L’acrobata di Laura Forti: quando narrare è resistere

Walk with the dreamers, the believers, the courageous, the cheerful, the planners, the doers, the successful people with their heads in the clouds and their feet on the ground. Let their spirit ignite a fire within you to leave thus world better than when you found it.

Wilfred Arlan Peterson

L’Acrobata di Laura Forti (Giuntina, 2019) è la storia di una narrazione e di un narratore. Di una narrazione interrotta, negata, repressa e poi, restituita con fatica, tra strappi e silenzi. Di un narratore che deve fare i conti con quel che resta di un corpo attraversato dalla Storia, il corpo di una famiglia che si è disseminata per il mondo – da Europa ad America Latina – tra andate e ritorni, in una fuga perenne scandita dalla perdita.

È un monologo, L’Acrobata, il monologo di una figlia che è diventata madre e adesso deve rispondere, da nonna, ad un nipote. Deve, da nonna, mettere ordine, rassegnarsi all’atto narrativo che ha cercato di rimuovere.

Laura Forti ci costringe a seguire il monologo con uno stile asciutto, leale. Abbiamo tra le mani un libro in cui “ogni riferimento ai fatti e alle persone che li hanno compiuti è autentico: ogni parola, ogni pensiero di quelle persone  è un’idea, un’immaginazione, una speranza” ma non c’è traccia di biografismo. C’è, anzi, una abbagliante, perché profonda, umanità che offre la possibilità di compiere un doveroso atto di memoria.

Laura Forti scrive speranza: è vero. C’è molta speranza in queste mail che non sono davvero mail: l’espediente tecnico di spezzare una lunga confessione-conversazione generazionale giocando con la presenza-assenza del mezzo virtuale non oscura la pregnanza dell’insieme che rimane un flusso denso e copioso, necessario.

Speranza, molta speranza palpita nelle parole di questa nonna che deve ricordare come ha perso un figlio e come, aggrappata a se stessa e alla necessità di sopravvivere, ha pericolosamente rischiato di perdere anche se stessa.

Ha senso ribadire oggi che le dittature del secolo scorso hanno devastato l’umanità. Chi è fuggito non ha portato davvero la propria vita in salvo come si può credere. Chi è sopravvissuto non ha davvero potuto essere una persona libera. La libertà, in un mondo sconvolto dalla violenza del potere dittatoriale, non è esistita in nessun angolo geograficamente tracciato. E, forse, non esisterà mai più, la libertà.

Cosa è accaduto il 15 giugno del 1987?

È il lettore a doverlo scoprire. Chi era Pinochet? Cosa fece? Come furono assassinati Pepo e gli altri e perché?

La nonna è costretta a fare i conti con la Storia, il suo è un atto d’amore per il nipote orfano che adesso sta diventando uomo. I fantasmi esistono e hanno sete delle nostre lacrime dichiara questa voce di donna che non possiamo fare a meno di immaginare limpida nonostante il dolore che l’atto narrativo comporta. Tutta la fatica di questa voce la vediamo viva, quasi come un corpo che si muove, agisce e respira. Perché questo testo è fatto per essere letto, ad alta voce.

“Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso” scriveva Benjamin.

In questo narrare la voce si incarna, lotta contro l’assenza, sua e del figlio perduto, proprio come un’acrobata con la vertigine. In questo narrare la voce incontra se stessa. Non si assolve fino in fondo e forse è in questo che si può – finalmente – guardare senza sottrarsi più alla necessità di sradicare i fatti dall’antro scontroso della memoria. Non si assolve fino in fondo e forse è per questo che la voce di questa nonna è la voce di un giusto, perché non sa di esserlo dal principio, ma non lo diventa. Semplicemente lo è, con tutte le sue contraddizioni.

Perché in quest’oralità segreta, nascosta dall’atto fisico dello scrivere una lettera, sta un atto di resistenza: un atto che fissa e persevera nel ricordare un ideale che si è incarnato, ma che è stato trucidato.

L’atto di resistenza è il ricordare al nipote che legge di avere coraggio e di non lasciare mai andare nel vuoto quel filo sospeso dell’esistenza: perché possa essere vivo il tentativo di tenersi in equilibrio, perché non debbano esserci mai più, in Europa come in Cile e nel resto del mondo, giovani che finiscono assassinati per la libertà.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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