La leggenda del poeta bevitore

È morto ieri per complicazioni polmonari in un ospedale della cittadina californiana di San Diego lo scrittore americano di origine tedesca Charles Bukowski. Bukowski conobbe una vasta notorietà nella seconda metà degli Anni ‘70 con la pubblicazione in Europa di varie raccolte di racconti, tra cui la più celebre resta senz’altro Storie di ordinaria follia. Lo scrittore, che era nato nel 1920 a Berlino, avrebbe compiuto in giugno 74 anni.

Charles Bukowski era lo scrittore dell’alcool come strumento di rapida estasi e di lento suicidio, delle corse dei cavalli come metafore universali della vita, del turpiloquio eletto unico linguaggio naturale e accettabile, del sesso come faticoso passatempo, e del più assoluto rifiuto per ogni genere di ordine costituito. Questo vecchio e lurido poeta del dissesto urbano refrattario a qualunque ideologia è stato l’unico possibile eroe di una generazione che, soprattutto in Europa, dopo il tramonto del terrorismo rivoluzionario ha scelto di combattere il trionfante sistema consumistico con l’individualismo maledetto, la passività sociale, l’uso incontrollato delle droghe e la vita spericolata ai margini della società. Una generazione disperatamente sconfitta come il suo eroe. Perché Charles Bukowski non è morto ieri. Charles Bukowski è scomparso tanto tempo fa, alla fine degli Anni ‘70, proprio quando il successo internazionale ha regalato a questo artista barbone una bella casa con giardino, una Bmw nuova fiammante e l’improvvisa considerazione di tutti coloro che fino al giorno prima gli sputavano addosso. Dal 1980, infatti, Bukowski non è più riuscito a scrivere niente di paragonabile a ciò che aveva scritto prima. E lui stesso se ne lamentava spesso, con ironia e con dolore come testimonia il passo che riportiamo di uno dei suoi ultimi racconti, Azione, scritto nel 1985 e pubblicato soltanto molto più tardi, nel 1990 negli Stati Uniti e nel 1993 in Italia, nella raccolta intitolata Niente canzoni d’amore.

Bukowski è stato ucciso dall’America reaganiana con una semplice iniezione di benessere. E a questa dose mortale di droga ufficiale si sono aggiunti due piccoli, deleteri monumenti cinematografici allo scrittore e alla sua opera (i film Storie di ordinaria follia di Marco Ferreri con Ben Gazzara e Ornella Muti e Barfly di Barbet Schroeder con Mickey Rourke e Faye Dunaway) che hanno rappresentato Bukowski come un semplice, innocuo, folcloristico campione della civiltà metropolitana degradata.

D’altra parte, Bukowski era uno scrittore anticonformista e ribelle che non possedeva la benché minima coscienza di sé. Ma non era quel che si dice un naïf. Era un artista incosciente, subcosciente, inconscio. Del resto, il talento ribelle di Bukowski è cresciuto di pari passo con le sue sofferenze infantili e adolescenziali. La motivazione che ha fatto diventare Bukowski un cittadino americano, un artista errabondo e un nuotatore infaticabile dell’alcool (qualunque tipo di alcool, dal combustibile per autotrazione allo champagne francese d’annata) era unicamente il tribolato e dolente rapporto con suo padre, che non lo ha mai accettato come figlio, come essere umano dotato di sensibilità, come oggetto d’amore. In questo sofferto rapporto con il padre, è facile ritrovare tutto il mondo di Charles Bukowski: il rifiuto del sistema sociale e dei ruoli che da esso derivano, l’idiosincrasia verso il perbenismo e l’ipocrisia, l’ansia infantile di autodistruzione. Questi temi, indissolubilmente legati alla lotta di ogni uomo in crescita contro ogni forma di autorità patema, hanno fatto scattare la molla dell’identificazione nei giovani lettori inquieti che hanno appunto venerato il mito Bukowski negli Anni ‘70. Ma l’uomo Bukowski, non appena gli è stato riconosciuto lo status sociale di scrittore di successo, si è praticamente spento e la sua arte ha cessato di esprimersi. E così, per suprema ironia della sorte, lo scrittore che diceva «scrivo cose zozze, ma corro per il Nobel» è morto senza riuscire a completare il suo unico vero romanzo. Un libro sul rapporto con suo padre e sulla sua infanzia a Berlino, a cui lavorava da quasi trent’anni facendo una fatica probabilmente più grande di lui. Eppure, nonostante ciò, Charles Bukowski non si può certo considerare uno scrittore effimero. A prima vista, Bukowski sembrerebbe aver ricalcato le orme dei «giovani arrabbiati» della Beat Generation di Ginsberg e Kerouac. Ma non è così. Perché a differenza di Ginsberg o Kerouac, l’autore delle Storie di ordinaria follia è stato un ribelle senza causa, un eroe senza bandiera, un rivoluzionario senza ideologia. E oggi l’arte, la politica, il mondo, pullulano di ribelli senza causa. Pertanto, Bukowski è stato indubbiamente un precursore. Se poi consideriamo che la sua produzione migliore risale addirittura all’inizio degli Anni ‘60, questo valore profetico ne risulta oggettivamente accresciuto. Bukowski scriveva per vivere. Anzi, per sopravvivere. Gli editori di piccole riviste della West Coast degli Anni ‘60 acquistavano a poco prezzo i suoi racconti scritti di getto sulle traballanti scrivanie di fetide stanzette di pensioncine maleodoranti.

Solo più tardi, e solo in Europa, qualcuno decise di raccogliere i racconti in volumi. E se Bukowski non fosse nato a Berlino, forse i suoi scritti sarebbero rimasti per sempre sepolti in quelle pubblicazioni californiane quasi clandestine. Bukowski scriveva sempre ed esclusivamente sotto l’effetto dell’alcool. Una notte, una sbornia, un racconto. Non rileggeva e non correggeva mai. Il protagonista delle sue storie era sempre lui, il Relitto Umano, sotto vari pseudonimi, come Henry Cinasky, Henry Baroyan e tanti altri.

Quel suo stile asciutto, tagliente, onirico, inconfondibile era figlio dell’alcool e del malessere, ma rappresentava comunque una sintesi straordinaria di emotività e ironia, azione e pensiero, realtà e sogno. Uno stile fulminante. Che faceva breccia in qualunque tipo di lettore. Infatti, conosco ragazzi ormai invecchiati che, a parte Bukowski, non hanno mai letto un libro di un altro autore. Fino al 1980, i libri di Charles Bukowski sono tutti uguali. Nel senso che è difficile esprimere preferenze. In ogni raccolta, ci sono episodi folgoranti (specie i racconti più dichiaratamente surreali) e altri un po’ di maniera. C’è un titolo, tuttavia, che si discosta nettamente dagli altri. È Post Office, un esile volumetto che racchiude le impressioni di un’esperienza di vita vissuta. L’unica, vera esperienza lavorativa di Bukowski. Che per un breve periodo fu portalettere a Los Angeles. Post Office è una specie di diario, fatto di tanti piccoli aneddoti gustosi, pieno di cani feroci e di vedove non meno assatanate. In questo libro, per la prima e unica volta, Bukowski osserva e descrive il suo prossimo, rivelando sotto la sua proverbiale scorza di cinismo una inedita, acutissima capacità di guardare e capire gli altri. Il lavoro duro e umile lo aveva sconvolto al punto da dimenticare, almeno per un attimo, il suo esclusivo dramma esistenziale.

Dalla prima pagina – Autobiografia di un antieroe

Strada sbarrata per il paradiso. Non si può scrivere una storia d’amore fa di Bukowski una sorta di mistico in attesa, al di là (o al di qua) del degrado totale, di una risposta. Una risposta che forse è la donna (enorme e pulsante vagina in cui si rischia, miniaturizzati, di perdersi) ma anche il lucore che talora balugina oltre la sbornia, oltre l’eterna notte della sua America sporca e malata. L’opera di Bukowski tratteggia, non c’è dubbio, una educazione sentimentale alla rovescia che prende le mosse dalle lacerazioni famigliari, si perde nelle strade del vagabondaggio, passa attraverso la stordita maturità dell’ordinaria follia e approda al «vecchio sporcaccione». Malgrado il consistente afflusso di materiale autobiografico (tradotto in termini di «prosa spontanea» alla maniera di Jack Kerouac), il limite di Bukowski è proprio la letterarietà, l’estetica del brutto e del deforme, la pretesa di far suonare «autentici» professioni di fede esistenziale come «non c’è migliore galera di galera, ospedali, bordelli» o «le donne non sono tutte puttane, solo la mia lo è». Insieme all’attenzione alla scansione ritmica del racconto, insieme a quell’inchiodarsi delle frasi alla pagina come fossero dichiarazioni testamentarie, Bukowski lascia forse il meglio di sé nell’esplorazione di certi interni urbani, di certi anfratti della suburra americana, che ben lungi dal suonare «realistiche», si appiccicano alla memoria del lettore come sudice cartoline, come decalcomanie putrescenti. Alcuni hanno parlato di iperrealismo pittorico e non hanno sbagliato. L’America di Bukowski è quella. È una serie di polaroyd scattate senza ansia di futuro. Una serie di interni che parlano di un’inevitabile corruzione del tempo e delle cose. E degli uomini. Eppure, in mezzo a tutte queste rovine, è ancora una volta l’«io» dell’autore a farsi largo imperioso e seduttivo proprio come un beone. Non è un caso che l’editore Harper-Collins abbia recentemente pubblicato un volume a cura di JohnMartin, dove sono stati ordinati vari segmenti della produzione narrativa e poetica di Bukoswski secondo una palese intenzione biografica: venti romanzi, le novelle, i racconti, le poesie sono stati sminuzzati e rimpastati col titolo Run with the hunted (Corri con il cacciato). Col risultato di offrire un ritratto artificiale, composito, lontano dalla eroica frammentarietà del dettato originario. Un esito paradossale per un autore a cui, con ogni probabilità, si voleva rendere omaggio. Ma forse aveva ragione lui: «Non si può scrivere una storia d’amore».


HENRY BAROYAN si infilò tra la Cadillac e la Porsche, tirò con calma fino a 150, diede una boccata dal sigaro e inalò il fumo, pensando, magari avrò un po’ di fortuna oggi, sicuro come l’oro che ne ho bisogno. La Bmw aveva cinque anni ma andava ancora bene. Aveva sganciato ottantotto dollari per il nuovo bollo di circolazione, ma poi l’aveva perduto. Lui perdeva sempre tutto. Come il Premio Pulitzer. Dieci anni fa, quando andava forte, lo aveva rifiutato, dicendo che l’unico premio di cui uno scrittore aveva bisogno era già suo. Aveva sposato due volte la stessa donna. Aveva perduto 350.000 dollari alle corse. Non era riuscito a pagare le tasse. Si erano presi la casa, si erano presi tutto. Gli avevano lasciato giusto l’auto, la macchina per scrivere e la moglie. Tasse arretrate, 440.000 dollari. Come era potuto succedere tutto questo? Henry, una volta, sulle tasse arretrate ci pagava il sei per cento, e adesso era il sedici. Aveva scritto racconti di gente che faceva la fame e continuava a scrivere nella sua stanzetta. Come stava bene, allora! Ora aveva più debiti di quanto avrebbe mai potuto guadagnare. Era alla bancarotta, il mondo era alla bancarotta. Ma chi cazzo ce li aveva, i fottuti soldi? «Stai andando un’altra volta a quelle stramaledette corse?», aveva chiesto Tracy. Tracy era sua moglie. «Devo, cara. È quello che fa andare la tastiera della macchina. Ho bisogno di un po’ d’azione». «Puoi scrivere anche senza giocare. Non fare lo scemo. Non devi sprofondare ancora di più». «Che differenza fa se sto sotto di 440.000 o di 940.000 dollari?». «Una differenza di mezzo milione». «Che brava sei. lo vado». «Sei proprio uno stronzo!» E il peggio era che non riusciva più a scrivere. Era Larry Simpson, adesso, che gli scriveva le cose. Niente che andasse neppure vicino a quello che scriveva lui una volta. Larry era uno scribacchino. Ma il nome di Baroyan si vendeva ancora. Larry era il suo negro. E si pigliava il quaranta per cento. Magari un giorno mi ritornerà, pensò Henry. Magari una giornata veramente buona alle corse mi farà tornare come una volta.

Tratto da Azione, un racconto di Charles Bukowski scritto nel 1985 e pubblicato nel 1990 nella raccolta Septuagenary Stew. Stories and Poems edita in Italia nel 1993 con il titolo Niente canzoni d’amore presso Mondadori

ARTICOLO* DI  DAVID GRIECO

*La leggenda del poeta bevitore è il titolo dell’articolo firmato da David Grieco per «L’Unità2», in Cultura&Società, venerdì 11 marzo 1994, p. 3. In questo mese ricorrono i cento anni dalla nascita di Charles Bukowski (nato il 16 agosto 1920) che cominciamo a ricordare con questo articolo di David Grieco pubblicato per la morte dello scrittore avvenuta il 9 marzo 1994.

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