La figlia inutile: proteggere le verità

«In fondo è questo la memoria: incarnare lo scomparso, entrare nelle sue scarpe e muovere le dita dei suoi piedi stranieri, sentire al suo posto attivando i sensi. Solo così il ricordo si scongela e rivela i suoi tesori, come una gemma che nasce nel ghiaccio e lo rompe in primavera quando fiorisce e il sole consente alla vita di riprendere.»

Laura Forti ci ha abituato a un impasto sublime nei suoi romanzi che nel panorama contemporaneo rappresentano decisamente un unicum. L’impasto tende a restituire la complessità: dei luoghi e dei paesaggi, dei volti e dei corpi, del presente e del passato. Entrare in un romanzo di Laura Forti significa sempre entrare in un piccolo fatto vero, ma senza il velo di anacronismi o di morbosità che di solito si addensano sulle storie che ripercorrono i passi di persone realmente esistite. In una semplice frase, per riassumere, Laura Forti non fa dell’autobiografia un territorio lacrimoso e, come si vuole oggi, furbescamente terapeutico. Così scrutare l’anima di vetro della nonna suicida corrisponde all’atto di spazzare le foglie morte dalla sua tomba: una tomba da riempire svuotandola di mistero.

Così La figlia inutile (Guanda, 2024) è il terzo atto di un’unica narrazione che assume il valore di un poema familiare: ai passi de L’acrobata (Giuntina, 2019) e di Forse mio padre (Giuntina, 2020) si aggiungono quelli della nipote che ricuce storie e mette ordine. Proprio come Rabbi Zusya nel racconto tramandato dal filosofo Martin Buber, Laura Forti paga il riscatto per i suoi morti restituendo alle loro vicende un valore universale: la famiglia è così il luogo di transito per l’elaborazione di lutti metastorici, l’ambiente dei conflitti che vengono dissepolti una volta per sempre grazie all’inchiesta.

I traumi transgenerazionali si possono risolvere, o perlomeno alleviare, se si trasformano nella materia di un’indagine. E Laura Forti è ormai padrona del meccanismo narrativo, sa come condurre il lettore per permettergli di scoprire la fitta trama di repressioni, condizionamenti culturali, politici e sociali che costruiscono la realtà dei suoi personaggi che sono e restano, nelle debolezze e nei turbamenti, persone che lottano contro le privazioni e che sono condizionati da tale lotta. Il bene e il male si incontrano e si intrecciano, si deformano fino a dividersi nuovamente: il taglio e netto, incensurabile.

Sovversive e diverse, a loro modo anticonformiste sono Elena Dresner, sua figlia e sua nipote, una linea matriarcale che si dibatte per riprendersi il suo posto in una Storia popolata da uomini non sempre amici, spesso ambigui o addirittura mostruosi. Una linea matriarcale che si impone di uscire dal buio e che costringe la nipote a una sorta di catabasi spirituale dalla quale però esce vittoriosa.

Fortiniana perché problematica, la voce di Forti è sempre robusta, concreta, a tratti pragmatica nel suo manifestarsi. Indomita e febbrile, evoca i corpi e le loro relazioni negli spazi e con i desideri, non risparmia di dispensare giudizi, ma non è mai una voce che condanna. Anzi, raccontare significa restituire non tanto identità, quanto funzione. Sembra che Laura Forti abbia assolto al compito di proteggere le verità dei suoi avi, che sono le verità contraddittorie di un’Italia e di una Europa incapaci di superare e di gestire eredità politiche profondamente complesse e purtroppo anche atroci e inaccettabili. Adesso che è libera, perché lo è, saprà condurci altrove: oltre il tepore della tenerezza più scontrosa, oltre i rimpianti di felicità che si sono accese nel buio prima di cadervi inesorabilmente.

Ma ecco, interviene il narrare che impedisce ai bagliori di spegnersi del tutto, mette in discussione le parole vuote che di solito riempiono le tombe e così di inutile c’è solo lo sforzo di dimenticare ciò che invece chiede e pretende il conforto della memoria.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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