Il 24 febbraio 2003 moriva Alberto Sordi. A ricordarlo su Polytropon Magazine è il giornalista, regista e scrittore David Grieco. Questo articolo è uscito per la prima volta nel n. 592 della rivista «Bianco e nero», interamente dedicato ad Alberto Sordi, presentato il 28 gennaio alla Casa del Cinema di Roma.
Ringraziamo l’autore e la rivista «Bianco e nero» per averci gentilmente concesso la pubblicazione di questo prezioso contributo.

Ho conosciuto Alberto Sordi un pomeriggio di ottobre del 1971, negli uffici della Documento Film di Gianni Hecht Lucari dove si teneva la conferenza stampa per annunciare l’uscita del film “Detenuto in attesa di giudizio” diretto da Nanni Loy.
Avevo appena compiuto vent’anni ed ero già un giornalista dell’Unità accreditato e riconosciuto come tale.
Dico questo perché gli uffici della Documento Film si trovavano in Via di Villa Patrizi a Roma, proprio accanto al Lycée Chateaubriand dal quale ero stato cacciato sei anni prima per la mia cattiva condotta e per un giovanile, istintivo impulso a delinquere.
Ero molto cambiato, radicalmente cambiato da allora. Ricordo che transitai dinanzi alla mia vecchia scuola con gli occhi bassi, per non incrociare lo sguardo degli uscieri.
La conferenza stampa di “Detenuto in attesa di giudizio” era affollata e solenne. Come si addiceva alla presentazione di un film che andava ben oltre la commedia per denunciare un grave, gravissimo difetto della giustizia italiana, che potremmo chiamare “la presunzione di colpevolezza”.
Come sa chi ha visto il film, il personaggio interpretato da Alberto Sordi è un italiano residente all’estero che decide di portare tutta la sua famiglia svedese a visitare l’Italia dopo una lunga assenza dal paese che gli diede i natali. Alla frontiera, però, Sordi viene arrestato senza spiegazioni. Dopo alcuni giorni, scopre di essere accusato di omicidio. Il pover’uomo è del tutto ignaro e innocente, ma riuscirà a dimostrarlo soltanto alla fine di un lungo calvario carcerario.
Durante la conferenza stampa, i toni di Nanni Loy e Alberto Sordi erano seri, serissimi, anzi drammatici, e le domande dei giornalisti erano conformi, cioè rispettose dello spinoso argomento trattato dal film.
Invece io, seduto in prima fila e forse memore della mia burrascosa adolescenza scolastica, non riuscivo a smettere di ridere.
Tutti mi guardavano con sdegno e riprovazione, fino al momento in cui Alberto Sordi scoppiò a ridere pure lui e mi fissò: “A’ regazzi’, la voi pianta’ de ride?!… Sto facendo una fatica bestiale per far capire a tutti che questa è una storia tragica, se te ce metti pure te nun ce la posso fa’…”

Paonazzo dalla vergogna, io mi alzai e chiesi scusa a tutti. Andai a nascondermi nelle retrovie accanto a Maria Ruhle, la fedele ufficio stampa di Sordi che stava trattenendo le risate pure lei.
Al termine della conferenza stampa, Sordi si avvicina e mi squadra con il suo celebre sorriso di scherno. “Ma chi è questo?”, chiede a Maria Ruhle.
Gli risponde sornione Nanni Loy: “È David Grieco, lavora per l’Unità, ma te ne sarai accorto, è un ragazzaccio…”
Sordi scoppiò di nuovo a ridere: “L’Unità?!… Ah, vabbè, annamo bene… Già lo sapevamo che sto film non farà una lira, se poi non ce prende sul serio manco l’Unità pensa come stamo messi…”
“Detenuto in attesa di giudizio” fu un grande successo anche al botteghino e quel giorno, tra me e Alberto Sordi, nacque una strana amicizia durata più o meno 30 anni. Ci vedevamo a periodi, ma quei periodi erano sempre intensi.
A pezzi e bocconi, Alberto Sordi mi ha raccontato tutta la sua vita. Non ho mai pensato di farne un libro perché non ho mai saputo come restituire attraverso la scrittura tutte le risate folli e inarrestabili che si impadronivano di me e mi facevano contorcere come un tarantolato.
Dopo “Detenuto in attesa di giudizio”, Sordi cominciò a scegliere con maggiore attenzione i film da interpretare, accantonando la bulimia degli anni’50 e ’60. Nel solo 1959, per esempio, aveva onorato ben 10 contratti, ma tra questi c’era anche “La Grande Guerra” di Mario Monicelli.

Il primo film in cui Alberto Sordi mi coinvolse fu “Un borghese piccolo piccolo” di Monicelli, nel 1977, tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, uno scrittore amico di Pasolini che aveva fatto la gavetta come sceneggiatore con Ugo Pirro ma non aveva mai lavorato con Sordi.
“Un borghese piccolo” era forse il primo film in cui Alberto Sordi non doveva far ridere nemmeno un po’. Ma questo non lo preoccupava affatto.
Sordi aveva molto amato il romanzo di Cerami, ma voleva apportare una modifica sostanziale alla storia. Lo intrigava un finale diverso. Voleva che il suo personaggio “adottasse” l’assassino di suo figlio anziché vendicarsi e torturarlo. Alberto Sordi immaginava che alla fine Giovanni Vivaldi (era questo il nome del personaggio) accompagnasse premuroso l’assassino di suo figlio ad occupare il posto di lavoro che aveva faticosamente guadagnato per suo figlio.
Un finale sconvolgente, un finale di un coraggio impensabile.
Con Sordi, ne parlammo per una notte intera. Poi ne discutemmo persino insieme con Vincenzo Crocitti, il ragazzo che doveva interpretare suo figlio, un giovane attore al suo primo ruolo importante che io conoscevo già.
Sordi chiese a me di proporre questa sua ipotesi a Cerami e a Monicelli. Vincenzo Cerami la apprezzò, ma era troppo spaventato dall’idea che il film dal suo romanzo potesse saltare. Monicelli invece ebbe paura che Sordi (già regista in proprio) finisse per prendere le redini del suo film. Con Rizzoli, il produttore, parlò Sordi stesso. Ma quest’ultimo, come era prevedibile, si spaventò a morte di un finale che probabilmente né la critica né il pubblico avrebbero accettato. Del resto, già nella sua versione che tutti conosciamo, “Un borghese piccolo piccolo” venne definito “una pietra tombale sulla commedia all’italiana”. Figurarsi con quel finale.
Un anno prima, se non confondo le date perché vado sempre a memoria, portai Alberto Sordi a tenere un seminario sul mestiere d’attore all’Università di Roma. Detta così, oggi come oggi, può sembrare una cosa normale. Ma non a quei tempi. E soprattutto non con Alberto Sordi.
Ferruccio Marotti, titolare della cattedra di Storia del Teatro, una sera mi chiese se mi andava di provare a portare Alberto Sordi alla Sapienza per parlare con gli studenti della sua avventurosa carriera di attore.
Quando glielo chiesi, Alberto Sordi rabbrividì: “Ma che, sei matto?!… All’Università?!… Io?!.. Ma lo sai che ho preso la licenza media per miracolo?!…”
Io gli risposi che mi trovavo nelle stesse, identiche condizioni e aggiunsi che ne andavo fiero, perché da quando avevo lasciato la scuola non avevo più smesso di studiare, proprio come aveva fatto lui che aveva saputo ritrarre con la sensibilità di un fine antropologo tutti gli italiani possibili e immaginabili.
Col passare dei giorni, il suo NO categorico cominciò ad affievolirsi, e anche la paura (mai veramente espressa ma assai tangibile) che gli studenti ribollenti di allora avrebbero potuto accoglierlo con un lancio di bottiglie Molotov, pian piano svanì.
Alla fine, quando stava per capitolare, Alberto Sordi mi sussurrò in un orecchio, con la voce disarmante di un bambino: “Vuoi sapere qual è il vero problema? Il vero problema è che me caco sotto…”
Quel giorno andai a prenderlo a casa con la mia vecchia Ford coupé mezza scassata e andammo insieme all’Università. Prima di arrivare al piazzale, notando frotte di studenti che camminavano sui marciapiedi, gli venne un attacco di panico e mi intimò di fermarmi per farlo scendere. Troppo tardi.
Nella grande aula gremita di ragazzi (ma ne rimasero fuori almeno il doppio), Alberto Sordi cominciò a raccontarsi in punta di piedi, con inedita timidezza, ma non appena sentì esplodere le risate e fioccare gli applausi, giganteggiò sul palcoscenico proprio come Santy Bailor, il mitico comico americano che aveva inventato per “Un Americano a Roma”.
Uscimmo dall’Università tra due ali di folla e non lo vidi mai felice come quel giorno. L’indomani tornai a casa sua, in quella casa leggendaria che sovrasta Caracalla, e lui mi disse molto serio:”Ti sono debitore di una soddisfazione che non avrei mai nemmeno immaginato”.

E allora gli chiesi di sdebitarsi con un articolo sulla prima pagina dell’Unità, articolo che manco a dirlo non trovo più e che forse, non ricordo più nemmeno questo, si trasformò in un’intervista in cui gli chiesi come vedeva il ruolo dei comunisti nella società italiana in tempi di “compromesso storico”. Non pretendevo di estorcergli una dichiarazione di voto possibile per il PCI. Volevo soltanto che lui, con la sua straordinaria autorevolezza popolare, e anche con la sua ambiguità andreottiana, portasse a suo modo acqua al mulino del progetto di Enrico Berlinguer, che poco dopo crollò rovinosamente e tragicamente con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
La parola “debito” ora mi fa pensare al proverbiale rapporto di Alberto Sordi con il denaro.
Tutto quello che è stato detto in proposito è vero. Andavamo sempre a pranzo e a cena al ristorante e lui non pagava mai, ma proprio mai. Eppure sapeva che io avevo uno stipendio da fame. Anche quando morì il suo barbiere, Alberto mi chiese chi fosse il mio, che pure portavo un enorme e poco incoraggiante cespuglio sulla testa. Glielo presentai e lui lo frequentò per anni. Il mio barbiere e i suoi lavoranti si divertivano un mondo con le sue battute, ma un giorno mi confessarono che Alberto Sordi non aveva mai lasciato neppure una mancia.
Del resto, una volta con Sordi parlammo anche apertamente della sua avarizia, così come parlammo in seguito anche del suo rapporto con le donne.
“Sono tirchio da far schifo – mi disse – non credere che non lo sappia. Ma i soldi non li voglio sprecare perché mi servono. Me ne servono tanti, perché ne faccio buon uso. Devi sapere che mantengo 2000 bambini indiani nel loro paese e finanzio anche la costruzione di scuole in India e pure in Africa. Non ho figli, non ne avrò mai, ma mi occupo di tanti bambini a cui i genitori non hanno mai pensato…”
Poi aggiunse fissandomi con uno sguardo grave, quasi arcigno, che non conoscevo: “Se ora tu questa storia la scrivi o la racconti a qualcuno, sappi che ti tolgo il saluto”.
Fino alla sua morte ho mantenuto la consegna.
Nella sua casa, Alberto Sordi aveva una bellissima saletta di proiezione e conservava le copie in pellicola di tutti i suoi film perché le otteneva grazie a una clausola che aveva imposto in tutti i contratti che firmava.
Una sera, gli chiesi di mostrarmi un film che non avevo mai potuto vedere ma di cui avevo sentito parlare: “Mamma mia che impressione” di Roberto Savarese. È un film del 1951, ha esattamente la mia età. Sapevo che era stato un insuccesso clamoroso, che rischiò seriamente di compromettere la sua carriera.
Infatti, Alberto Sordi non voleva farmelo vedere. Disse che non avrebbe mai dovuto farlo e mi spiegò come nacque quel progetto.
Ai tempi del suo enorme successo radiofonico con Mario Pio e i “compagnucci della parrocchietta”, Alberto Sordi lavorava ancora molto come doppiatore. Prestava la voce, come tutti sappiamo, a Oliver Hardy, ma gli capitò anche nel 1946 di doppiare l’assassino della “Scala a chiocciola”, trasformando per il pubblico italiano il thriller mozzafiato di Robert Siodmak in un involontario film comico.
L’unico stabilimento di doppiaggio all’epoca era la Fono Roma di Piazzale Flaminio. Il proprietario della Fono Roma si chiamava Savarese, era diventato amico di Sordi, e si era a volte improvvisato produttore film allo scopo di aiutare suo figlio Roberto che aveva ambizioni di regista.
Savarese faceva la corte a Sordi per convincerlo ad interpretare un film diretto da suo figlio. E così, dai e dai, Alberto Sordi un giorno accettò di realizzare un film “cotto e mangiato” tratto dal personaggio radiofonico di Mario Pio per sfruttarne la popolarità anche in chiave cinematografica.
Ma Sordi non si fidava di Roberto Savarese, né come sceneggiatore né come regista. Andò quindi da Vittorio De Sica e lo convinse a scrivere (insieme a Cesare Zavattini) e a dirigere “Mamma mia che impressione!” senza comparire nei titoli, in cambio di un sontuoso compenso economico.

De Sica aveva sempre problemi di soldi a causa della sua passione per il gioco d’azzardo e Alberto Sordi lo sapeva bene. Quando nel 1967 Sordi e De Sica girarono “Un italiano in America” a Las Vegas, Alberto si era dato il compito, tutte le sere, di chiudere a chiave Vittorio nella sua stanza d’albergo per impedirgli di andare a perdersi ai tavoli della roulette.
Dopo questo lungo preambolo, convinsi Alberto Sordi a mostrarmi “Mamma mia che impressione!”. Lui si sedette accanto a me e si stupì per l’ennesima volta nel vedermi ridere a crepapelle. Quando riaccese la luce, mi chiese se le mie risate erano sincere. A mia volta, gli risposi che ero sorpreso almeno quanto lui perché quel film, dopo tanti anni, non gli aveva strappato nemmeno un sorriso.
Tutte le volte che abbiamo visto insieme un suo film, o quando montava per la TV “Storia di un Italiano”, nato da un’idea idea geniale di Giancarlo Governi, Alberto Sordi rideva sempre di cuore rivedendosi sullo schermo. Rideva come un bambino perché non riconosceva mai se stesso nei personaggi che interpretava. “Io ho sempre creato dei personaggi più negativi che positivi – mi diceva – mi sono sempre imbruttito, incarognito e incialtronito sullo schermo. Non mi sono mai preoccupato di cosa poteva pensare di me lo spettatore, come purtroppo fanno i comici di oggi che si guardano allo specchio e sono sempre troppo preoccupati del loro aspetto fisico e morale. Vogliono sembrare sempre boni, belli e bravi…”
Quando riascolto queste parole, penso sempre al trafficante di bambini del “Giudizio Universale” (1961) di Vittorio De Sica.

Tornando a “Mamma mia che impressione“, confermai a Sordi che il film mi aveva divertito parecchio, che avrebbe sicuramente divertito tanti miei coetanei, e che lui non doveva conservare un ricordo così negativo di quell’esperienza nata per caso come tanti film, a volte molto belli, nascono per caso.
Alberto Sordi, per tutta risposta, continuò a raccontarmi tutte le rogne che “Mamma mia che impressione!” gli aveva procurato.
Sordi mi disse che a un certo punto venne persino convocato in Vaticano da un alto prelato che gli fece una ramanzina per aver trattato in modo così irriverente i giovani dell’Azione Cattolica da lui ribattezzati “compagnucci della parrocchietta”. Mentre annaspava cercando di difendersi, proprio in quel momento nella stanza del prelato entrò un ragazzo molto cresciuto con i calzoncini corti e la faccia piena di foruncoli. Con il suo istinto animalesco, Sordi prese la palla al balzo: “Lo vede, Monsignore? Non sono io. Sono loro che sono proprio così!…”
Nelle settimane successive, ebbi modo di scoprire che la produzione “Fono Roma” non esisteva più. Di conseguenza, i diritti di sfruttamento del film “Mamma mia che impressione!” appartenevano a chi ne possedeva la copia.
Allora convinsi Sordi a mettere a disposizione quella copia e trovammo un distributore disposto a farlo riuscire al cinema sulla scia della riscoperta travolgente di tutti i vecchi film di Totò che la mia generazione non aveva mai visto. Stavolta “Mamma mia che impressione!” fu un successo, che si è poi replicato prima in VHS, poi in DVD. Anche in questa occasione, Alberto mi fu grato e accennò ancora a un “debito da onorare” con me.
Gli chiesi conto di quel debito molti anni dopo, nel 1988, quando gli proposi di interpretare il ruolo del guardiano del cimitero in “Mortacci”, un film di Sergio Citti che avevo scritto e del quale curai anche la produzione esecutiva.
Alberto Sordi mi disse subito di sì, ma mi apparve evidente che tra lui e Sergio Citti, due romani così diversi (uno piccolo borghese e l’altro borgataro) si ergeva un muro invisibile ma incrollabile. Senza contare che Sordi avrebbe dovuto recitare una scena madre con un celebre attore inglese, il Malcolm McDowell di “Arancia meccanica”, che Alberto considerava molto semplicemente “un matto”.
I suoi rapporti con gli attori inglesi e americani non erano mai stati facili, forse perché lui era pur sempre il Nando Moriconi che gridava “Awanagana!” fingendo di conoscere l’idioma. Nello “Scopone scientifico” (1972) di Luigi Comencini, per esempio, Sordi fece letteralmente impazzire Bette Davis perché in scena parlava sempre sopra di lei improvvisando e interrompendola. Quando la diva hollywoodiana protestava, lui le rispondeva secco: “A’ Betty, tu fai troppe pause. Io copro i vuoti, sennò lo spettatore s’addormenta…” E lei gridava come un’aquila sul set: “Sooner or later, I am gonna kill this bastard!…”

Ma anche nei confronti di molti colleghi italiani, Alberto Sordi era tutt’altro che tenero. Detestava quel “burino” di Nino Manfredi, definendolo (da che pulpito…) l’uomo più avaro e gretto che avesse mai incontrato. Tognazzi cucinava male, Gassman era un trombone. Amava solo Marcello Mastroianni perché era “troppo bello” e non era colpa sua, ma anche questo era un giudizio non facilmente interpretabile. Diceva sempre che Carlo Verdone e Christian De Sica avrebbero dovuto pagargli i diritti per tutto ciò che avevano copiato da lui e un giorno, in pochi secondi, passò un “liscio e busso” anche a Benigni, che Roberto probabilmente ricorda ancora.
Benigni ed io eravamo appena arrivati in macchina a Nizza per partecipare a un Festival del Cinema Italiano. Entrammo al Negresco e trovammo Alberto Sordi che si stava registrando al banco del concierge. Roberto mi implorò di presentarglielo. Benigni gli scodinzolò intorno come fa lui coprendolo di elogi superlativi. Sordi lo ripagò con il suo sorriso più simile a un ghigno e mi lanciò uno sguardo definendolo “simpatico”. Ma poi, quando Benigni gli raccontò che aveva appena girato il “Pap’occhio” (1980) con Renzo Arbore e che durante le riprese si era divertito moltissimo, Sordi lo redarguì con una battuta delle sue: “Non lo sai, caro, che se noi quando giriamo un film ci divertiamo troppo il pubblico, poi, quando lo va a vedere, non si diverte affatto?…”

Tornando a “Mortacci“, pochi giorni prima dell’inizio delle riprese Alberto Sordi mi telefonò a casa ben oltre la mezzanotte. Mi disse senza preamboli che non poteva fare il film. Io cercai di farlo ragionare, ma lui non sentì ragioni. “A’ Da’, io un film che si chiama Mortacci non lo posso proprio fare. Perché io comincio ad avere un’età, e se uno di questi giorni mi tocca presentarmi a San Pietro, quello come mi vede mi dice subito: chi sei tu, quello che ha fatto Mortacci? Vai subito giù de sotto, che per te in Paradiso non c’è posto…”
Io non credevo alle mie orecchie. “Lo so che non mi capisci – aggiunse Sordi – perché tu sei ateo. Che te ne frega a te dell’Inferno e del Paradiso? Ma io non voglio rischiare di finire tra le fiamme”.
Era la prima volta che lo sentivo parlare della morte. Ma da parecchio tempo, dall’inizio degli Anni Ottanta, Sordi mi parlava della fine della sua carriera. Un giorno mi disse: “Vedi, quando è un attore è finito se ne deve accorgere in tempo. Specie un attore che fa ridere, deve capire per tempo che non fa più ridere. Io ormai cerco di interpretare ruoli drammatici perché ho paura di non riuscire più a far ridere il pubblico come prima. Tra non molto, andrò a ritirarmi a Montecarlo e mi comprerò un bel bastone da passeggio con un pomello d’avorio grosso come un’arancia. Il primo che per la strada mi fermerà e mi dirà: Albertone! Sei grande! Che fine hai fatto?…, io gli darò una mazzaroccata tra capo e collo che ce lo lascio secco…”
Ma le cose andarono diversamente. Nel 1996, andai a trovarlo sul set di un film molto malinconico, “Nestore l’ultima corsa”, da lui diretto e interpretato. Lo raggiunsi in camerino, dove si stava pazientemente truccando con capelli bianchi e baffi bianchi. Appena mi vide, mi chiese: “Che te ne pare? Sembro abbastanza vecchio? Me tocca passa’ tre ore al giorno al trucco per diventare vecchio così. Che dici? Sembro abbastanza vecchio?…”
Non sapevo cosa rispondere. Spero ancora che non abbia notato il mio impaccio. Alberto Sordi aveva ormai 76 anni. E non riusciva più a rendersene conto. Capita a tutti, probabilmente. Ma da lui non me lo sarei mai aspettato.

Ora, se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui, dovrei e vorrei concludere parlando del rapporto di Alberto Sordi con le donne. Rapporto di cui si è spesso parlato perché Alberto era uno scapolo impenitente e un giorno, parlando con una giornalista della stampa “rosa” che gli chiedeva perché non volesse sposarsi, le rispose: “E che faccio? Mi metto un’estranea dentro casa?”.
Quando, preferibilmente al tramonto, capitava di parlare di donne, Alberto Sordi mi diceva sempre che gli erano del tutto estranei i concetti di verginità e di gelosia. “Che me ne può fregare a me se una donna è stata con altri -diceva- o va anche con altri mentre io la frequento? Che devo pensare, che è “usata”? Non è mica una macchina. Se a me piace, io ci vado a letto volentieri e non le chiedo niente, non so niente, non vedo niente, non me ne importa niente”.
Con le donne, Alberto Sordi aveva un successo travolgente. A dimostrazione del fatto che, negli uomini, la simpatia seduce di gran lunga più della bellezza.
Alcune delle attrici più belle e affascinanti del mondo si sono innamorate di lui e gli hanno chiesto la sua mano. La lista è lunghissima, ma farò solo un nome: Shirley Mac Lane.
Lei e Alberto si incontravano periodicamente in segreto a Londra, per trascorrere insieme infuocati week end. E scommetto che si facevano anche un sacco di risate. Ricordo di averlo pensato nel 1979, quando vidi per la prima volta “Oltre il giardino” di Hal Ashby, il capolavoro della carriera di Peter Sellers, in quella scena in cui il surreale Mister Chance il Giardiniere, ridendo e scherzando, finisce a letto con la First Lady Shirley Mac Laine.
Ecco, Alberto Sordi per me è esattamente come Mister Chance. Era un genio ma sembrava uno scemo, o se preferite era uno scemo ma sembrava un genio. Comunque, come lui c’era soltanto lui.