwiller e alla parola, lui parlava di processo di “ri-attraversamento” tra Avanguardie e tradizione alta del teatro napoletano e di una necessità di appropriarsi di qualcosa d’altro, di imprendibile e di indicibile. Pensava ad “una rappresentazione che sta dietro e dentro le cose. Mi sono trovato davanti due categorie fondamentali dell’esistenza dell’uomo: spazio e tempo. Il silenzio è ciò che scandisce in maniera più eloquente, molte volte, il tempo ed è ciò che ti fa percepire in maniera più profonda lo spazio. […] in questo caso il silenzio è inteso come assenza di parola. […] Non è più il tempo della parola a scandire la rappresentazione, ma è un altro tempo e non è più uno spazio tra le azioni a scandire il tempo della rappresentazione, ma è uno spazio mentale, interiore. Quindi uno spazio che continuamente si scompagina e dal buio ritorna alla luce”. Fino a dove senti che questo ri-attraversamento ti riguarda?

Mario (Martone, ndr) e Toni (Servillo, ndr) non posso dire che siano stati miei maestri perché siamo troppo vicini come età… credo che siano stati miei fratelli maggiori, anche loro si formavano mentre mi formavo io: ci siamo formati insieme. Loro sono stati due leader e hanno contribuito alla mia formazione, ma quando si parla di un rapporto maestro-allievo credo che una certa distanza generazionale abbia un suo peso. Toni mi ha aiutato a portare a compimento una fase di formazione che era iniziata nell’ ‘87 nel Filottete di Mario – che è stato il primo personaggio in un grande testo teatrale – con l’attraversamento della drammaturgia francese, con Tartufo di Molière, poi con Marivaux de Le false confidenze e infine con l’esperienza della Trilogia di Goldoni.

Il lavoro di preparazione con Toni, l’approfondimento di grandi temi come il rapporto dell’attore con la battuta, l’approfondimento in verticale di certe drammaturgie, sono stati fondamentali. Il suo perfezionismo nel lavoro sul personaggio è stato un elemento che si è trasformato in una dinamica creativa introiettata, così come la cura del lavoro della Compagnia durante le repliche. Ci ha insegnato a non perderci nella routine: ti aiutano i compagni di lavoro, il pubblico sempre diverso. È come un respiro: mutando geografia, muta lo spettacolo. Con Toni il lavoro è stato tanto e l’approfondimento di questi ed altri aspetti minuzioso. Sì, il perfezionismo di Toni è una grande lezione. Se vogliamo che il teatro incida, dobbiamo essere molto esigenti con noi stessi, come artisti è il nostro primo dovere: curare il lavoro e offrirlo al pubblico nella maniera migliore. Lavorare, lavorare, lavorare… non essere mai sazi del proprio lavoro. Con Antonio (Neiwiller) invece ho sentito il rapporto maestro-allievo dispiegato nella serenità con cui mi indirizzava. Mi guidava verso aspetti del lavoro su me stesso… difficili anche da spiegare, se vuoi.
Neiwiller mi sembra che avesse un distacco perfino da se stesso, come dicevi tu: una serenità che significa forza. Era sicuro, dal poco che posso leggere di suo oggi, era sicuro di cosa cercava. Di come, anche, lo cercava.

© Cesare Accetta
Sì, Antonio aveva una formazione universitaria filosofica: aveva proprio coltivato in profondità questa disciplina ma conservava un animo – a dispetto del suo cognome di origine tedesca – intimamente napoletano. Il fatto di praticare diverse discipline (dipingeva, scriveva, fotografava, faceva video) per lui era assolutamente un’unica attività, un unico flusso creativo. Anche cucinare faceva parte del suo mondo creativo. I due spettacoli che ho preparato con Antonio furono provati a Procida: cercava un isolamento, una distanza dalla quotidianità, un rapporto con un luogo naturale che potesse farci prendere le distanze dal quotidiano. Invece con Falso Movimento noi eravamo immersi nel flusso mediatico dei segni metropolitani: fare Tango glaciale e portarlo a New York per noi era un sogno che si realizzava perché New York era l’epicentro del cinema che vedevamo, delle musiche che ascoltavamo, e nulla ci dava più soddisfazione che immergerci in quella metropoli contemporanea. Mentre in quella dimensione eravamo dentro fino al collo e felicemente immersi anche nelle contraddizioni della società pop, con il teatro di Antonio presi coscienza della necessità di staccarmi da questo mondo e lui ce lo insegnava concretamente attraverso questi laboratori che erano anche dei ritiri per lui e per il gruppo. Contava molto il fatto di trasferirci a Procida, si lasciavano alle spalle le piccolezze quotidiane e le influenze negative. Il ritirarsi invece sì, influenzava in maniera molto concreta il lavoro: lui utilizzava delle tecniche di improvvisazione e delle volte ci invitava a concentrarci nel giardino sotto gli agrumeti, per poi dal giardino entrare nello spazio scenico. Mi ricordo delle scene che poi non furono montate… una volta per Dritto all’inferno, pensando al funerale di Pasolini, portammo all’interno dello spazio scenico in cui provavamo un enorme albero secco, enorme davvero… cinque di noi lo tenevano in spalla, come fosse il corpo del Poeta. Lo portammo dal giardino nella stanza dove Antonio era seduto sulla sua sedia con il suo blocco notes, la sua matita, il suo sigaro, attento ad ogni dettaglio delle nostre improvvisazioni. Fu un momento di rara intensità. Antonio si rendeva conto che serviva qualcosa di più estremo per prendere le distanze dal mondo in cui si era immersi e che bisognava andare a toccare qualcosa di più essenziale per ottenere come diceva lui un altro sguardo. Cercava di condurci prima di tutto ad avere un contatto profondo con noi stessi, cosa che non è sempre richiesta dai registi in una esperienza teatrale… una sera ricordo che me lo disse «Vedrai che le cose che stiamo scoprendo insieme in questo laboratorio le che capirai nel tempo, ti ritorneranno» ed è stato così. Lui faceva fare improvvisazioni sul vuoto, per capire cosa significa lo stare in scena. Lui diceva così, con la sua voce bellissima, rotta e profonda, un po’ afona: ora lavoriamo sul vuoto. Le parole non riescono a definire sempre tutto, proprio per questo c’è il teatro… alcune cose Antonio le lasciava apparentemente vaghe, piano piano capivi che dovevi partire da te, dalla tua presenza, dal tuo corpo, dalla forza della presenza. Il suo lavoro sull’attore è molto profondo, per fortuna rimangono documenti e scene di film in cui, fosse solo per la qualità della sua presenza… la sua pienezza espressiva è stupefacente.
Perché, se dovessi trovare il modo di definirlo in fretta, perché era così stupefacente?

© Cesare Accetta
Perché aveva accesso a questa porticina segreta che è proprio il contatto con la tua parte più profonda, più autentica. C’era una intimità che lui riusciva a stabilire con la sua presenza scenica ben oltre il problema del personaggio e del testo teatrale. Questo è un filone di ricerca che deve rimanere, secondo me, attivo. Adesso, avendo piccole responsabilità pedagogiche, cerco anche io di far riflettere i giovani attori su quanto incida la qualità della presenza nel rapporto con lo spettatore. La cura della qualità della presenza è il primo elemento di contatto con lo spettatore, al di là del come fare il personaggio, ed è una cura che occupa un percorso talmente lungo da diventare anche altro, non è solo lavoro, è una porta d’accesso a un mistero, al conosci te stesso. Antonio era un grande attore perché era un pittore, un grande cuoco, perché scriveva ogni giorno il suo diario e faceva domande… perché per toccare le corde più autentiche sue e della sua Compagnia voleva stare a Procida e quindi legava indissolubilmente arte e vita. Nell’ultimo periodo era appassionato di Monet e voleva fare un film su di lui, era appassionato del Monet che si ritira a dipingere sempre gli stessi fiori con luci diverse in ogni stagione… Antonio sapeva come guardare queste pareti del sé, come mantenerle altamente porose e questo muta profondamente la qualità della presenza, dell’esserci. In scena e non. Anche per migliorare come essere umano.

in (New) Magic People Show di Giuseppe Montesano (2006) © Fabio Esposito
Ai giovani si possono dire tante cose: unitevi in gruppi di lavoro per non essere in balia della professione, createvi una Compagnia vostra… io non ho avuto la vocazione, la chiamata al mestiere di attore, non era il mio obiettivo arrivare a recitare al Piccolo di Milano, non ci ho mai pensato … però è vero: non ho mai neanche pensato di fare altro. Credo che o si parla di un’ossessione per il teatro… oppure non so di cosa si parli. Non è una questione di talento, è un’ossessione. Anche se hai dei doni, come la bellezza o una voce stupenda e puoi lavorare sul talento, è l’ossessione che attiva un insieme di opzioni che metti intorno a quelle doti, e se non attivi quell’insieme di azioni, che fanno di te un ossessionato, quel talento non serve a niente. Sì, è questione di una magnifica e dolcissima ossessione.
articolo di irene gianeselli
Si ringrazia Laura Ricciardi per la preziosa collaborazione archivistica delle foto di Andrea Renzi
Informazioni tratte dal sito Teatri Uniti