Quando ripenso a Vito Attolini, il vortice dei ricordi prende il sopravvento. Gli aneddoti non si contano. Ma mi piacerebbe cominciare da uno che non lo riguarda direttamente e che mi ha suggerito lo spunto di questo ricordo che va a sommarsi ai precedenti, dovuti. A un anno dalla sua scomparsa. Dunque, l’aneddoto di cui sopra. Tornando a casa una sera Mario Monicelli disse a Giovanni Veronesi in taxi: «Devo ricordarmi di salire le scale senza fare i gradini due alla volta. Non ho mica più ottant’anni».

Ecco, non mi sono mai chiesto quanti anni avesse Vito Attolini, che tra l’altro non amava essere chiamato “decano” dei critici pugliesi, perché una simile definizione carica di stima e di affetto, inseparabili l’una dall’altro, condivisa da chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerlo, per lui invece richiamava troppo l’attenzione sull’età avanzata. Non voleva rientrare in una categoria protetta. Desiderava confrontarsi alla pari, senza vantaggi preventivi. Contava la verve, non l’età anagrafica che perciò mi interessava poco. Era il più giovane, il più attivo, il più infaticabile di tutti noi colleghi del Gruppo Puglia, di cui per numerosi mandati Vito era stato l’insostituibile fiduciario. E tanto bastava. Gli anni erano quelli che non dimostrava.
«Dovrebbe averne circa ottanta, non ne sono sicuro, non so» dicevo sempre quando qualcuno me lo chiedeva. E quando è venuto a mancare, lo scorso 11 dicembre, mi è molto dispiaciuto sapere che aveva appena compiuto ottantasei anni. Secondo me, appena ottantasei. Il vigoroso spirito critico nasceva dal legame stretto a una tradizione culturale cinematografica e a un’attività pluridecennale di promotore di iniziative pionieristiche, di firma storica della «Gazzetta del Mezzogiorno», di docente e di storico, fondata su solidi e circostanziati giudizi e su un entusiasmo incrollabile. In più una figura di intellettuale molto trasgressivo, irriverente, controcorrente.
Vivace dentro e fuori, un gentiluomo d’altri tempi, posato, ironico, sempre sul pezzo, asciutto e slanciato, di solida e multiforme cultura, indifferente alle mode. Non faceva il gioco di nessuno, non si univa al coro, rigettava posizioni di comodo. La differenza tra la sua generazione e le successive stava tutta nel vissuto oltre che nell’intransigenza.

Un po’ Laurence Olivier e un po’ Omero Antonutti nei film dei fratelli Taviani, un po’ John Wayne, ovvero il colonnello Nathan Brittles nel fordiano I cavalieri del Nord-Ovest e un po’ Burt Lancaster nel viscontiano Gruppo di famiglia in un interno. Questa l’immagine che aveva preso forma e resiste indissolubile nella mia immaginazione ancorata al giorno in cui molto giovani, ancora liceali io e Salvatore De Mola, andammo a conoscerlo a casa sua a due passi dal Lungomare, in una cornice barese molto caratteristica e ancora oggi viva dal ricordo: un volto, una postura, un modo di esprimersi e muoversi cortesi e nel contempo decisi, affilato come i suoi lineamenti e generoso come le sue maniere temprate da una statura intellettuale impressionante.
Ci sentivamo ormai con cadenza quotidiana, a tutte le ore, tanto che mi sono sempre chiesto quando dormiva o mangiava visto che le nostre conversazioni si sono svolte di prima mattina, abitualmente, ma anche a ora di pranzo e di cena, nel primissimo pomeriggio e in tardissima serata. Per stare al passo con lui nella conversazione, mentre ricollegava all’istante date, nomi, titoli e circostanze remote, dovevo con una mano reggere la cornetta del telefono e con l’altra sfogliare dizionari o procedere al computer su vari motori di ricerca. E non si trattava soltanto di collegamenti strettamente cinematografici. Teatro, letteratura, cinema, storia. Tutto.
Gli avevo anche proposto persino un libro di memorie, il libro che io stesso avrei voluto leggere per sapere tante cose che ignoravo e ignoro per ovvie ragioni anagrafiche, per raccogliere in parte questo ben di dio che tumultuosamente procedeva nella sua mente. Per lui però neanche a parlarne. Peccato.
La quantità dei suoi libri, dei suoi saggi, dei suoi articoli è tuttavia notevole. E giunge inarrestabile fino al volume su Sandro De Feo che ha curato con Alfonso Marrese per la collana dedicata ai “cineasti” pugliesi in senso lato portata avanti dal nostro Gruppo con il supporto della Teca del Mediterraneo del Consiglio Regionale della Puglia. Libro che Vito ha concluso poco prima di ammalarsi, assieme a un saggio per un volume su Zampa e i rapporti con Vitaliano Brancati che da subito aveva entusiasmato il curatore Orio Caldiron. Questi in ordine di tempo i suoi ultimi lavori. Difficile sceglierne uno piuttosto che un altro.

Certo, Il cinema di Pietro Germi nel 1986 anticipò di non so quanti anni, un decennio almeno, la doverosa e oggi sistematica riscoperta in testi monografici dell’autore di Divorzio all’italiana. Anche Immagini del Medioevo nel cinema nel 1993 resta un unicum nel suo ambito di studio, mentre Dal romanzo al set. Cinema italiano dalle origini a oggi nel 1988 è inseparabile per spessore e concezione dalla successiva Storia del cinema letterario in cento film in cui dieci anni dopo Vito mostrò tra l’altro una posizione non di rendita prediligendo a sorpresa sulla scorta di puntigliose argomentazioni delle due versioni di Lolita quella di Adrian Lyne alla più celebre di Stanley Kubrick.
Una volta scovai persino un intervento su «Cinema Nuovo» del 1966 scritto in forma di lettera al direttore Guido Aristarco, intitolato Bellocchio, posizione moralistica e rabbia: un testo come sempre non allineato, su I pugni in tasca. Vito era così.
Difficile ricostruirne in poche cartelle tutto il suo percorso. Di sicuro avremo modo di farlo nella collana di cui sopra, in cui dopo i volumi curati da Vito ce ne sarà presto anche uno interamente su Vito. Insomma, nessun rammarico di non avergli costantemente detto e ridetto in vita e non ex post di volergli un sacco di bene. E per non metterlo in imbarazzo, di averlo scritto sfacciatamente approfittando dell’assegnazione del premio Domenico Meccoli alla carriera nel 2014 ad Assisi.
Solo un diverso, inevitabile rammarico: avrebbe scritto e prodotto ancora tanto. Sono semmai questi libri ulteriori e che non leggeremo a mancarci ora. Ad ogni modo, un giorno o un anno, non fa differenza. Il tempo con lui non è passato.
E’ un peccato che tu non abbia scritto quel libro di memorie: con il tuo talento per la scrittura sarebbe venuto fuori una meraviglia.
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