Renato Carpentieri al Bif&st 2018 o della tenerezza come arma rivoluzionaria

Renato Carpentieri riceve al Bif&st 2018 il Premio Vittorio Gassman come migliore attore protagonista per La tenerezza di Gianni Amelio (Premio Mario Monicelli miglior regista), il loro incontro in programma domenica 22 aprile è molto atteso. Carpentieri rappresenta un punto di riferimento importante, dal 1975 la sua carriera è stata sempre coerente, coraggiosa e appassionata: dagli inizi con il Teatro dei Mutamenti, al lavoro con il gruppo Libera Scena Ensemble, con Fo e Cecchi, solo per citare alcuni momenti della sua vita in teatro. Una vita di incontri, con uno sguardo sempre inclusivo, mobile tanto che lui stesso si definisce un “individuo plurale”. Al cinema lavora con Salvatores, Taviani, Martone, Moretti e di Caro diario racconta «Con Moretti è andata bene ma lui difficilmente chiama due volte gli attori che trova, è andata bene e io sono stato contento di farlo, è un gran bel film, è una specie di saggio morale. Avrei voluto fare altre cose con lui… il ruolo che sarebbe piaciuto a me in Habemus Papam (2011) l’ha fatto Franco Graziosi. Meglio Franco, però, ho pensato io quando poi ho visto il film. Sono grato a Nanni, ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno stimolato in molti modi e mi hanno fatto comprendere cose in più». Quest’anno trai film proiettati al Bif&st c’è anche Il Consiglio d’Egitto (2002) di Emidio Greco che Carpentieri ricorda come «Persona squisita, purtroppo con lui non ho avuto tanti rapporti fuori dal set. Persona gentile, cortese come pochi e con le idee chiare».
In questa intervista Carpentieri ricorda Antonio Neiwiller, parla dei maestri da cercare e della necessità oggi di incontrarsi e di prendersi uno spazio e un tempo per studiare, per affrontare le cose del presente.


Ricevendo il David di Donatello come Miglior attore protagonista nel suo discorso lei ha detto «La tenerezza è una virtù rivoluzionaria». Per lei oggi il teatro e il cinema vivono tempi in cui riescono ancora a restituire la tenerezza dell’umanità?


Coltivare la tenerezza si può in modo umano, da uomini e donne che devono esercitarsi durante la loro vita. Volevo dire che in quest’epoca in cui c’è una suprema individualizzazione tutto ciò che apre verso l’altro ha un carattere rivoluzionario. Ci sono state epoche in cui bisognava combattere fronte a fronte e anche dividersi: in quest’epoca bisogna aprirsi, questa è la mia opinione. Le arti fanno fatica, il teatro non credo possa quasi fare niente, però continua a esistere in attesa di tempi migliori. Il cinema riesce un po’ a restituire la tenerezza perché è un po’ più diffuso e aiutato anche dai media. Il teatro è sparito quasi dalle pagine dei giornali. Quello che facciamo ha il compito di intravvedere altre realtà.


È stato un incontro rinnovato con Gianni Amelio per La Tenerezza.


Prima questione: io non finirò mai di ringraziare Gianni perché lui ha rischiato due volte su di me. La prima volta in Porte aperte  del 1987, mi ha visto per caso in uno spettacolo un paio di anni prima a Napoli e mi ha chiamato poi a questo colloquio con lui per scegliere il personaggio di Consolo pensando che sarebbe andata bene… ma non ci conoscevamo e quindi ha rischiato ed è andata bene: nel corso delle riprese si è verificata proprio una stima, un affetto fra noi, un modo di trattarci più da amici, poi ho fatto una posa in Il ladro di Bambini e poi c’è stato un contatto per Lamerica  che non è andato a buon fine per ragioni indipendenti da noi due e poi finalmente dopo ventisette anni questo film in cui lui è stato un regista affettuoso ma attento e tenace nel costringermi a fare uscire delle cose che io non conoscevo di me. Quindi non solo ha rischiato, ma è stato veramente un mio maestro.

A proposito di maestri, uno dei suoi spettacoli tra i più significativi si chiamava proprio Maestri cercando. Oggi è un titolo che in sé suona come un desiderio di molti giovani, ma anche come una indicazione per loro. Di cosa avrebbero bisogno i giovani?

Non bisogna credere che tutto cominci da loro, dai giovani. Mi spiego: Molière quando si presentò al Re Sole mostrò tutta la Compagnia come se fosse il mondo, mostrò cioè le varie età, estrazioni e così via… Una compagnia teatrale deve rappresentare il mondo. Adesso si fanno monologhi, si fanno dialoghi a due, e così via ma è meglio che il teatro rappresenti il mondo e il mondo è fatto di tutte le età. I giovani devono considerare questo e quindi nelle età ci sono i maestri, che possono essere morti, più vecchi, anche coetanei… quindi bisogna conservare questo aspetto del teatro: l’insieme delle età perché la comunicazione è lo scambio. Adesso è difficile perché questa divisione rigida in categorie di età fa sì che non ci siano tanti rapporti tra un attore giovane e uno più anziano, tra le generazioni. Non c’è rapporto con la storia del nostro mestiere, pare che tutto sia da inventare da capo. Questo purtroppo isola un po’ i giovani che si apprestano a fare questo mestiere. È importante cercare maestri, ma non necessariamente viventi o vicini a noi: voglio dire, uno può avere come maestro Peter Brook che non ha mai visto in vita sua. Io considero un mio maestro Ryszard Cieslak anche se l’ho incontrato una sola volta nella mia vita. In questo momento tutto sembra facilmente acquisibile (penso a Internet…) ci si disperde… ma un maestro, avendo rinunziato a delle cose per altre, da comunque una linea che si può sempre mettere in discussione e studiare. Bisogna studiare e lavorare avendo una linea, capire che teatro ci piace più di tutti, perché i teatri sono diversi a seconda degli artisti, ci sono linee e consonanze che bisogna approfondire… c’è il rischio di perdersi nelle infinite possibilità.

Bisogna che ci siano un tempo, uno spazio per studiare.

Sì e apriamo con la mia Associazione Il punto in movimento (con Vera Luchetti) un teatro-studio, in cui non si farà stagione: sarà proprio una sala di studio. È uno spazio per studiare per gli attori, uno spazio che secondo me manca: in questo momento non ci sono spazi per studiare e quindi offriamo questa sede a chi vuole studiare, un attore deve poter avere uno spazio in cui poter approfondire delle idee che gli sono venute rispetto a qualcosa che vorrà fare, come un pugile che pur non avendo subito un combattimento deve potersi allenare. E spero che in questo spazio si incontrino persone di varie età e di varie formazioni.

A proposito di incontri, per lei è stato importante quello con Antonio Neiwiller.

Ad Antonio hanno dato un’atmosfera di cupezza, invece era una persona allegra e compagnona. Io ho incontrato Neiwiller in occasione di un Festival di compagnie giovani a Napoli nel 1976. Io facevo parte del Teatro dei Mutamenti e avevo fatto i costumi e le scene di L’Eccezione e la Regola di Brecht per la regia di Roberto Ferrante e lui invece aveva fatto Quanto costa il ferro? sempre di Brecht e capimmo di avere molto in comune e quindi al mio spettacolo che era proprio Maestri cercando del 1977 chiamai Antonio e dopo lo spettacolo entrò nel Teatro dei Mutamenti. Detto questo, lo spettacolo successivo fu BerlinDada, del 1978, facevamo a turno le regie degli spettacoli io, Roberto Ferrante e Antonio. BerlinDada fu molto bello, di grande successo non solo perché si riferiva all’avanguardia berlinese al tempo di Weimar ma soprattutto perché parlava del riflusso e delle lotte di quel periodo in Italia. A me Antonio affidò uno dei personaggi che parlava di qualcosa che assomigliava al nostro riflusso… siamo andati in giro per Napoli vestiti da dadaisti berlinesi, aspettavamo il pubblico fuori dal teatro perché c’erano anche dei musicisti, come si faceva in quegli anni a Berlino, invitavamo tutti a entrare… è stata un’esperienza meravigliosa. Poi abbiamo continuato a vederci, a collaborare ma io posso dire che molto di quello che so l’ho imparato con lui o contro di lui, cioè discutendo animatamente con lui. Abbiamo fatto anche altre cose insieme, ci siamo sempre visti e siamo cresciuti  fino a quando sono uscito dal Teatro dei Mutamenti per tentare altre vie e da allora ci siamo visti meno. Ma abbiamo conservato un bel rapporto e Antonio ci manca e ci è mancato. Poi ci siamo incontrati ancora con Nanni Moretti in Caro diario. Antonio è morto troppo giovane, aveva tante cose da dire.

Anche la città di Napoli per lei rappresenta un incontro. Teatralmente ma anche cinematograficamente, da Morte di un matematico napoletano fino a La tenerezza con Amelio.

Certe volte vorrei che fosse normale, Napoli. Non credo che se un attore è di Bergamo gli si chiede sempre che rapporto ha con Bergamo. Napoli ha la grandezza di questa madre contraddittoria ma anche appunto un po’ invasiva. Certe volte vorrei che non mi si facesse questa domanda e certe volte non posso non dire che Napoli è stata la mia formazione, io sono nato per caso fuori Napoli ma dai cinque anni sono stato a Napoli e ho conosciuto centinaia di persone importanti per me… in qualche modo sono plurale, sono un “individuo plurale”: il momento del ’68, i vari circoli culturali, gli amici pittori da Luca Castellano a Bugli, gli amici Luciano Caruso, Mario Martini, i compagni di lotta in Facoltà e all’Italsider e poi gli amici del teatro, i giovani che ho incontrato, ho incontrato centinaia di attori giovani che adesso vanno bene, e che mi hanno dato, io ho dato e loro mi hanno restituito. Napoli è tutto questo, gli amici d’infanzia, e quindi come potrei parlarne male… Napoli ha anche attori, tecnici, società di produzione, gente che si da molto da fare ed è brava, che poi questa cosa duri, può essere che duri e può essere che non duri. Questo è un momento buono per il cinema a Napoli ma perché negli anni sono cresciuti, oltre agli attori anche i tecnici. Sostanzialmente per tradizione c’è una grande scuola di attori, anche se è stata, fino a poco tempo fa, una enclave tenuta a distanza questo tuttavia ha fatto sì che gli attori potessero crescere “dentro”. Però è anche un difetto del pubblico napoletano il voler vedere a teatro le cose che riguardano Napoli, quelle che conosce a menadito… è segno anche di una debolezza.

Oggi si sente spesso dire che teatro e politica non devono avere tra loro relazioni. Il suo percorso dimostra che non può non esserci un forte rapporto con la Storia e con quello che accade intorno al teatro. Cosa pensa di questo tentativo di rendere apolitico il teatro?

È un tentativo destinato a fallire. Il teatro è legato al movimento delle persone, perciò ci sono sempre più spettacoli noiosi o televisivi: il teatro vive meglio quando c’è movimento, pensiamo agli anni ’60 e ’70 quando il teatro ha espresso molte cose belle, molte idee. Certo non offre la soluzione, non può aiutare a fare un governo… però non è che giustizia, libertà, eguaglianza siano temi risolti in questa società. Il teatro deve parlare anche di questo e dei rapporti umani: tra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo. Deve parlare anche della malattia, della morte, della gioia: sono grandi temi che fanno sentire la loro influenza… non è possibile che non ci sia politica, che l’individuo sia a tal punto individuo, monade, che non abbia nessun rapporto con gli altri e quindi non senta la sofferenza, le aggressioni, gli interventi della società. Come è possibile pensare che l’uomo viva da solo? L’altro grande problema è quello con i classici. Anche i classici si dovrebbero rifare, magari come metafore della nostra situazione, come elementi che ci possono permettere di leggere anche la nostra situazione. Sono racconti, storie che rimandano a noi e quindi se uno vede Riccardo II escluso dal trono o Riccardo III che ammazza i nipoti, il fratello… mi pare una cosa che probabilmente accade ora nelle grandi finanziarie. Oggi vedo una tendenza contraria, un iperrealismo, cioè pare che dobbiamo parlare per forza dell’oggi e come si parla oggi e quindi tutti i classici sono rivoltati a modo nostro… oggi è la piccola borghesia che tiene in mano il teatro e tutto viene ridotto a essa. Può capitare di vedere Macbeth vicino a noi e invece forse non era vicino a noi… insomma alcune distanze bisogna lasciarle come bisogna capire alcune vicinanze. Bisogna trovare, scegliere una linea. Rischiare.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Globalist.it il 21 aprile 2018

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