Il decano dei critici cinematografici pugliesi Vito Attolini si è spento l’11 dicembre 2017, all’età di ottantasei anni.
Firma storica de La Gazzetta del Mezzogiorno è stato un grande divulgatore di cinema, docente e organizzatore di rassegne, animatore di circoli e per lungo tempo fiduciario regionale per la Puglia del SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani). Collaboratore di diverse riviste specializzate, le sue pubblicazioni sono cominciate con l’inizio degli anni Ottanta e tra queste si ricordano Sotto il segno del film, Il cinema di Pietro Germi, Immagini del Medioevo nel cinema, Dal romanzo al set, Dietro lo schermo – Manuale dello spettatore.
Apulia Film Commission, il Gruppo Puglia del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e il Centro Studi AFC hanno proposto la prima edizione della rassegna “Vito Attolini, sotto il segno dei film” realizzata in collaborazione con la Mediateca Regionale Pugliese che ha ospitato dal 28 febbraio al 4 aprile 2018 sei proiezioni a ingresso libero. I film sono stati introdotti da critici del Gruppo puglia del SNCCI, colleghi di Attolini.

L’incontro del 21 marzo 2018 è stato dedicato a L’infanzia di Ivan di Tarkovskij e sarà interessante ricordare come Attolini scrisse di Tarkovskij nel libro Immagini del medioevo nel cinema (Dedalo Edizioni) nel lungo capitolo Il silenzio di Icaro sull’Andrej Rublev (1966) che, di fatto, continua il percorso spirituale dell’Infanzia di Ivan (1962).
Il cinema, come il teatro e l’arte, quando vissuti pienamente da chi compie l’opera, altro non sono che un atto di fede.
Un film di Tarkovskij è un esercizio spirituale, per dirla con Brecht.
È un risvolto ironico dell’arte che un visionario russo e uno tedesco si sfiorino intimamente, ma L’infanzia di Ivan è un esercizio spirituale. Un esercizio spirituale che conduce al miracolo della bellezza, cioè della verità che non si rivela ed è sostrato dell’essenza. Non è negata una certa sofferenza feroce davanti alla Storia: c’è solo un fiume possente, testimone che per natura tradisce il protagonista, a separare i soldati russi dai tedeschi e Tarkovskij non mette in discussione che questi due eserciti siano tra loro nemici. Tarkovskij si oppone direttamente alla guerra, si oppone alla tragedia della Storia in sé e non si preoccupa di farlo, di giustificarsi come vorrebbero i buoni critici di partito. È un rifiuto ontologico il suo, strettamente connesso al principio di causa-effetto, una scelta umana essenziale.

L’infanzia di Ivan – Tarkovskij
Forse la buona critica di partito si trova impotente davanti a Tarkovskij, perché Tarkovskij è già un critico, nell’accezione più positiva del termine: è già un intellettuale, più che un artigiano asservito. L’infanzia di Ivan è un film che trattiene in sé una anarchia sincera, non potrebbe essere che così: il regista lavora su una sceneggiatura già scritta, lavora con materiale già girato, ma fa le sue scelte, supera una crisi, riveste di delirio intimo, di lotta profonda l’attività di spionaggio del piccolo eroe deformato e non si concede alcuna pietà di regime. Il volto di Ivan è quello di un bambino già uomo, già pronto a morire perché attraversato da una fanciullezza negata che lo lacera. Non è il tempo ad averlo fatto maturare, ma la guerra, l’orrore degli “adulti”. È il percorso, questo film, di un martire che raccoglie in sé tutte le figure bibliche evangeliche: è un Adamo che gioca innocentemente su un carretto di mele sotto la pioggia, è un Mosé che perde la madre e attraversa il fiume, è un Isacco che altri padri non vorrebbero sacrificare alla guerra, è il Cristo che addirittura corre sulle acque nel finale, è il Figlio che si nasconde nell’icona tipicamente russa della Vergine con bambino dipinta sul muro sbrecciato della trincea e ripresa in una rapida inquadratura, è Lazzaro che torna dalla morte, è perfino il Giuda che vuole combattere contro i romani. In lui si condensano gli opposti, ma non c’è traccia di demoni, di fattori esterni: in lui, nella coscienza di un bambino troppo presto diventato più uomo degli uomini, solo nel suo ricordare, sognare, parlare nel sonno si manifesta questa profonda lacerazione che è la lacerazione stessa che la guerra ha inferto nel corpo dell’umanità.

L’infanzia di Ivan – Tarkovskij
Il vero paradiso perduto è l’innocenza (non l’innocentismo) dell’età infantile e la resurrezione di Ivan è possibile solo nell’evocazione di un tempo separato dalla guerra, un’anarchia vitale di bambino che gioca, non una regressione.
Quello di Tarkovskij è un esercizio spirituale, temo, irripetibile: fare del cinema un linguaggio non intellettualistico, ma intellettuale, non estetizzante, ma corrosivo oggi sembra una ricerca di verità poco sentita. La sua immagine è penetrante, esprime con nitore i movimenti dell’animo dei suoi personaggi, in loro si nasconde una umanità al di là del tempo e dello spazio e le inquadrature ardite, i movimenti di macchina sempre ricercati ma mai decontestualizzanti, il tentativo di rendere totalmente e totalizzante l’esperienza linguistica cinematografica fondano un’opera dal potere evocativo forte, fisico quanto l’esperienza teatrale anche se completamente differente.
È la ricerca nel pozzo di una stella che brilla sul fondo vicina e in pieno giorno.
È il viaggio senza ritorno nella coscienza, nell’intima trincea dell’umanità che si deve avere il coraggio, al di là dell’età che si ha, se non di mostrare per lo meno di osservare e percepire. Non c’è in Tarkovskij alcuna vocazione ad essere un artista individualista come molti dei suoi successori (e oggi assistiamo impotenti a questo propagarsi di voci che fanno dell’arte o di quel che ne rimane un megafono mercificato delle proprie minime pretese), perché la libertà è una questione dello spirito e come si può avere cura dell’umanità se si rinnega la necessità di tenere uniti secondo libertà il pensiero e l’essere?
Articolo di Irene Gianeselli*
* L’articolo è stato pubblicato la prima volta su Globalist.it il 22 marzo 2018