La masterclass del Bif&st 2024 per i Taviani tra Montaldo e Volonté: la benedizione della vulnerabilità contro il disimpegno politico

Durante la masterclass dedicata ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani con la produttrice Donatella Palermo, con i critici Enrico Magrelli, David Grieco e con Felice Laudadio c’è il rischio di cedere alla commozione per ciò che è perduto, ad una sorta di nostalgia per quello che non sarà mai. A questa tentazione si aggiunge quella di affermare che il cinema è finito (come la politica e la Storia?). Tout casse, tout passe, tout lasse, il n’est rien, et tout se remplace. Però ecco anche la certezza che si può sempre studiare e restaurare, quindi conservare ciò che è stato e porre un ostacolo alla pratica del “rottamare”, come si diceva qualche anno fa.

È vero, non vedremo Il canto delle meduse, l’ultimo film a cui Paolo Taviani stava lavorando prima di morire, ispirato ai Dialoghi di Platone. La produttrice Donatella Palermo non affiderà la sceneggiatura ad altri registi perché quelle “sono le immagini di Paolo, sono solo sue” ed è giusto così, proprio come è giusto che Palermo non riveli il mistero dietro la direzione complementare e alternata dei due fratelli.

Eppure, sentire evocati oggi i fratelli Taviani, Giuliano Montaldo e Gian Maria Volonté ha significato prendere ancora una volta consapevolezza del nostro stato attuale: sappiamo stare nella traccia di chi non c’è più, magari con la nostra voce e il nostro modo di pensare la realtà o saremo sempre degli orfani riottosi?

Dovrei sbilanciarmi, lo faccio. La risposta è negativa. Non siamo in grado di avere una voce nostra, almeno per ora, perché continuiamo a non sapere ascoltare e ricordare. Così come non siamo in grado di proteggere le nostre emozioni e quelle degli altri, è questo il più grande pericolo del presente. Perché non ne siamo in grado? Proverò a dirlo alla fine di questo articolo, abbiate pazienza.

Intanto dico subito della lezione che ci ha impartito oggi Lina Nerli Taviani, costumista preziosa per la creazione dell’immaginario dei registi: avrebbe voluto partecipare all’incontro per riempire il vuoto lasciato dal marito Paolo il 29 febbraio 2024, ma ha scelto all’ultimo di sottrarsi. Esserci le sarebbe costato troppe emozioni, sottrarsi è un diritto e noi le siamo grati per questo pudore: racconta del suo legame con Paolo, di vita e di lavoro quindi di politica, molto più di qualsiasi parola.

Felice Laudadio, non a caso, ha ricordato altre lacrime, quelle di Paolo Taviani quando nel 2018 La notte di San Lorenzo (proiettato al Teatro Petruzzelli prima dell’incontro) vinse il premio Venezia Classici per il miglior restauro: il regista, già provato dalla perdita di Vittorio, non seppe nascondere la commozione dinanzi al film “risorto” grazie al Centro Sperimentale di Cinematografia e alla Cineteca Nazionale e, soprattutto, scoprendo l’accoglienza calorosa del pubblico in sala. Una commozione non diversa, forse, da quella che aveva provato al fianco del fratello quando si erano trovati in concorso a Cannes con la versione in 35mm di Padre padrone (1977): per i due, “fanatici dell’immagine” come li definisce Laudadio, il disagio fu enorme. Il film era stato girato in 16mm e lo sviluppo per la proiezione aveva provocato macchie e sfocature. Fu Joris Ivens, l’Olandese Volante, a consolarli: per il grande documentarista l’imperfezione aggiungeva qualcosa di speciale alla pellicola e la giuria, presieduta da Roberto Rossellini, li premiò.

Enrico Magrelli ricorda bene l’episodio del restauro (ripreso anche nella puntata del programma radiofonico Hollywood Party) e torna sul senso di quello che definisce “il pudore sorvegliato” dei Taviani, abili nel dare una certa valenza contraddittoria alla voce narrante femminile a cui è affidata la ricostruzione dei fatti ne La notte di San Lorenzo proprio come non univoche e non oggettive furono le testimonianze raccolte a San Miniato dagli stessi registi. Questa capacità di non cedere all’autobiografismo autocelebrativo è la cifra dei Taviani: non risolvono le controversie della Storia, ma la conducono fino ad una “dissolvenza incrociata” con il mito. L’analisi di Magrelli è brillante, in poche battute definisce il valore politico del film ispirato alla strage del Duomo di San Miniato (trasfigurato in San Martino) il 22 luglio 1944 (all’epoca, Paolo aveva 13 anni, Vittorio 15) e suggerisce di considerare che il film nacque per la televisione, prodotto da Rai1 (sotto lo sguardo di Paolo Valmarana).

“Paolo Taviani trasformava in cinema tutto quello che guardava, non vedeva mai la realtà per quello che era, ma per quello che poteva diventare. Suo figlio aveva un libro, La scala d’oro, in cui c’era una illustrazione di Ettore trafitto da una lancia di Achille: è stata l’ispirazione per la morte di Giglioli interpretato da David Riondino ne La notte di San Lorenzo” ricorda la produttrice Donatella Palermo e aggiunge “Il tema della morte che sarebbe stato centrale ne Il canto delle meduse era entrato nell’immaginario di Paolo con la morte di Vittorio”. In Leonora addio (2022) il funerale di Pirandello riprende le disposizioni lasciate da Vittorio e il fatto che solo Gianfranco Rosi sia stato testimone del suo congedo: scoprire che si può morire anche se si è bravi e si vorrebbe continuare a vivere ha segnato l’ultima produzione di Paolo. Eppure, questa vulnerabilità pare assumere le forme di una benedizione, a tratti incontenibile.

Ora, vengo al perché non siamo in grado di proteggere le nostre emozioni. La risposta sta nel fatto che non consideriamo il nostro stare al mondo e quindi il nostro studiare o fare cinema come parte di un progetto politico individuale e collettivo. Considerare il cinema come un atto poetico-politico, come ha ricordato Magrelli, non richiamando uno slogan, ma richiamando il senso della vita è qualcosa che per noi diventa sempre più estraneo. Eppure, l’essere sociale è ontologicamente politico. Lo sapeva Giuliano Montaldo, a cui è dedicato il Bif&st 2024, lo sapeva Gian Maria Volonté di cui si è ricordata la militanza di attore (e di uomo, è la stessa cosa) a trent’anni dalla scomparsa: sceglieva ruoli, come nel caso di Un uomo da bruciare o Le quattro giornate di Napoli (entrambi del 1962), che avessero valenza e ricaduta come critica sociale. Una eredità etica che, come ricorda Laudadio, è rimasta nelle mani della figlia Giovanna Gravina Volonté nel suo Festival La valigia dell’attore che si tiene ogni anno a La Maddalena in Sardegna.

Donatella Palermo ha chiuso l’incontro con una riflessione cruciale: tutti facevano cinema politico in Italia, oggi quasi nessuno si prende questa responsabilità, a parte poche eccezioni.

Alla parola “cultura” abbiamo sostituito “potere”. Non si chiama “politica”, è “potere”. Non è “condivisione”, ma sempre “potere”.  Niente più “realtà” o “fantasia”, ancora “potere”. Quindi la tentazione resta forte: affermare che è tutto finito e perduto o costruire insieme una comunità che permetta ai giovani, istruendoli e organizzandosi, di cercare e trovare ciascuno la propria voce per affrontare il presente?

Resistere serve sempre, con buona pace di chi afferma il contrario. È commuoversi tanto per farlo, o peggio fingere di commuoversi, che non serve a niente.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

FOTO © DANIELE NOTARISTEFANO

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