Una festa tra noi e i morti: Eschilo secondo Anagoor

Traduzione o tradimento?

È un problema eterno e insoluto, fa tremare i polsi a qualsiasi traduttore: e questo, questo pensiero che sta magari tutto in una parola o in un modo di dire che ha senso solo nella lingua originale, questa struttura che canta e risuona sola nella sintassi originale, come posso farla vivere e germinare nella lingua di arrivo?

Simone Derai quando affronta Eschilo con Patrizia Vercesi lo deve tradire nella forma tanto quanto nella lingua, ma non potrebbe essere che così. Che senso avrebbe, infatti, fingere di tradurlo quando l’intento della Compagnia Anagoor è quello di costruire una performance, una istallazione filosofico-letteraria transmediale? E infatti è Simone Derai a fugare ogni dubbio: “Orestea di Anagoor è più un lavoro su Eschilo che una riproposizione e rielaborazione, recasting o recalling, del testo eschileo”.

Orestea / Agamennone Schiavi Conversio, apertura della 46ª Biennale di Venezia si ricompone dunque in una forma ulteriore di 261 pagine e copertina rossa e prosegue il suo percorso condensandosi in Una festa tra noi e i morti. Sull’Orestea di Eschilo (Cronopio, 2020) un volume agile e denso che testimonia il progetto di ricerca su cui si fonda l’atto teatrale.

L’opera metamorfosata che è andata in scena, di fatto, prende Eschilo a pre-testo è proprio il caso di dirlo, è un modo per avvicinarsi alla bocca del vortice e di errare per il suo perimetro. Se Pasolini, uno dei grandi traduttori dell’opera eschilea ad oggi, affrontava il testo originale in modo diretto e con tutta la sua brutale grazia, Anagoor tradisce il testo cominciando lo spettacolo con le parole che introducono Cristianesimo dell’inizio e della fine di Sergio Quinzio. Eschilo viene quindi abbordato, come in una lotta navale, da Occidente. Ma da Occidente spira vento di negazione: non conosciamo il sacro, non ne abbiamo nemmeno più il sentimento. Così fare una festa con i morti significa chiederci prima di tutto se siamo vivi noi.

“I morti uccidono i vivi” in Coefore diventa il monito che accompagna tremante la disfatta dell’uomo se questi si proietta nei media fino a identificarcisi: la riflessione che pulsa nelle pagine del libro, e che ricostruisce atto di traduzione e atto in scena integrando e amplificando scelte e pratiche, porta ad una ricostruzione tutta post-moderna della nostra dissoluzione coscienziale, metafisica e figlia ingenua, tenera e terribile della cultura greca.

“Come le foglie, così sono le generazioni degli uomini. / Alcune le fa cadere a terra il vento, altre il bosco / le rigenera rifiorendo, quando arriva la bella stagione. / Così la stirpe degli uomini nasce e poi scompare”

Iliade, VI, vv. 146-148.

Una ricostruzione post-moderna ma preziosa anche se velata da una malinconia vagamente nichilista (eppure il nichilismo, bisogna ammetterlo, è una forma di piacere): se davvero le immagini scompariranno e noi saremo solo un nome pronunciato contro la nostra volontà ad una tavolata in festa, viene da chiedersi cosa rimarrà di questa tavolata. Delle sedie, dei commensali, che pure sono corpo, materia.

E così, il cerchio si chiude: la traduzione, o meglio, la nuova drammaturgia di Derai compiuta con Patrizia Vercesi e qui commentata da Susanna Pietrosanti con puntualità deve per forza portare ad affrontare anche la dicotomia tra verbo e carne, dicotomia parallela e complementare a quella tra giustizia e essere.

Dicotomia che si realizza, proprio sotto i nostri occhi, nelle pagine di questo libro: la parola racconta e rievoca lo sforzo dello stare in scena, ma niente può oltre questo.

Solo in scena, sulle tavole del palcoscenico o di qualsiasi spazio venga adattato ad altare per il rito, può davvero costruirsi la tavolata tra i vivi e i morti. E beati quelli che videro, e beati quelli che vollero vedere. O meglio: beati quelli che sono, perché non mai furono e per questo, torneranno ad essere.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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