Abbiamo ascoltato la voce amabile di Franco Piersanti per voi al Bif&st 2023.
Nanni Moretti è il regista “imprendibile” che girava di domenica Io sono un autarchico (1976) e che con cinquantamila lire gli pagò la consulenza musicale e la prima composizione per il film. Una scrittura, quella, che lui stesso definisce “ancora inconsapevole”, ma che segnò l’inizio di una collaborazione intensa. Con Moretti si vive sempre in equilibrio tra l’affetto e l’ironia: «Meno Stravinskij, più Califano» gli disse per Il Caimano (2006) e adesso è attesissimo l’ultimo, in sala dal 20 aprile 2023, Il Sol dell’Avvenire.
Alberto Sironi: una collaborazione lunga vent’anni, con lui si fece ritrarre ammanettato in una questura del Commissario Montalbano. La musica di Jean Constantin per Les Quatre Cents Coups di Truffaut (1959) da tenere come un santino in un libro sul comodino.
E la certezza, fare musica per il film e del film come mestiere. È il 1981, incontra Gianni Amelio e comprende il senso di un progetto drammaturgico sentito che ha sempre davanti ed è dentro la Storia. «La sera in cui Colpire al cuore (1982) fu proiettato al Festival di Venezia arrivò la notizia dell’omicidio del Generale Dalla Chiesa» ricorda. Da allora Gianni Amelio non ha mai smesso di affidargli il compito di trovare il suono delle sue storie: «Franco fai musica come se piovesse e pensa a Nature boy cantata da Nat King Cole, pensala come una melodia popolare siciliana o calabrese».
La bellezza dell’invenzione, dei rimbalzi reciproci tra regia e composizione, l’incertezza di credere che ciascun film potrebbe essere l’ultimo, come diceva Ennio Morricone: il Premio che ritira al Teatro Petruzzelli il 31 marzo 2023 è dedicato a lui, lo ha vinto per il suo lavoro di compositore in Siccità (Paolo Virzì).

Maestro, la prima domanda non può che essere su Nino Rota.
Per me è una grande emozione, sono venuto tante volte a Bari, ma quando c’è di mezzo la musica e il mio mestiere per forza il nome di Rota comincia a risuonare e il riverbero è sempre così forte perché ho avuto il bellissimo regalo dalla vita di conoscerlo quando ho fatto gli esami al Conservatorio presentandomi qui come esterno e poi frequentando a Roma. Rota poi si è ricordato di me – come faceva spesso con i giovani, Nicola Scardicchio lo sa bene – e per due anni sono stato vicino a lui, non saprei dire come ragazzo di bottega, assistente, non saprei dire… ma la convinzione che ho è che fosse per un motivo preciso: aveva questo modo di dare sé stesso a qualcuno, pensava fosse il caso e allora ti cercava. Quindi non mi ha insegnato direttamente la musica, ma bastava soltanto guardarlo per vedere e avere un modo di vivere e poi certamente il suo spirito era così forte, indelebile, non poteva non lasciare un segno. Oggi c’è sempre questo senso di gratitudine, venire qui in questa occasione con un concerto e un Premio che porta il nome di Ennio Morricone non è una cosa da poco per me.
Qui al Bif&st Andrea Camilleri è stato ospite di una masterclass, devo chiederle del suo lavoro per Il Commissario Montalbano: è impossibile pensare a quei film senza la sua musica.
All’inizio la commissione dalla RAI fu di fare soltanto due film piloti, non si sapeva come sarebbe andata. Gli arancini di Montalbano e Il suono del violino sono stati una grande fortuna: una strada durata vent’anni dal 1999 sino al 2019, con la morte di Sironi che è stato sempre formidabile e di Camilleri che ho incontrato allora perché provammo a scrivere una canzone che avrebbe dovuto essere la sigla, poi non ne è uscito nulla, però quei due film appunto contenevano già in nuce l’ideologia che ha seguito. Quindi a parte il modo di girare di Sironi e l’interpretazione di Zingaretti e le storie così forti e potenti di Camilleri, penso che la musica sia venuta fuori perché diversamente da altri gialli o thriller c’è un aspetto profondamente umano, filosofico e irripetibile di Montalbano sul quale mi sono potuto appoggiare. Era come se la musica avesse un’ombra piuttosto lunga, poteva riflettersi in Montalbano che ha dato molto all’ispirazione, poi mi sono sempre trovato in accordo perfetto con Sironi.
Ho riascoltato solo la musica, senza pensare al fatto che sia parte di un film. Ho pensato che nel suo caso diventa proprio un altro personaggio, succede già in Bianca (Nanni Moretti, 1984).
Questo per me è il ruolo della musica. Nel senso che immaginiamo un film interpretato da 10 compositori diversi, sarebbero 10 ipotesi possibili. Poi sempre quello che esce, si vede, si sente è qualcosa che si concorda con il regista. È un approccio che si ha che nasce da una combinazione tra personalità, però le richieste che arrivano dal regista possono anche rendere la vita difficile a volte… magari devi trovare un linguaggio che non è quello che hai in mente tu. Il film è del regista e può succedere che il regista scelga una proposta nella quale mi identifico di più, allora bisognerebbe fare questa domanda anche ai registi per capire se hanno ottenuto la musica che volevano. Perché poi sa, il regista sta con il suo film per un anno: scrittura, riscrittura, poi gira, va al montaggio… si ritrova poi dopo un po’ di tempo con una cosa trasformata, la musica segue questa organicità di struttura, per cui è difficile definirla prima delle elaborazioni e forse è proprio un regalo che arriva alla fine, una emanazione finale, magica in qualche modo. Non so se ho risposto esattamente alla sua domanda, ma spero che sia una qualità positiva che la musica possa sembrare un altro personaggio.
Sì, certo e mi ha risposto: ha parlato di organicità e io penso anche a qualcosa di molto creaturale quando la ascolto, che vive nel film ma che esiste anche oltre il film.
Ecco, quella è la cosa principale per me, soprattutto. La musica per immagini può avere una sua statura e autonomia e certamente richiama le immagini, però può vivere. È musica soltanto quando viene ascoltata e eseguita.
Infatti è ciò che si pensa ascoltando il suo lavoro per Siccità.
Non abbiamo lavorato diversamente dal solito con Paolo [Virzì, n. d. r. ] che è molto sensibile alla musica, avevamo già lavorato insieme più di dieci anni fa per Tutta la vita davanti (2008) e anche lì, mi ero trovato molto bene con lui. Questa cosa di poter articolare un discorso musicale e non fermarlo a un tema, semplicemente a una impressione che dura un minuto, con lui è possibile. Il discorso era piuttosto ampio in questo caso: il film ha le spalle abbastanza larghe per ricevere un ragionamento e una drammaturgia un po’ più impostata. Quello che ha giocato è stata la tematica dell’aridità, dell’alterazione dei personaggi che va verso una certa acidità. Quindi la musica non era così lucida e trasparente: ho cercato questa acidità di fondo che poi si scioglie con l’unico tema melodico della pioggia che corrisponde al momento in cui tutto quanto riprende a circolare.
Si pensa a Janáček.
Addirittura? Ma questo è un gran complimento, non avevo pensato a lui. Forse per via di quel violino che suona molto particolare, strascicando e alterando il suono.
Sì, per il senso di indefinito, di una sofferenza sulla quale si riflette.
Sono davvero contento che l’abbia colpita così. Nella musica del Novecento ho grandissima predilezione per Stravinskij e Britten anche se non posso tralasciare Šostakovič, Bartók e Berg, Schönberg. Ciascuno di loro mi ha lasciato un pezzo importante.
Ecco, in Siccità c’è anche Bartók…
La spigolosità, difatti.

È giusto farle una domanda che di solito si fa anche agli altri rappresentanti dei mestieri del cinema: come vede il futuro, le generazioni che stanno arrivando?
Sa, ho avuto fino a pochissimo tempo fa esperienze come didatta, ho cercato di trasmettere le cose fondamentali del mestiere perché è cambiato veramente tanto. Ma negli ultimi quindici anni ho visto cambiare il mondo che frequento, non solo la musica… è così difficile comunicare ai ragazzi che il sogno che hanno – e rimane lo stesso, è quello che avevamo anche noi – di scrivere musica per il cinema in realtà è lontano. Perché in un Paese come il nostro è difficile avere quella felicità di mezzi di cui possono godere altri giovani, magari in America. E ho visto che tanti ragazzi fanno una equazione: è facile fare la musica con il telefonino e la musica che vedono sul grande schermo è un sogno realizzabile facilmente allo stesso modo. Invece le due cose non vanno insieme, la musica con il telefonino non si può fare, in realtà mettere una musica sulle immagini è un lavoro massacrante. Questa idea della facilità ha dettato anche un cambiamento nel gusto e nella qualità. Mi auguro che la tecnologia possa ridare forza in qualche modo al lavoro, ma di base se ci si adagia un po’ troppo a quello, è difficile che possa fornire materia al nostro mestiere. Non dico che bisognerebbe riscrivere per orchestra, sento che quel tempo lì è andato… io stesso con la mia storia sento di avere vissuto un periodo importante dal punto di vista del gusto e della qualità, del cambiamento di orizzonti, ma mi sembra che quello odierno sia un po’ più limitato, sinceramente. Anche se il cinema può avere dei grossi risultati, bisogna vedere come ci arriva la musica a prendere forma in quel modo di lì. Tra l’altro, dal punto di vista produttivo, la musica non ha mai avuto una voce autonoma nel budget, è questo il costume in Italia. Perciò bisogna capire che c’è un muro contro cui ci si scontra: spesso sono i registi che devono imporsi per garantire che il film abbia delle musiche originali e soprattutto i mezzi perché ciò sia possibile.
Credo sia un problema di educazione musicale, c’è un vuoto (anche dentro i Conservatori, la scuola e le Università): bisogna rieducarci all’ascolto e al rapporto con uno strumento almeno.
Sì, assolutamente sì, lei prima mi diceva Janáček ma sa che Zoltán Kodály aveva fatto un programma di istruzione musicale in Ungheria dove tutto il Paese nel giro di due generazioni avrebbe letto e suonato uno strumento così come imparavano a parlare, perché se si comincia in quel modo e non in maniera esclusiva, specialistica ma considerando la musica come un linguaggio naturale si arriva a quel risultato. Poi uno se ha talento si svela, ma questo non vuol dire che io che non ho ingresso alla grande musica, all’interpretazione o al concertismo non debba capire il linguaggio, scrivere le note e suonare il pianoforte.