Costruire navi e piantare alberi: una conversazione con Volker Schlöndorff dal Bif&st 2023

Abbiamo conversato con Volker Schlöndorff, il regista Premio Oscar Presidente del Bif&st 2023 nato il 31 marzo 1939.

Maestro questa intervista uscirà domani, il giorno del suo compleanno.

Ah, sì… non posso cambiare questa data! [ride, n. d. r.] Che bella settimana è stata! Sono molto impressionato dal pubblico del Bif&st. C’è tanta gente alle proiezioni e quando esci da una sala vedi già la fila per la proiezione successiva. È come se tutta la città andasse al cinema per una settimana tre o quattro volte al giorno in un’epoca in cui quasi nessuno va mai al cinema, anzi, viviamo la più importante crisi della storia del cinema. L’impressione è che addirittura il cinema in sala stia per finire e di sicuro non sarà mai più come prima. Ma allora è fantastico vedere una città normale, non una metropoli, così interessata al cinema. Sarebbe per me questa la prova che è una vera necessità andare in sala, più per incontrarsi e per parlare dei film che per vederli e basta e infatti al pubblico non basta più vedere il film, vuole una introduzione e un dibattito dopo. Se le sale offriranno tutto questo invece che adattarsi a ciò che propone la distribuzione, io sono certo che il pubblico tornerà al cinema. Ho fatto una esperienza in Germania: cinquanta cinema in quaranta città, sei settimane in macchina, dal nord al sud, da est a ovest e ogni sera c’era il dibattito con il pubblico dopo la proiezione. Quando ho incontrato i vari proprietari di queste piccole sale, mi hanno confessato che solo se si comportano come un buon padrone di ristorante, cioè solo se si mettono sulla porta ad accogliere le persone e le invitano a entrare, le persone si sentono coinvolte. Solo in un continuo dialogo con il pubblico, perché ogni pubblico è diverso, si può garantire un cambiamento. Per questo è necessario che attori, registi, qualsiasi persona che ha lavorato al film, dal macchinista all’aiuto regista, deve essere a disposizione del pubblico per parlarne… anche una sala normale oggi deve funzionare come un Festival e per me qui a Bari si può imparare come si fa.

Mentre la ascolto penso a una parola, bellissima, che quasi nessuno vuole più pronunciare: politica. Il film è un fatto politico che appartiene alla polis.

Certo, brava per questa definizione: fa parte della polis, fa parte dunque della nostra vita. Anche quando non si parla di politica è sempre un fatto politico. Il fatto politico di riunirsi e di avere uno scambio, ma anche un cambiamento, all’interno della comunità. Come succede ancora, forse, con il football… [ride n. d. r.]

Notavo una cosa prima di venire qui: i suoi primi film hanno per protagonisti soldati che non vogliono combattere. Comincerei proprio dal suo primo corto: Wen kümmert’s? (1960).

Ah, un film da dimenticare: girato a ventuno anni, dura dieci minuti, l’ho girato un po’ come un dovere durante le vacanze subito dopo la scuola. Ero stato volontario sul set di Zazie dans le métro (1960) di Loius Malle. L’unico interesse di questo cortometraggio è che fu proibito in Germania e in Francia perché lo girai durante la guerra d’Algeria e volevo far vedere la situazione di due soldati algerini che non vogliono prestare il servizio nelle file francesi combattendo contro i loro connazionali, i due si rifugiano verso la Germania. Esisteva un commando che cercava questi disertori per rimpatriarli o ucciderli; quindi, chiaramente in Francia era inaccettabile un film del genere e l’Algeria ottenne l’indipendenza due anni dopo, nel 1962, ma la Germania aveva paura di entrare in conflitto con il governo francese. Cinematograficamente, però, non ha nessun merito…

Eppure, compare un tema importante: quello dei soldati disertori, degli uomini che devono stare al confine tra uno Stato e l’altro perché vivono una alienazione politica. Un altro uomo solo che muore confinato nella foresta è il protagonista di Baal (1970) …

Baal in effetti è proprio il Brecht anarchico e in un senso poetico e certo c’è sempre un fondo politico. Ma per quarant’anni il film non si è potuto vedere: la vedova di Brecht odiava il film, era un Brecht anarchico, non didattico e socialista, comunista. Però di grande vitalità e senza ideologia, proprio questo mi è piaciuto, non si può chiamare proprio lirico, ma di certo non è strettamente ideologico. È proprio come un manifesto del 1968, abbiamo girato nella primavera del 1969: in quel tempo. E pensa che Brecht lo aveva scritto subito dopo la I Guerra Mondiale, tra il 1918 e il 1922, che fu anche in generale un periodo anarchico.

Con questo film cominciò la collaborazione con Margarethe von Trotta.

Sì, l’ho conosciuta proprio facendo il casting di Baal, ma mi ha rivelato che già un anno prima o due voleva incontrarmi: era un’attrice, ma aveva già l’idea di fare la regista perché durante gli anni di studio a Parigi collaborava con altri studenti che volevano fare cinema. Subito dopo Baal ho sentito che lei voleva raccontare la sua storia e la sua situazione di donna, così le ho detto: «Allora cominciamo con te, prendiamo il tuo divorzio». Il divorzio era una pratica difficile allora e utilizzammo questo nel 1972 per Strohfeuer (Fuoco di paglia). È un film con un finale brechtiano: lei si rivolta contro il matrimonio però alla fine si sposa di nuovo. Dico finale brechtiano nel senso che Brecht, e all’epoca l’ho creduto, diceva che il personaggio deve fare il contrario di quello che noi ci aspettiamo in modo che il pubblico si rivolti contro il personaggio e capisca che non ci si deve proprio comportare in quel modo. In realtà non funziona così: il pubblico si identifica con la persona in scena e quindi tutto ciò che la persona in scena fa viene accolto, non criticato come voleva Brecht. Quindi sarebbe stato meglio se alla fine del film il personaggio di Margarethe se ne fosse andato per fare qualcosa di assolutamente diverso da sé stesso, però per arrivare a questa convinzione c’è voluto del tempo: le cose non sono mai così semplici.

Stavo pensando al fatto che lei ha girato Voyager (1991) tratto dal racconto Homo faber di Max Frisch e che quest’anno, qui, abbiamo visto il nuovo film di von Trotta su Ingeborg Bachmann.

Sì, da Homo faber, quel film per me è tra i miei più belli con Sam Shepard: per me è una grande tragedia greca, antica. È molto sull’individuo e quindi diverso dagli altri film: è sul destino di un uomo solo, è su una condizione in particolare. Il protagonista è un uomo che rifiuta l’idea del destino perché è ingegnere e crede di poter calcolare tutto. Margarethe è sempre stata molto convinta delle ragioni del femminismo e mi ha sensibilizzato alla situazione delle donne e a guardare il mondo con questi occhi nuovi: fin lì io non ci avevo fatto troppo caso nel quotidiano. Tornando a Strohfeuer anche questo, se vuoi, non è un film dichiaratamente politico, ma nel quotidiano c’è sempre questa situazione: la donna si trova in una situazione di inferiorità.

A proposito di donne, ieri era qui Fanny Ardant che lei scelse per Un amour de Swann (1983), la sceneggiatura è di Peter Brook.

Ah, sì, Peter l’aveva scritto per sé. Però non poté girare il film e per amicizia dissi che l’avrei fatto io. Sai, anche la produttrice è una cara amica e per una questione di diritti il film doveva essere girato in quei mesi: i diritti delle opere di Proust sarebbero diventati di dominio pubblico l’anno dopo, andavano protetti perché lei li aveva pagati per vent’anni, non si poteva più aspettare, bisognava fare subito il film. Mi sono messo a loro disposizione, mi è piaciuto molto farlo: Proust lo leggo ancora oggi volentieri. Sapevo che per i francesi sarebbe stato uno scandalo che un tedesco facesse Proust con attori non proustiani come Alain Delon, Ornella Muti, Jeremy Irons che è addirittura inglese [ride, n. d. r.]. Erano attori giusti per Proust, però… ma con i proustiani non si può discutere. È stato bello ritrovare Fanny Ardant qui a Bari ieri.

Dovremmo parlare anche di The Handmaid’s Tale (1990), un altro film importante che sa parlare delle donne.

Sì, la sceneggiatura di Harold Pinter ha lavorato “contro” il testo di Margaret Atwood perché il suo teatro è scheletrico e per questo meraviglioso, lei invece tende a essere espansiva, ma è stata d’accordo con questa riduzione di Pinter. Lui aveva scritto già la sceneggiatura prima di incontrarmi su richiesta del produttore che poi mi ha cercato. Parlai molto con Pinter, ma non ho toccato nulla della sceneggiatura, con lui non c’era da discutere [ride, n. d. r.]. Gli attori erano tutti adatti. Un film difficile, fu il mio terzo lavoro in America e all’epoca non credevo che tutta questa ipocrisia maschile e patriarcale avrebbe mai potuto dominare gli Stati Uniti; invece, Atwood ha avuto questa intuizione da sorcier. Ha presentito tutto, specie nelle Università…

Strajk – Die Heldin von Danzig (2006)

Un altro film che ha girato da uomo sensibile alla lotta delle donne è Strajk – Die Heldin von Danzig (2006) su Anna Walentynowicz.

Come fai a conoscerlo? Oggi è introvabile.

Spero di poterlo vedere sullo schermo di un cinema, presto, magari qui al Bif&st, è un film importante.

Fu un film difficile quello: mancavano mezzi e in quel momento in Polonia nessuno voleva sentire parlare di Solidarność perché il movimento era arrivato al governo, ma aveva fallito. Fu Andrzej Wajda a incoraggiarmi, con lui collaboro alla sua scuola di cinema in Polonia. Il film fu girato in una lingua che non parlo, il polacco. Ho provato a impararlo, ma non riuscivo a parlarlo anche se conoscevo bene i dialoghi del film. Sai una cosa? Il lavoro nel cantiere navale era molto interessante per me: mi è piaciuto sapere come si costruisce una nave. Forse questa non è una ragione per fare un film. [ridiamo, n. d. r.]

Perché no?

Ho capito una cosa attraverso questo film, e ho visto che tu cerchi i temi nei film. Ecco un tema: quando ho studiato, la questione è sempre stata chiedermi: «Ma il progresso storico, la Storia è fatta dagli uomini (Cesare, Napoleone, Hitler, quelli di oggi…) oppure è fatta dalla lotta di classe che va sempre avanti verso la liberazione dell’umanità?». Però purtroppo vedo sempre che un solo uomo può avere una influenza terribile sulla Storia e certamente tutto questo non è il risultato di una lotta di classe, ma di una volontà individuale. Allora ci si deve fare un’altra domanda: ma come è possibile che una società possa accettare di seguire la volontà di un singolo individuo? Nel film ho capito che una operaia da sola può far cambiare le cose, può fare la lotta di classe come un granello di sabbia… forse la marcia della Storia è fatta dai granelli di sabbia che si mettono negli ingranaggi.

Un altro granello di sabbia è Tony Rinaudo, l’agronomo australiano con cui ha girato The Forest Maker (2021).

Sì, sarebbe bello che Tony avesse una grande influenza. Due anni dopo quel film vedo che il suo metodo per salvare gli alberi non viene applicato, sono un po’ disperato all’idea che il suo lavoro rimanga confinato in una singola provincia, sarebbe utile anche ad altri Paesi…

Devo chiederle di Leoš Janáček e della musica.

Non avevo voglia di fare l’Opera perché avevo già lavorato a Spoleto come assistente alla regia di Loius Malle per Der Rosenkavalier di Richard Strauss, era divertente ma non mi aveva affascinato. Invece per il mio primo film, Der junge Törless (1964), chiesi a un vero compositore Hans Werner Henze di scrivere una musica e lui mi rispose: «Giovane signore farò la musica sulle tue immagini a condizione che la prossima volta farai le immagini sulla mia musica» non capii subito, ma questo significa fare la regia d’Opera: dare alla musica una immagine. E finalmente nel 1974 Káťa Kabanová di Leoš Janáček fu l’inizio di questo lavoro con la musica, negli anni sono stato a Francoforte, a Berlino e a Parigi per il piacere di essere con musicisti e cantanti e di imparare da loro. Ho imparato molto dalla composizione di un’opera riguardo le emozioni.

Riguardo le emozioni?

Sì, le emozioni si possono mettere in un certo ritmo: c’è la misura. Gli attori sono lenti di solito quando si gira e non basta dire loro faster and funnier, forse bisognerebbe lavorare proprio con un metronomo. Ogni scena ha il suo ritmo e quindi nella scena successiva si può cambiare. E un attore deve avere quindi il senso del ritmo e allo stesso tempo l’emozione. Sai, l’attore normalmente cerca prima le emozioni e poi l’espressione e il tempo giusto… Per i cantanti il processo è inverso: solo quando hanno trovato il ritmo l’emozione viene di più, senza fatica. In questo l’Opera può insegnare molto al cinema. E, del resto, la musica in un film è fondamentale, tiene tutto insieme.

Lei ha un rapporto intenso con i musicisti, mi diceva, e ha anche diretto il documentario Michael Nyman in Progress (2010) sul compositore che firmò le musiche per il suo Der Unhold (1996).

Ah, sì, per The Oger, L’orco. È appena un film politico anche questo, parla del nazismo, ma è più una favola. Sono affezionato anche al lavoro che abbiamo fatto insieme a Ute Lemper, il Michael Nyman Songbook nel 1992.

Avrei ancora tante domande da farle, ma prima mi ha detto che oggi ha rivisto Roma città aperta

Sì, l’avevo visto cinquant’anni fa. In questa settimana ho visto le due Roma: quella di Fellini (1972) e quella di Rossellini (1945). Che modernità, tutti e due: esteticamente, certo… soprattutto in Rossellini mi hanno colpito le scene di azione. Sono semplici, rapide. La morte di Anna Magnani è un pezzo di antologia: come in venti secondi si può raccontare questo, la verità. Quando la morte arriva, arriva senza preparazione. Un fatto definito, finito. Lui va avanti nel film, non si ferma, non fa una scena patetica… e questo, devo dire, ogni volta mi piace moltissimo e anche il suo modo di filmare i ragazzi, potrebbe essere quello di Pasolini, qualcosa di crudo, di vero. Pasolini è stato un uomo molto raffinato, molto colto, ma sapeva fare un cinema crudo, onesto e fortissimo, come l’arte povera e oggi che siamo bagnati nel patetico…

E Volker Schlöndorff si congeda con un lieve colpo delle nocche sul tavolo come se sotto la tovaglia blu di stoffa pesante se ne stesse nascosto e seppellito, in realtà, proprio Il tamburo di latta (1979).

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI FOTO DI NICOLE SERINO; IN COPERTINA FOTO DI IRENE GIANESELLI

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.