Le confessioni di Roberto Andò: il silenzio comunica la consistenza delle parole

È primavera, una primavera ancora incerta. Eppure è primavera ed è questo un mutamento che investe la nostra quotidianità, anche se spesso diventa un arrovellarsi sulla maggiore o minore comodità nel vestirsi e nell’approfittare di pomeriggi più distesi nella luce che oramai abbandona senza fretta l’atmosfera.

È primavera, ma ci rendiamo conto del cambio di stagione se non per comodità, per ritorno immediato. Si potrebbe dire che i tempi moderni ci abbiano ammaestrato a vivere secondo convenienza perfino il cambio di stagione. Quanto economicamente parlando, può fruttare un cambio di stagione, un tempo di azione nella luce più prolungato, un tempo di riflessione senza il freddo dell’inverno nelle ossa? Il tempo, quanto può fruttare economicamente parlando?

Con Le confessioni, Roberto Andò avvia un discorso lucidissimo sul meccanismo economico che governa la nostra Storia e lo fa affidando ad un monaco certosino il dovere di rimettere in sesto lo scardinato tempo presente, tempo corrotto dagli interessi di un G8 che prepara una manovra segreta le cui conseguenze irreparabili per i Paesi più deboli appaiono fin troppo prevedibili.

E questo monaco certosino dal cognome parlante, Robero Salus, si muove in un albergo della Germania con gli occhi profondi e il passo rapido ma sicuro di un Servillo inedito che si impone per la forte presenza nei primi piani di Andò, per il magnetico contrasto tra l’espressiva iride scura e il bianco dell’abito e della barba che gli incornicia il volto scavato.

Complici della pluridimensionalità di questo scontro tra anima e ragion di mercatura sono i costumi di Maria Rita Barbera. L’abito bianco che fa riferimento all’integrità e all’onestà del confessore capace di ammettere il proprio imbarazzo per i peccati altrui, capace in definitiva di ammettere la propria umanità concedendosi una lenta sigaretta, stride piacevolmente con le cravatte degli ingessati ministri sempre compatti e insensibili a ciò che si muove attorno alle proprie decisioni – fra gli interpreti molto plastico Pier Francesco Favino che ha lo scomodo compito di rappresentare un ministro italiano -.

È il direttore del Fondo Monetario Internazionale Daniel Roché – un insondabile Daniel Auteuil – ad avere richiesto la presenza di Roberto Salus alla riunione: un economista abituato a vivere proiettandosi nel futuro senza alcuna cura delle cose del presente, né di una ipotetica morale o etica sceglie di prendere (anzi, perdere) del tempo per una confessione, per il confronto con un uomo che è invece custode delle anime che gli si affidano, capace di coltivare una religiosità che si connota per la forte e coraggiosa scelta di ascoltare gli spiriti del mondo.

Il silenzio è l’unica certezza che Salus può opporre al tentativo dei ministri di manipolare l’evento tragico con cui Roché, a suo modo, cerca di alterare il corso della Storia. Il silenzio è l’unica forma di ribellione ancora capace di ridare consistenza alle parole svuotate dal tecnicismo economico e dall’interesse del sistema ed è assolutamente indicativo che Andò scelga di costruire un paladino che vive in perenne ascolto, che addirittura registra il canto degli uccelli per raccogliere e tenere sempre presente il costante movimento della realtà.

Il regista costruisce un ponte tra cinema e Storia fondato sulle inquadrature strette e invadenti come la verità che mette in scena: spesso quando i potenti del mondo si isolano in questi summit per stabilire nuovi assetti economici e politici, invitano personaggi noti alla società civile per illudere quel magma sconcertato difficilmente appellabile come popolo, e in questo caso entrano in gioco la scrittrice Claire Seth – molto credibile Connie Nielsen – e la rock star libertina – sciolto e a proprio agio Johan Heldenbergh  – l’una disperatamente convinta che Salus possa spezzare il meccanismo, l’altro del tutto indifferente, estraneo alla questione.

In questo giallo esistenziale capace di mantenersi in equilibrio sul filo dell’ironia tragica e del grottesco, tutti gli interpreti – da Marie Josee Croze a Moritz Bleibtreu – mostrano grande padronanza del proprio ruolo ed il risultato è una coralità perfettamente intonata alla sceneggiatura tagliente, molto scoperta.

La fotografia di Maurizio Calvesi rende allo spettatore persino la freschezza del gelido Mar Baltico, plumbeo orizzonte metaforico e fisico della vicenda mentre la colonna sonora di Nicola Piovani sottolinea con levità tutta la tragicità della narrazione e diventa essa stessa un personaggio fondamentale che guida lo spettatore a comprendere il non detto di Salus, il monaco che riesce a dare corpo anche alle formule matematiche: la virtualità è spesso più reale della stessa realtà.

La vita, del resto, altro non è che slancio utopico, virtuale che si fa reale, e se Dio è intangibile quanto intangibili sono i valori delle cadute e delle risalite in Borsa, questo non significa che il valore della Vita può essere paragonabile a quello dei soldi. L’uomo non ha un alibi per credere che si possa calpestare la religione della vita.

In Viva la Libertà Giovanni Ernani, il gemello filosofo che prende il posto di Enrico Olivieri, il politico in fuga, affronta un discorso potente sulla catastrofe in Italia: «Non facciamo che assistere a una politica, a una industria che prosperano sulla catastrofe» ed è così coerente vedere in Le confessioni un personaggio disturbante, non un filosofo laico ma un teologo, che sfida la relativa calma diastrofica dei potenti e li spinge ad affrontare la catastrofe, il moto feroce del cane arrabbiato che si mastica la coda.

Può essere primavera, sembra dirci Andò nel finale che assume i toni del realismo magico. Se in una equazione la Primavera sta alla Democrazia come il Tempo sta alla Vita economica, politica e sociale dell’umanità, questo significa che abbiamo il diritto, e anche il dovere, di renderci conto dei mutamenti del sistema democratico ed economico senza permettere che la convenienza di pochi ci privi dell’umanità e dell’onestà intellettuale.

Del resto la Primavera non è un bene commerciabile, così come la Democrazia avrebbe dovuto essere la forma di una realtà politica non acquistabile, la forma di una giustizia sociale e dunque economica, non mercificabile.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Oubliette Magazine il 10 maggio 2016

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