Vita privata di Josep Maria de Sagarra: così i lupi di Barcellona raccontano la decadenza del presente

Il traduttore, Enrico Ianniello, ci ha rivelato che avrebbe voluto ribattezzare il romanzo nella sua versione italiana (è la prima in assoluto) con un titolo che rimanda subito a Il Gattopardo. Così Vita privata (Crocetti Editore, 2022) di Josep Maria de Sagarra avrebbe potuto arrivare in Italia presentandosi come I lupi di Barcellona. E, in effetti, questo titolo ci avrebbe consegnato immediatamente l’immagine della decadenza che abita la città e la sottomette nel trapasso incerto dalla dittatura di Primo de Rivera alla Seconda Repubblica. Conviene subito sottolineare, infatti, che Josep Maria de Sagarra affabula con una voce seducente quanto umbratile: sospeso tra la costruzione del romanzare ottocentesco alla Balzac (ma non si esiti a rivedervi anche un certo Thackeray), il decadentismo (che per quanto si tenti di abbandonare come riferimento della critica letteraria resta una coordinata tanto puntuale quanto efficace per comprendere anche a quale orizzonte ci rivolgiamo noi oggi), il modernismo e le sue forme più sperimentali (come lo stream of consciousness), l’autore innesta nella lingua letteraria artificiale il realismo schietto di un catalano popolare con i suoi giochi di parole e le sue dizioni dialettali abilmente tradotti da Ianniello ricorrendo alla propria lingua madre napoletana che già aveva brillantemente impiegato nel tradurre le opere del drammaturgo catalano Pau Mirò (si pensi agli spettacoli Chiòve e Jucatùre).

Certo, Josep Maria de Sagarra ci raggiunge dal 1932 e noi, pur se lettori esperti, non fatichiamo a immaginare la difficoltà del lettore medio abituato a leggere i prodotti di mercato (e magari convinto, a torto, di essere consumatore della letteratura contemporanea più alta e sublime). Ma l’impegno paga, lo possiamo assicurare: arrivare sino all’ultima pagina di questo romanzo significa entrare in contatto con una prosa ribelle, dissepolta dal revisionismo fascista di Franco e che restituisce un singolare bestiario della nobiltà e della borghesia che oggi, con le dovute differenze, potremmo ritrovare nei luoghi della mondanità italiana (che sapore avrà, tra qualche anno la catastrofe che seguirà la decadenza odierna?).

Non a caso, il franchismo censurò questo ritratto impietoso di una umanità corrotta e ideologicamente meschina: l’anti-epopea della famiglia de Lloberola, abilmente divisa in due parti da una cesura temporale netta (cinque anni) e da un altrettanto netto cambio di prospettiva generazionale (il primo che incontriamo è Frederic de Lloberola e il suo debito, a lui seguono i figli sempre più perduti) ci permette di entrare, appunto, nella vita privata di queste persone tendendo l’orecchio perfino al commento del passante. Nessuno sfugge allo sguardo sagace e, a suo modo, feroce di Josep Maria de Sagarra: lui stesso, del resto, è il campione di una nobiltà decaduta che arranca alla ricerca di una propria definizione tanto politica, quanto economica e sociale, bisogna, infatti, capire a chi vendersi. Le donne, poi, sono ontologicamente doppie e incarnano il mandato ricattatorio dei rapporti sociali che si esprime al meglio nei dialoghi asciutti, taglienti, con cui l’autore ci riporta al suo talento di drammaturgo.

Josep Maria de Sagarra en las Ramblas (Josep Maria de Sagarra on the Ramblas)
Francesc Català-Roca
Valls, Tarragona, Spain, 1922 – Barcelona, Spain, 1998

Raggiungere il finale sulla Rambla, tra gocce di “tristezza e prostituzione” nel profumo “misto di nottambuli, escursionismo e democrazia” significa chiudere un cerchio: l’incipit – che è uno dei capolavori della letteratura europea, bisogna dirlo – si apre con un risveglio. In questa antitesi tra veglia (e quindi apertura su una realtà marcia e stantia) e sonno (e quindi ipotesi di sogno) trova spazio l’ipotesi di una Vita nova (conviene ricordare che Josep Maria de Sagarra è l’autore della traduzione catalana integrale della Commedia di Dante). Ma non ci si illuda con la speranza: l’ipotesi sta nel corpo di un uomo qualunque, grigio, dall’età indefinita ubriaco di whisky e con il cuore pieno di rose rosse. Ritratto perfetto, con poche rapide pennellate, del più contemporaneo uomo medio e della sua miseria esistenziale: ritratto perfetto di chi si crede “il sale della terra” e invece ha la bocca amara e si ingozza. Ma è solo qui, nei tre puntini di sospensione che de Sagarra sembra proporci uno slancio pietoso, di compassione disincantata, nei confronti di questo povero disgraziato che se ne va, con il cuore ardente, verso un tempo senza più religione né passione in una città in dissoluzione che si fa tutta pertugi e urla indifferenti di rondini e rondoni tra le bancarelle del mercato.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI 

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