La rivincita, l’esordio cinematografico di Leo Muscato: restare o essere sospesi?

La tentazione di usare La rivincita per avviare una riflessione sullo stato del Cinema italiano (e sull’Italia, naturalmente) prima e nel vortice pandemico (perché il dopo deve ancora essere) è piuttosto forte: perché questo film non è arrivato in sala e per vederlo basta connettersi sulla piattaforma Rai Play; perché questo film racconta di distanze tra persone e di una fatica di vivere che è pratica e non esistenziale tout court; perché questo film fotografa una Puglia, un sud, che è solo terreno fertile da avvelenare con veleni e rifiuti tossici e da maciullare con il cemento e le speculazioni edilizie; perché questo film era stato scelto per la sezione competitiva del Bif&st 2020 che Bari attende in agosto, sperando di recuperare quei giorni di fermento culturale che l’avrebbero animata la scorsa primavera.

Ne La rivincita, per come è arrivato al pubblico e per come non è arrivato nelle sale, per quello che racconta, c’è una contemporaneità che è fatta di abbandoni e di perdite.

Il soggetto si ispira al romanzo omonimo di Michele Santeramo (Baldini&Castoldi, 2014), Muscato – informazione da ritenere solo come indicazione – ne aveva diretto anche l’allestimento in scena (coproduzione Teatro Minimo e Fondazione Pontedera Teatro), laddove lo sforzo di tradurre cinematograficamente questa storia sta proprio nelle posizioni che la macchina da presa assume nei confronti dei suoi personaggi: li interroga, li indaga, li cerca, un po’ li schiaccia con primi e primissimi piani costringendo lo sguardo dello spettatore a notare le pieghe del viso degli attori che riescono – con empatia piuttosto coerente, specie le interpreti – a mostrare quanto la precaria condizione economica e sociale devasti non solo nella dimensione interiore, ma anche nel corpo, invecchiandolo prima del tempo.

Questi due fratelli, che hanno ereditato dal padre case e terreni ma che poi subiscono espropri statali e cedono a ricatti mafiosi, conosco la porca miseria: sempre in debito l’uno con l’altro e con gli altri, sempre costretti a pagare sulla propria pelle (anzi, fin dentro le viscere, con il sangue letteralmente venduto al mercato nero) il prezzo dell’uso e abuso di pesticidi, anche se le taniche che compaiono, quasi fantasmatiche, nascoste tra i fiori del chiosco di Sabino (Michele Venitucci) e Angela (Sara Putignano) fanno pensare a quelle dei rifiuti tossici sotterrate in tutt’Italia e nel Meridione.

L’impianto narrativo procede per episodi, le ellissi non colmate sono tutte nel nero della dissolvenza: la situazione, quando pare stia per ri-entrare nella normalità di una vita quotidiana come tante, ecco che torna a complicarsi.

Vincenzo (Michele Cipriani) convince Maja (Deniz Özdoğan) a rinunciare al figlio che aspettano già, quando poi decidono di tentare nuovamente di essere genitori, ecco che l’uomo è ormai compromesso dall’uso dei pesticidi illegali e tossici (e il fatto che un lavoratore sia sterile se il suo luogo di lavoro è la campagna, diventa il motivetto fatalista di medici e avvocati, come se fosse ontologico ammalarsi se si lavora la terra).

Ecco: in questo Paese, in questo Sud, ammalarsi perché si lavora o perché non si lavora è un fatto ontologico.

Con intelligenza registica – visti i tempi di disinteresse culturale e politico e di dilagante ignoranza e indifferenza – Muscato non intende proporre un film di denuncia, con coraggio, a partire dalle sue inquadrature intimiste – tutte rette con grande forza da attori che raggiungono una sintonia efficacissima – vuole piuttosto che lo spettatore rifletta e svolga, a posteriori, una propria analisi.

C’è qui l’amarezza della commedia alla Scarpetta: certi scambi tra i due fratelli hanno il suono (ir)ragionevole di Miseria e nobiltà, dove, per altro, tutto si chiude con un magnifico concertato e attorno alla figura di un figlio, Peppeniello, che ha sempre mentito con il celeberrimo “Vincenzo m’è padre a me!” sulle proprie origini, pur di avere un lavoro come cameriere in casa di un arricchito che si fa chiamare “Cavaliere Eccellenza!”.

C’è qui il pianto in riso e il riso in pianto di Scola e di Monicelli, specie nel finale, che propone una soluzione in sospensione tutta affidata alle figure femminili irrisolte ma tenaci, interpretate da due giovani attrici che raggiungono un alto livello espressivo, una tragicità a tratti classica (specie Deniz Özdoğan che rende con grande efficacia e senza troppa retorica il rapporto di una donna con la propria maternità).

La Puglia si insinua nel tessuto narrativo senza campanilismi, ma è tutta nell’inflessione che i due attori – Michele Cipriani e Michele Venitucci – scelgono di dare ai propri personaggi. Inflessione più stretta quella di Venitucci che rende asciutto e nervoso il fare di Sabino, più aperta e densa quella di Cipriani che offre a Vincenzo una forza non banale, poiché questi personaggi agiscono sul filo fragile di una comicità tragica.

Nel complesso quella Puglia di terrazze dove i panni si stendono ad asciugare al vento, quella Puglia di Murgia e di ulivi secolari testimonia con discrezione che la rivincita, quella rivincita eroica che si potrebbe supporre e prevedere visti i temi di Cinema medio italiano e di romanzi medi italiani – che procedono sempre dando allo spettatore quello che lo spettatore vuole, cioè il tanto rassicurante lieto fine, cioè il tanto rassicurante “va tutto bene”, cioè il mantra ottuso del perbenismo borghese con l’anima in paradiso e il corpo all’inferno che assicura lo sviluppo senza curarsi del progresso – semplicemente questo prevedibile successo degli sconfitti che mette sempre tutti d’accordo, non c’è.

E non deve esserci, ormai, in un Cinema che voglia presentarsi onesto e coerente con la sua ragione d’essere, ontologica sì, ma anche e soprattutto epistemologica.

Di fatto, fuori di retorica, siamo tutti tragicamente seduti sul cornicione di un terrazzo, in una città di provincia del sud del mondo, con un figlio tra le braccia a cui somigliamo tanto anche se non è nato da noi e siamo tutti lì, a chiederci se sia meglio saltare o restare. I personaggi de La rivincita si preparano al futuro, ad un salto – perché un salto indietro, al sicuro o un salto avanti, nel vuoto verso la strada, verso il basso di sicuro ci sarà e sempre salto sarà – insieme.

Ecco, insieme. Senza sapere se ridere o piangere, a questo bisogna pensarci, per ora si resta sospesi. Come questo Paese ben prima della pandemia, come questo Sud, come questo Cinema.

Sul cornicione de La rivincita si diffonde la musica di Paolo Fresu che con il suo inconfondibile soffio fa vibrare No potho reposare, come per riprendere tutti fiato prima di continuare a lottare.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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