La Madre al Teatro Piccinni di Bari: il dramma di Florian Zeller sulla gabbia delle relazioni

Certe volte, il nostro tempo ci riserva delle coincidenze formidabili e, del resto, su questo aspetto Milan Kundera ha costruito uno dei suoi capolavori, L’insostenibile leggerezza dell’essere. La coincidenza è questa: in Italia si mette in discussione il diritto all’aborto (salvo poi punire socialmente le “diverse” che portano a termine gravidanze non conformi alla doppia morale borghese e quindi i “diversi” che vengono al mondo fuori dal sistema identitario conformista) e in teatro si incontra la drammaturgia prismatica di Florian Zeller con la versione italiana de La Madre che mette in discussione non soltanto il senso della maternità, ma soprattutto il ruolo de-politicizzato delle donne.

Al centro della vicenda, Zeller pone il turbamento psichico-fisico di una moglie di mezza età che ha scoperto l’indipendenza dei due figli, oramai venticinquenni, e del marito.  L’episodio è piuttosto lineare una volta ricomposto, ma la drammaturgia è interessante proprio perché va a scomporlo non filtrando il delirio della protagonista in modo comodo per lo spettatore, ma lo costringe a seguirne l’evoluzione individuando dei nodi cruciali. La struttura episodica ricorda Sliding Doors (Peter Howitt, 1998) e infatti di intelaiature senza porte e di uno specchio posto come soffitto, che a un certo momento addirittura viene rivolto contro gli spettatori (a ribadire anche il ruolo politico del teatro), è circondata la mente della protagonista nell’efficace costruzione scenica di Luigi Ferrigno.

Sicuramente debitore di un certo Krzysztof Kieślowski (si pensi a Il caso del 1981), Zeller volutamente chiede uno sforzo a chi partecipa: siamo noi che guardiamo a dovere scegliere di volta in volta quale sia la realtà e l’allucinazione, a dovere distinguere tra l’episodio primo e la sua riproduzione o alterazione nel delirio. Anche ne Il padre e ne Il figlio, gli altri due testi che compongono la trilogia (il secondo è diventato già un film da Oscar con Anthony Hopkins), ritorna questo tipo di sfida. La gabbia della mente si sovrappone a quella sociale, borghese, mette in discussione i ruoli e i sistemi relazionali, ne svela il marciume e le ipocrisie. Nonostante il titolo del dramma ci faccia pensare che la protagonista è appunto la madre di famiglia, sono le relazioni all’interno di questo piccolo gruppo a essere al centro della discussione (efficace in tal senso la partitura fisica della scena in cui a Lunetta Savino, che interpreta appunto la Madre, il regista fa riavvolgere un filo rosso che la fidanzata del figlio ha teso tra le intelaiature, le sedie e il tavolo nel cambio scena). Perché le coppie non superano il matrimonio così come è stato pensato sino ad oggi, cioè come a una gabbia, in cui non si può ammettere che l’amore, a un certo punto della vita, può anche finire e cambiare forma?

Il teatro, che sembra avere perso la sua forza politica e sociale, in questo caso sembra mantenere il suo ruolo: certo troppo rassicurante è la direzione del finale aperto scelta dal regista, ma il senso di inquietudine e la sospensione del giudizio permangono dopo lo spettacolo.

Più che mettere in discussione i diritti delle donne (come l’aborto, su cui non si dovrebbe più discutere nel 2024: è un diritto), bisognerebbe ragionare sull’effettiva entità del loro ruolo politico e sociale nel sistema neoliberista contemporaneo. “Mi avete usata” dice la Madre di Zeller svuotata del suo compito di chioccia una volta che figli e marito sono cresciuti da bravi consumatori di sentimenti e di vita, ma non viene capita: i personaggi maschili sono del tutto impreparati all’ascolto di questa doglianza, non ne comprendono fino in fondo il senso perché conoscono una libertà che al femminile viene negata da secoli e la donna giovane ancora non sa, non è consapevole di ciò che non è e che non sarà.

I commenti degli spettatori e delle spettatrici (questo è più inquietante) fuori dal teatro sono tutti simili tra loro: persone tra i quaranta e i settant’anni si dicono ridendo “Anche mia madre è una nevrotica, mi chiede sempre quando vado a trovarla”. Va bene, ma cosa porta  le madri (e le nonne) a diventare delle nevrotiche? Forse il fatto che, nella maggior parte dei casi, sono state considerate delle produttrici di prole e delle serve di casa, sul cui corpo stabilire un potere, come da tradizione patriarcale e fascista.

Lunetta Savino mantiene nella sua interpretazione una melodia unica, senza variazioni mentre intorno a lei gli altri personaggi cambiano a seconda dell’alternarsi del delirio e della realtà (in ogni caso alterata, pure questa dal sistema relazionale disfunzionale). Una scelta rischiosa che rende il personaggio fisso nella sua angoscia immedicabile. Andrea Renzi, nel ruolo del marito assorbito dai convegni con le giovani amanti (che però non a caso diventano convegni sul microcredito in piena coerenza neoliberista o, meglio, infocratica, come direbbe il filosofo Byung-Chul Han) offre un’interpretazione prismatica almeno quanto l’eccellente testo, mostrando la sua piena maturità attorale. Il carosello di ingressi e di uscite dei due personaggi più giovani travolgono la Madre che confonde la figlia ritenuta antipatica (complesso da manuale freudiano ancora insuperato, a quanto pare), la fidanzata del figlio, l’infermiera e l’amante del marito in un’unica rivale che assume le sembianze di una sola giovane da cui si sente perseguitata (Chiarastella Sorrentino). Il rapporto con il “figlio maschio” (Niccolò Ferrero) è morboso, risulta interessante vedere in Lunetta Savino anche il riflesso di una nonna, più che di una madre, incapace di accettare la nuova età con serenità. Chi l’ha detto, poi, che una donna non può permettersi un vestito rosso dopo i cinquant’anni? Il conformismo borghese, di cui siamo tutte prede e tutte artefici (pure senza rendercene conto).

In una Europa che invecchia e decade nell’inverno demografico, Zeller si introduce con una velata malinconia e la regia accenna ad una certa comicità che sembra essere a tratti involontaria nell’interpretazione di Savino: l’attrice mantiene una tensione in ogni caso sfidante per tutta la durata dello spettacolo, senza mai sciogliersi del tutto sulla scena. Non si può fare a meno di ripensare al quartetto di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, eppure Zeller, diversamente da Albee che si mantiene sagace e a tratti feroce con la sua ironia, tocca la carne viva di una contemporaneità che si è fatta tutta disperazione e desiderio di autolesionismo. Per vendetta, ma soprattutto per vigliaccheria. Sarà che le donne non sono abituate a scegliere, anche se lo fanno da secoli contro tutti. Persino contro le altre donne, e contro sé stesse.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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