
Quanto spesso capita oggi di assistere a rappresentazioni che vengono definite “politiche”, quando di politica non conservano più nemmeno ontologicamente la tensione?
Quanto spesso oggi, presi dalla smania di fare qualcosa sulla scena, si tende ad “attualizzare” il mito classico o Shakespeare o qualsiasi altro autore (fino ai tanto bistrattati novecenteschi), con la pretesa di mettere addosso a quei versi una patina di contemporaneità o peggio, di soggettivismo meschino, interpretando e riportando forzosamente il contenuto, la genesi e persino la struttura dell’opera alla propria vita privata e ai propri traumi infantili?
Troppo spesso. Come del resto, troppo spesso, capita di vedere in replica, trasposti più o meno furbescamente, lacerti di vita privata del commediante (o drammaturgo) di turno con la pretesa intellettualistica dell’universalizzazione del sentimento. Ciò che provo io, lo devi avere provato tu e se lo abbiamo provato già in due, allora è proprio qualcosa di globalmente interessante, vuoi che non l’abbia provato anche la signora in pelliccia in prima fila che controlla gli ultimi post su Facebook o il ragazzo spaesato che dal loggione si affaccia, tra una chiacchierata e l’altra con il vicino di poltroncina?
Il mondo, si potrebbe dire con ironia feroce, è certamente un caso clinico. Un pullulare di bercianti casi clinici che fanno a gara per fingere una sanità che non hanno mai conosciuto. Nemmeno in culla, visto che oggi perfino i poppanti ormai finiscono per essere sagome colorate e accattivanti sui profili Instagram dei genitori ossessionati dal marketing.

Questa premessa era doverosa per contestualizzare il tempo in cui Carlo Cecchi, arditamente ma con una consapevolezza di uomo di teatro profonda e ardente, porta in scena l’“Enrico IV” di Pirandello.
Cecchi mette ordine nelle parole. Prende il testo e lo trasforma con sapienza, non lo stravolge, anzi, lo rende martellante: ora suadente, ora irruento, efficace.
Fa di Enrico IV un uomo di teatro, un attore che guarda con noia e con disprezzo ai miserabili buffoni che lo vorrebbero guarito e normalizzato. Perché i nobili-buffoni, loro, si affannano nella vita a re-citare, mentre lui, che ha il dono della presenza nella voce, nell’incedere e nell’agire, lui gioca beatamente, il teatro lo guarisce proprio quando potrebbe condurlo al più acceso delirio.
Cecchi fa di Enrico IV un attore, non un caso clinico: la sua patologia non è la commozione celebrale, come vorrebbe l’autore, ma il desiderio di riscattare il teatro dalla fandonia quotidiana, dall’appropriazione indebita della rappresentazione fine a se stessa, dal furto furioso che avviene fuori dal luogo sacro del gioco.
Nelle note di regia, Cecchi scrive:

«Si recita con Pirandello. […] Si recita anche contro Pirandello, quando il contenuto e/o la forma della sua “tragedia” regrediscono ai luoghi comuni del teatro naturalistico della fine dell’Ottocento (per esempio: “la commozione cerebrale” come causa della pazzia del protagonista; o l’intero terzo atto che Pirandello precipita in un confuso e melenso melodramma con tanto di “catastrofe” finale). Questo doppio gioco con l’autore e con la pièce – doppio gioco che prende Pirandello molto sul serio, e lo affronta criticamente – conduce “la tragedia” a uno spettacolo il cui tema è il teatro, quello di oggi: specchio frantumato che riflette la vita della nostra epoca che è (citando Baudelaire) “un deserto di noia” con “oasi d’orrore” che crescono e sempre più si moltiplicano nel mondo».

Cecchi arriva a rendere estremo il monologo del protagonista, quello in cui emergono i temi finzione/realtà e vita/forma: estremo perché meta-teatrale al punto da compiere una inversione su se stesso e da tornare ad essere semplicemente teatro. E il senso dell’inversione nel solco, del continuare e del ritornare sul e al teatro è dato proprio dal movimento dell’attore dentro Enrico IV, un movimento circolare attorno all’unico oggetto che, incuneato tra due screens (pannelli), rappresenta il cuore incantato del potere attoriale: il trono dell’imperatore (le scene di Sergio Tramonti sono pastosamente illuminate da Camilla Piccioni).
La prima scena, si incastra nell’ultima: se ad esordio i consiglieri Landolfo / Lolo (Vincenzo Ferrera), Arialdo / Franco (Dario Caccuri) e Ordulfo / Momo (Edoardo Coen) fanno il provino dietro le quinte al nuovo arrivato Bertoldo / Fino (Davide Giordano) attore imbranato fresco di Accademia che pretende il ruolo da protagonista, e che preferirebbe fare le fiction in televisione ma legge le battute che si è appuntato riportando persino la punteggiatura, nella chiusura Enrico IV si sporge beffardo sul rivale, il Barone Tito Belcredi (Roberto Trifirò) appena colpito (si noti, senza spada) e morto (in una agonia rapida e comicissima) e rompe l’illusione scenica con estrema, limpida crudezza: alzati, che domani abbiamo un’altra replica, tutto può ricominciare da capo, proprio come nella traduzione dell’“Amleto” che Garboli scrisse per Cecchi.

“Enrico IV” – Foto di Matteo Delbò
La stessa funzione di rottura dell’illusione hanno i cambi a vista tra le scene, i pannelli alla Craig, le superfici riflettenti dietro il trono e le due statue che hanno la plasticità del concetto di Über-marionette e che ritraggono Enrico IV e la sua amata e odiata Marchesa Matilde Spina (Angelica Ippolito) nel momento in cui tutto si è fermato, durante la famosa cavalcata in costume e a nulla vale il tentativo da manuale dello psichiatra (Gigio Morra) per riportare tutto alla normalità. Il gioco di incastri funziona meravigliosamente, e ancora una volta l’adattamento si dimostra felice nel restituire una coralità piena e vivace che rende problematici personaggi che prima parevano giusto comparse. Gli attori sono tutti coinvolti, intonati e i loro corpi si muovono con gentilezza, come nella danza tra Enrico IV e Landolfo sulle note di una canzone spensierata, a lungo cercata alla radio da cui la voce del Duce arriva grottesca e che subito l’imperatore è pronto a smitizzare e a mostrarne tutto il patetismo con pochi accenni.
Tutto l’orrore, l’eccesso, la volgarità dei giovani fascisti, nelle mani di Enrico IV che avvolgono il mantello sulle sue spalle (splendidi i costumi di Nanà Cecchi), viene drasticamente (e giustamente, c’è da dire) ridimensionato con sarcasmo, con un distacco (pirandelliano nell’accezione più positiva) che rende allo stesso Pirandello più spessore di quanto tradizionalmente se ne riesce a dare.

“Enrico IV” – Foto di Matteo Delbò
L’operazione di Cecchi, dunque, va collocata drammaturgicamente a fianco a quella compiuta da Eduardo De Filippo su “L’abito nuovo”: possiede la stessa lungimiranza e abilità, la stessa capacità di rendere incisivo un contenuto che altrimenti rischierebbe di rimbalzare sulla platea perché incatenato allo stile manieristico del suo autore.
Questo “Enrico IV” è una lezione di Teatro, proprio perché la visione di Cecchi investe tutto ciò che illumina, tutto ciò che lascia in ombra e che sta al pubblico andare a sondare.
#Chièdiscena: 29 gennaio 2019 – Teatro Comunale di Corato (BA)