… nulla è nascosto che non debba essere manifesto e nulla segreto che non debba venire alla luce del giorno.
Marco, 4, 22

Roberto Andò, regista premiato al Bif&st 2019 con il Fellini Platinum Award for Cinematic Experience attraversa i nostri tempi in questa Conversazione tra Teatro, Cinema e Letteratura.
Durante la sua masterclass ha detto che il compito del Teatro è quello di metterci in relazione con i morti. Jouvet parlava di spiriti, lei proprio di morti.
La vocazione del Teatro per me è proprio di mettere in rapporto i vivi con i morti e questa origine, che è anche l’origine sacra del Teatro, è rimasta in altri modi oggi. In qualche modo è stata alimentata anche nel Novecento. In definitiva io penso che sì, ancora oggi, il Teatro deve mettere in rapporto chi c’è con chi non c’è più. Nel Teatro antico e nel Teatro greco questa relazione era ritualizzata – essendo il Teatro stesso parte di un rito civile e religioso – e oggi il Teatro ha una funzione completamente diversa, ma se faccio il paragone tra i due contesti penso che quella origine si senta, non si possa dimenticare.
Di fatto questo è quello che avete mostrato nella Conversazione su Tiresia di Camilleri, il rito, l’evocazione.
Sì, in Conversazione su Tiresia c’è un grande scrittore in condizione di cecità. Camilleri elegge a suo alter ego Tiresia, il personaggio del mondo antico per antonomasia indovino e cieco. Seguendolo attraversa la letteratura da Omero fino a tutto il Novecento. Tiresia è sempre apparso come una figura di messaggero. Camilleri ha scritto un testo nel quale si cala proprio nei panni di Tiresia nel corso del tempo e attraverso questa cavalcata consente di vedere le differenze con cui è stato trattato e accolto nei secoli. Poi Camilleri dissimula dentro questo discorso una parte di sé. È anche una funzione della letteratura perché la letteratura è anche profezia, lo è stata molte volte. Non è un caso che uno dei momenti più commoventi dello spettacolo è quando Andrea Camilleri rievoca un bellissimo racconto di Primo Levi che si intitola proprio Tiresia e si sofferma sul fatto che nessuno ha potuto preconizzare l’olocausto. Lì gli indovini si sono fermati, non è neanche immaginabile come cosa umana quello che è accaduto. È stato un modo per parlare della letteratura, parlare di una figura, della cecità.
Un elemento molto forte simbolicamente in quello spettacolo è che in scena c’è un bambino seduto ad ascoltare il maestro parlare. Quel bambino ai piedi del maestro è molto importante per uno spettatore giovane che magari vorrebbe trovare un maestro, ma non ha il coraggio di cercarlo.

Io sono uno che se li è andati a cercare i maestri, però penso che nella nostra epoca è saltata questa ricerca e oggi c’è anche il falso mito dell’uno a uno: siamo tutti uguali, non c’è esperienza che tenga quando si affronta qualsiasi argomento. Alla fine il maestro è uno che interpelli perché ne sa di più, e questo è un presupposto che la nostra cultura attuale in qualche modo mistifica perché non è neanche in grado di rinnegare. Oggi si pone il discorso in un altro modo: abbiamo tutti il diritto di parlare, la tua parola vale la mia… “Tu sei uno scienziato? Me ne infischio, per me conta quello che penso io”. A livello individuale ci sono persone che cercano i propri maestri, c’è chi fa l’Università e va a cercare i propri riferimenti, c’è chi cerca altrove, io non ho fatto l’Università per esempio, sono andato a Palermo a cercare Leonardo Sciascia e ho stabilito con lui un rapporto. Ma penso che ancora oggi questa ricerca personale esista ancora. Come dato comune… penso che questa sia un’epoca che rinnega i maestri e mistifica il valore dell’esperienza assumendo come valore l’inesperienza, cioè il fatto di non sapere nulla non è un problema, anzi, vale il “Che mi importa?”
E Sciascia è un maestro di etica, di politica in senso etimologico…

È un maestro civile. Lui diceva una cosa molto bella che mediava da un grande scrittore francese Paul-Louis Courier: “Mi piace concepire la pagina come una buona azione”. Ci sono pochissimi raffronti possibili da fare con Sciascia, abbiamo citato Primo Levi potremmo dire Pasolini e altri casi sparuti… ma in lui abbiamo per la prima volta uno scrittore che fa letteratura civile a partire dal racconto di mafia. Poi ha guardato alla politica quasi naturalmente nel momento in cui si è accorto che la mafia era diventata politica. Penso a libri come “Todo modo”, quelli sono diventati dei libri politici. I primi sono invece dei libri dove lui, partendo dalla vita in un paese siciliano, raccontava in una forma gialla il rapporto tra il cittadino e la giustizia, il cittadino e il sopruso mafioso. Quella di Sciascia è un’opera che rimane proprio perché non ha avuto successori e non ha neanche altri riferimenti, è stata una meteora Sciascia nel panorama italiano.
A proposito di cinema e mafia… lei questa mattina ha parlato con molta lucidità del sistema per cui, in Italia, certi prodotti finiscono per fare della mafia un fenomeno pop.

Penso che l’attitudine italiana alla convivenza con le varie mafie nasca dal fatto che è considerata parte del paesaggio, la mafia. Queste fiction hanno spettacolarizzato i codici criminali rendendo le vicende di iniziazione giovanile in modo da restituire un codice d’onore lì dove non c’era e senza intervenire – come il grande cinema ha saputo fare – sulle cause, sui contesti. Se uno vede “Salvatore Giuliano” (Francesco Rosi, 1962, ndr) ha una precisa idea del perché sono successe determinate cose, anche linguisticamente è un film importante perché il bandito non si vede. La cosa più facile da fare è mettere il bandito al centro del discorso, creare il mito… e come faccio a non obbedire al fascino della medusa allora? Rosi fa scomparire Giuliano, si vede ogni tanto un pezzo di impermeabile, una spalla. Ma in quel caso metti in rapporto i vari fattori che concorrono alla creazione di quel mito… capisci perché conveniva un Giuliano, vedi che ad un certo punto Pisciotta viene avvelenato in galera… e tutte queste domande a cui non ci sono risposte entrano in gioco in modo problematico. Invece se uno vede una fiction dove c’è l’eroe del momento, la sua vita privata, tutto è ridotto al privato: si toglie l’aspetto politico, diventa una storia dolciastra come tante altre, una storia a cui togli le punte, le spinte. Questa cosa si fa sistematicamente in tutti i casi italiani… se fai Borsellino andando fino in fondo, quella diventa una tragedia in cui lo Stato perde anche la faccia. Se invece tu quella storia decidi che non la vuoi affrontare, allora fai vedere la figlia, la moglie e questo teatro intorno a Borsellino scompare è solo un teatro intimo. Dico che questo è un disegno politico, ma perché è perseguito con coerenza da certi network.
Succede, del resto anche in letteratura. Si preferisce fare del biografismo. Basta pensare a quello che è stato scritto sull’opera di Pasolini con questo metodo.
Sì e nel caso del cinema basta pensare a “Gomorra”: guarda il film (Matteo Garrone, 2008, ndr) e guarda le serie (AA. VV, dal 2014, ndr). Il film è un film importante, le serie è come se inevitabilmente più che raccontare i contesti e i meccanismi in cui si riproduce il crimine, finisse per spettacolarizzare i codici criminali. È un fenomeno inevitabilmente attraente per un pubblico di un certo tipo. Io non dico che non si debba fare, però bisogna essere lucidi.
Tornando al Teatro. Pinter è stato un altro maestro che lei ha incontrato.

Pinter mi ha influenzato molto. È uno scrittore che riprendendo la lezione di Beckett, è come se avesse preso una carta di identità del personaggio teatrale e l’avesse resa sfuocata. Non hai mai la sensazione di ricondurre quello che succede in scena a una biografia specifica, è come se di tutti questi personaggi sai qualche cosa, il resto lo devi immaginare e quindi questa biografia sfigurata è anche una specie di metafora della condizione contemporanea. Pinter è un ebreo, dopo Auschwitz abbiamo visto andare in fumo la vita e in qualche modo la letteratura ebraica, il cinema ebraico ci hanno raccontato questo sfuocamento della figura umana. Pinter mi ha interessato perché è un autore che ha anche una fortissima preoccupazione civile e politica, però non è mai venuto meno al linguaggio, non fa prediche nei suoi testi. Sono ambiti completamente distinti e quindi c’è un rigore con cui affronta questi temi nelle opere che è molto significativo, al di là delle sue posizioni pubbliche. È stato anche un grande sceneggiatore. Io mi sono trovato a fare in Italia due sue opere “The room” la prima e “Celebration” e poi “Old times” che era stato oggetto di una contestazione perché lo aveva fatto Visconti, e da allora lui aveva impedito che si riprendesse in Italia. È stata la prima volta che ha concesso nuovamente i diritti di “Old Times” ed è venuto anche a vedere l’ultima recita a Milano e in quell’occasione ha annunziato che avrebbe abbandonato il Teatro. Sono stato molto legato a lui da un rapporto di grande affetto, ho fatto anche un film su di lui, un documentario portato a Venezia, “Ritratto di Harold Pinter”(1998), dove si racconta. Mi ha portato in giro per Londra, mi ha fatto vedere la casa di suo padre, un sarto, il luogo dove stava con gli amici… è quasi un’ora di film in cui parla molto di sé e della sua opera.
Tornando alla scrittura, diceva prima che si nasconde qualcosa in ciò che si scrive e che quel qualcosa deve stare nascosto. Non ho potuto fare a meno di pensare Italo Calvino che le ha affidato “La foresta – radice – labirinto” (1986).
È una specie di radiodramma, una fiaba filosofica molto bella. Lo avevo sollecitato a darmi qualcosa per il teatro e lui mi ha detto: “Posso darti questa” e io in effetti ne ho fatto uno spettacolo. C’erano anche delle aggiunte di Zanzotto. È una fiaba dove c’è un regno in crisi e quindi tutta la vegetazione è in un disordine totale e l’unico modo per rimettere in moto questo regno è che due giovani si sposino e tutta la fiaba gioca con motivi topici però con queste attitudini filosofiche tipiche di Calvino, e lo abbiamo fatto con le musiche di Francesco Pennisi, grande compositore siciliano, utilizzando attori come uomini marionette, un po’ come la tecnica del burraco giapponese ogni attore aveva davanti una marionetta grande quanto lui la indossava tutti i movimenti che faceva con le gambe e con le braccia corrispondevano al movimento della marionetta molto particolare. Pupi incarnati con qualcosa di orientale. È stato il mio esordio in Teatro.
E con le scene di Guttuso.
Sì, marionette e scene erano di Guttuso.
C’era qualcosa, si capisce dal titolo, che aveva a che fare con Ariosto, con l’ Orlando Furioso.
Sì, una delle opere più belle di Calvino sono le Fiabe italiane, poi ha scritto un bellissimo commento all’Orlando Furioso, quello è il suo mondo. Quando scrive il Cavaliere inesistente, lo scrive a partire dalla sua conoscenza della letteratura cavalleresca italiana e in particolare di Ariosto.
Tornando agli scrittori, c’è n’è uno che segna “Il manoscritto del principe” (2000).

Quel film si occupa appunto di ciò che mi stava a cuore, raccontare cioè il rapporto che ebbe Tomasi di Lampedusa con questo suo allievo. Tomasi di Lampedusa era un uomo che si annoiava, come molti aristocratici, la moglie era una psicoanalista e faceva terapia, aveva uno studio. Questo marito non faceva nulla, leggeva dalla mattina alla sera. A un certo punto lei gli suggerisce “Perché non fai delle lezioni a un tuo allievo?”, nella psicoanalisi c’è la pratica dei seminari. E lui sceglie una persona, la sceglie perché sa che è uno molto bravo, molto intelligente e che ha il vizio della lettura e sceglie Francesco Orlando che ora è morto ma è stato un grandissimo teorico della letteratura, insegnava alla Normale di Pisa. È l’uomo a cui Tomasi di Lampedusa detterà Il Gattopardo, per quattro anni si incontrano e tre volte a settimana. Gli diede lezioni prima di grammatica, poi di letteratura inglese, poi di letteratura francese. Questo rapporto fu molto complicato e questo incontro scatena qualcosa, in questi anni scrive il romanzo per cui lo ricordiamo, deve raccontare la letteratura che ha amato, il rapporto è molto tempestoso. Tomasi di Lampedusa è un uomo molto formale, non gli diede mai del tu, era sprezzante con questo allievo. È un film sul rapporto maestro-allievo, ancora una volta, e viene fuori l’aspetto morale, intellettuale di Tomasi di Lampedusa. La frase che tutti usano di quel libro è una frase che la gente attribuisce all’autore, in realtà è la frase che esemplifica una pratica che abbiamo visto in atto molte volte. Cambiare tutto perché non cambi niente. Oggi è anche utilizzata troppo. Il cinismo della politica italiana è tutto in quella frase e si rinnova. Le rivoluzioni oggi sono false rivoluzioni. È molto facile oggi mettersi su un podio e dire “Va tutto male”. A parte che abbiamo un governo che mette insieme due forze che dovrebbero essere su fronti opposti, quindi già non capisci nulla perché uno fa un tipo di lotta ai migranti e l’altro li vorrebbe difendere, uno fa il reddito di cittadinanza e l’altro le flat tax, anche lì il sospetto gattopardesco c’è. Si può solo essere confusi in mezzo a queste false rivoluzioni.
In questi giorni al Bif&st, anzi, proprio il 1 maggio è stato proiettato “Novecento” di Bertolucci. Guardando quel film non si può non fare un collegamento a “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini. In entrambi, anche se in modo differente, c’è una consapevolezza tragica di un fallimento.
Da noi non c’è mai stata una vera rivoluzione, è come se le origini dello Stato italiano siano state frutto di un compromesso che alla fine non ha uno scheletro solido, cosa che invece in altre Nazioni europee c’è. E questa condizione si è complicata perché la politica non si fa verificandola… prima c’erano delle verifiche, i luoghi dove si discuteva la politica, in piazza, ai comizi. Oggi apparentemente si discute sul web. È come se mancasse una verifica, è solo un mercato delle illusioni. Così come in campo culturale esiste chi vende e chi compra… l’autorevolezza di un libro, di un film, di un pensiero un tempo era un valore mentre oggi è attribuita alla presenza in una classifica di vendita.
Presto debutterà la sua “Tempesta” di Shakespeare e il suo Prospero che lei vede come un intellettuale che preferisce i libri al potere, preferisce l’immaginazione ed evoca gli altri personaggi. Sappiamo ancora immaginare oggi?
Diffido molto dalle critiche troppo forti a uno stato che ormai è la nostra pelle eppure alcuni aspetti della tecnologia hanno sicuramente favorito tutta una frequentazione di altri mondi ma impoverito la nostra capacità di immaginare. Se uno sta tutto il giorno col telefonino in mano, se clicca continuamente, per ricevere immagini, la capacità di suscitare immagini viene meno. Io non penso che sia qualcosa di apocalittico, si resetterà, la capacità di immaginazione è dell’uomo, quindi troverà altre forme ma certo in questo momento hai la sensazione del rischio di impoverimento culturale. Anche in Italia tutto un mondo che sembrava andasse avanti è arretrato, quello della cultura, anche nei luoghi istituzionali come l’Università… e in più questo strapotere dell’uso di questi mezzi fa si che l’immaginazione sia un po’ minacciata: è fuor di dubbio è minacciata la capacità di stare da soli, di intrattenersi con se stessi che è alla base della cultura. Per leggere un libro bisogna avere concentrazione coi propri pensieri, a un certo punto la gente forse non leggerà più… ma io non credo succederà davvero. Il bisogno di storie fa parte del nostro retaggio: è un bisogno antropologico, il bisogno di incamerare storie.

A proposito di mito e di ritornare alle storie. La scena finale de “Le confessioni” (2016) c’è un’upupa, così come ne “E la nave va” di Fellini (1983) c’è un rinoceronte…
L’upupa è un animale semidivino, c’è una poesia di Montale dedicata all’upupa…
L’aligero folletto, l’ilare uccello calunniato degli Ossi…
Sì, proprio quella. Nel film faccio un discorso sul rapporto tra animali e uomini. C’è anche un cane. Considero gli animali creature a tutti gli effetti e l’upupa sottolinea un aspetto sornione, ironico, nei confronti di questo monaco che è appassionato del canto degli uccelli. Mi piaceva che ci fosse questo uccello che nel mondo greco era considerato tramite con gli dei, un animale quindi sacro. Vedi, un animale che mettesse in relazione due mondi, come dicevo all’inizio.
C’è un senso di sacralità molto greco in questo film. Non è un film sulla religione.
Non è un film sulla religione o sulla politica. È un film sullo sgomento. Questi uomini di potere sono sgomenti di fronte alla morte del loro collega e sono anche sgomenti di fronte al silenzio di questo monaco e di fronte a qualcosa che loro non sono preparati ad accogliere: proprio loro che hanno un enorme potere sugli altri non sono in grado di fare una valutazione. Ecco il senso di quel film.
Il senso della catastrofe era già presente in “Viva la libertà” (2013).

La catastrofe è l’unica risorsa. Viviamo nell’emergenza costante in questi tempi. Anche questi cataclismi, vengono gestiti sempre in un modo paradossale. “Viva la libertà” dice che il nostro Paese è un paesaggio in rovina, in un mondo da cui non è emerso il nuovo sappiamo cosa abbiamo lasciato ma non sappiamo dove stiamo andando.
Anche l’alternativa è un problema di entrambi i film.
L’economia ha dominato il mondo negli ultimi venti anni. Si è imposta un’economia unilaterale e si diceva: “Non ci sono alternative, bisogna riparare il debito” e si è pensato di fare tutta una serie di manovre che hanno portato ad ignorare i veri principi europei. Perché l’Europa è nata? È nata su principi non soltanto economici: erano idee fortissime, quattro secoli di letteratura sono nati sulla prospettiva di una Europa che non fosse fondata solo sul controllo del debito. L’economia ha avuto questa funzione. Oggi si è rotto questo monolite, siamo usciti da questa ubriacatura capitalista, abbiamo capito che questo capitalismo sfrenato non ci porta bene e ora dobbiamo chiederci come possiamo mettere ordine, dobbiamo fare i conti con l’ambiente. Queste alternative oggi si cominciano a discutere.
È un problema anche di questione culturale.
È un questione inevitabilmente legata a quello che dicevo. Se l’autorevolezza dipende dal posto in classifica, dalla vendita, è inevitabile che non esiste più autorevolezza culturale e anche lì non ci sono alternative, ci sono solo certi parametri… ma oggi anche Proust sarebbe spacciato, non comparirebbe in classifica. Il film di Fellini che ho fatto io, “E la nave va”, non sarebbe neanche nato… il rischio del mercato è quello, che si finisca con il negare delle possibilità.
Ci sono intellettuali oggi?
Ci sono intellettuali che si fanno sentire meno di come si faceva sentire Sciascia, Pasolini… sono cambiati i mezzi, i modi. In fondo questi confronti sono pericolosi, perché rischi di essere nostalgico del passato. Oggi ha cambiato natura anche l’intellettuale, ma certamente quel mondo, quello di Sciascia e Pasolini, aveva una capacità di critica che oggi non c’è, anche perché il discorso è talmente confuso… se pensiamo a quello che succede al governo, dove due partiti che sostanzialmente avrebbero dovuto essere “nemici”, si sono messi insieme e stanno andando avanti. In questa situazione qui come fai a orientarti culturalmente, non c’è nessuna categoria che ti può guidare – sono di destra oppure sono di sinistra –. Per il potere due forze distinte trovano il modo di stare insieme, ed è unicamente per il potere che lo fanno, non c’è nessun’altra logica. Un potere che vuole stare lì, finché la gente si sarà stufata e arriverà a capire che questo predicare il cambiamento non ha portato nessun cambiamento.
C’è sempre nei suoi film l’equivoco, l’imprevisto, qualcosa che rompe l’equilibrio, con il senso tragico del comico e con il senso comico del tragico. Da dove viene questa spinta?

C’è una bella frase che dice Pasolini in “Petrolio”. Lì Pasolini fa un discorso sul fatto che il racconto deve essere pazzerello: “Se non è pazzerello non ha alcun senso”. Si riferisce al fatto che fino a un certo momento era possibile occuparsi dei grandi temi sociali, politici… da un certo momento in poi, vuoi perché c’è il surrogato televisivo, vuoi perché c’è la gente molto più condizionata dalla televisione, la forza di quel modo di raccontare è venuta meno. Allora devi fare ogni volta un racconto pazzerello per incidere nella realtà. Per me questo era l’unico modo per raccontare la crisi della politica. Un tempo avresti fatto probabilmente in un altro modo (penso al film di Rosi “Le mani sulla città”). Io per raccontare oggi la crisi di un uomo potente ho dovuto far ricorso a due gemelli in “Viva la libertà” ed ecco, entra in gioco il pazzerello. Ne “Le confessioni” è la stessa cosa. C’è un ordine entro cui deve far breccia necessariamente un elemento di inquietudine, che rompa l’equilibrio. Oggi la vedo così. Quando ho letto la frase di Pasolini mi sono riconosciuto.