
La forma è il contenuto e viceversa. Lo scrivo in premessa perché per dire del saggio di Enrico Terrinoni “Chi ha paura dei classici?” è necessario farlo: questo libricino blu edito da Cronopio nel 2020 è uno stream of consciousness di tipo saggistico (niente capitoli e nessun paragrafo, solo pagine che fluttuano rapide e precise) che affronta la narrativa, la letteratura, la poesia inglese, irlandese e angloamericana dal modernismo al postmoderno. Come tutti i flussi è ragionato e ragionevole anche quando sembra deviare irrimediabilmente per la tangente: l’abilità dell’autore è proprio quella di passare da Yeats a Joyce, ad Hawthorne a Wilde tenendo come riferimento intellettuale Giordano Bruno e citando Virginia Woolf, Flann O’Brien, Bennett, facendo cioè affiorare lo spirito, anzi, gli spettri che oggi sembriamo incapaci di ascoltare quando ci specchiamo affranti nel marasma editoriale contemporaneo fatto di carta stampata e reels improbabili per la promozione dei prodotti cartacei (anche se oggi la moda impone di vivere tutto online, anche la lettura, ma questo è un altro problema).
Perché il problema, o il dilemma, o il quesito (come più vi piace), è questo: oggi chi ha paura della letteratura?
Il 2000 è un millennio, fino ad oggi, di meteore nemmeno troppo luminose: manca una voce intellettuale forte e coerente, mancano le voci intellettuali forti e coerenti, mancano (non i salotti, quelli ci sono sempre e sempre più degradanti e degradati) ma i luoghi di dibattito “aperto” tra scrittori e lettori (e, per dirne una, se Woolf si poneva problematicamente rispetto alla fruizione dell’opera con saggi quali The Common Rider, How It Strikes a Contemporary, oggi nella maggior parte dei casi si preferisce dare per scontato che il lettore sia un individuo mediamente intelligente che ha necessità di leggere solo trame preconfezionate e prodotte in serie, offerte e confezionate in una lingua per lo più piatta e assolutamente irreale di tipo pseudo-giornalistico povera di aggettivi e dalla sintassi pre-infantile). Così, mentre Terrinoni scrive di Shakespeare e di Wilde, mentre il suo discorso tocca e rende materica la tensione che ci assorbe nell’affacciarci all’abisso proposto da Hamlet o da Finnegans Wake, ci accorgiamo di essere davvero qui a vedere i morti.
Vediamo i morti perché negli ultimi vent’anni di classici non se ne sono letti, vediamo i morti, sempre citando Yeats, perché se vogliamo farci folgorare o semplicemente appassionarci alla lettura, dobbiamo cercare nella nostra biblioteca o in libreria voci di corpi estinti che resistono al tempo.

Quante volte ci capita di commuoverci per la bellezza di un verso di Eliot e quante poche volte invece veniamo colpiti dalla vacuità di certi romanzi contemporanei.
Terrinoni con questo saggio ci costringe a guardare dove non penseremmo di guardare: come Joyce fa con il suo Ulysses usando questa persona per attraversare una giornata di molteplici incontri anche dell’io con se stesso, così Terrinoni fa con i classici; semplifica perché ci chiede la ragione dell’eternità di alcune opere, ma in realtà (torna sempre la realtà al potere, che lo si voglia o no) ci sta chiedendo perché adesso noi non possiamo trovare nelle librerie opere che si possano dire immortali, e questo significa che la domanda è più feroce di quel che possa sembrare e che questo libricino non è nato per essere divulgativo (si deve avere letto gli autori citati, il che non è un male: la conoscenza è conquista, fatica e piacere, ci siamo forse dimenticati anche questo?). “Chi ha paura dei classici?” sta per “Chi ha paura della letteratura” che, a sua volta, sta per “Chi ha paura della realtà?”.
Non a caso, il titolo del saggio gioca alludendo alla commedia di Edward Albee Who’s Afraid of Virginia Woolf?: chi ha (avuto) paura di Virginia Woolf e chi ha paura dei classici sono solo due modi diversi, due forme differenti, per esprimere lo stesso contenuto: chi ha paura di affrontare la realtà?
Già Elsa Morante denunciava l’incapacità della società di scegliere il realismo ben prima della disfatta culturale nella quale siamo immersi, sul finire del Novecento cominciava a percepire sempre più nettamente l’adesione, più o meno consapevole, del microcosmo editoriale alla logica e all’ideologia capitalista. La sua era una provocazione quando diceva che uno scrittore (o una scrittrice) ha a cuore “tutto quanto accade, fuorché la letteratura”. Non voleva certo suggerire ai futuri scrittori e alle future scrittrici di non leggere più, di non studiare, di non cercare altre voci al di fuori della propria, no di certo. Elsa Morante ci stava indicando quello che lo stesso Terrinoni indica in questo saggio: uscire da se stessi, acchiappare la realtà e accettare di essere trapassati e trasfigurati da essa è l’unico modo per poter(si) leggere e poter(si) scrivere.

Da quando la letteratura è diventata becero biografismo autocelebrativo, da quando è diventata pettegolezzo e affare, business, da quanto è diventata citazionismo idiota e ombelicale, ha smesso di essere letteratura. È diventata altro, ha smesso di fare paura, ma ha smesso di avere importanza nelle nostre vite (e questo, socialmente e civilmente è quello che accade sempre di più al Cinema, al Teatro, alle Arti).
Chi ha paura oggi della realtà? Tutti noi, e la temiamo proprio come quell’invitato inaspettato e sconosciuto che arriva al ricevimento esclusivo, quell’invitato che ci osserva piombando nella nostra classe (ora virtuale) di sedie vuote, quell’invitato che nessuno ha poi davvero invitato, ma che adesso è qui e sta, semplicemente esiste nonostante noi, che non sappiamo avvicinarci e toccarlo, parlargli, ascoltarlo e farci ascoltare. Perché la realtà è assetata e affamata e noi non abbiamo nulla di più da offrire se non le nostre lagne inconcludenti.
Ecco, “Chi ha paura della realtà?” costringe a chiedersi Terrinoni, e lo fa con una abilità affabulatoria che disegna una geografia specifica, l’orizzonte politico e territoriale, poetico dunque, al quale lui predilige guardare: per l’autore la letteratura somiglia all’isola verde dell’Irlanda, alla sua essenza femminile, alla sua indefinibile essenza che a sua volta disegna, delinea e fa scomparire arcipelaghi passati, presenti e futuri nella piega sensuale e misterica di una cultura ospitale e archetipica come quella celtica.
E noi non possiamo fare altro che seguire il flusso e accettare di porci la fatidica domanda: quanto stiamo ascoltando noi, oggi, la realtà? Chi sarà in grado di trovare la propria voce e di essere il classico in questo millennio di finti intellettuali, di congreghe autocelebrative e prose che rimbalzano addosso al lettore perché tronfie di nozionismo e opinionismo, in questa epoca di copiatori seriali che riducono tutto (o quasi, perché il quasi c’è, beninteso) a un prodotto ben confezionato ma di certo non indelebile e per lo più autoreferenziale quando non dichiaratamente pensato per fare marketing?
E, del resto, lo sappiamo: la realtà resta, il marketing passa.
Il modernismo, o meglio i modernismi forse stanno proprio tutti in quella affermazione che Virginia Woolf nel suo saggio Mr. Bennet and Mrs. Brown mette in bocca alla sua Mrs Brown tutta immaginata e immaginaria, ma assolutamente reale, seduta accanto a lei, sognata tutta ma materica: «Come and catch me if you can».
Ecco, vieni a prendermi se ci riesci, diceva circa un secolo fa la realtà allo scrittore. Oggi, però, la realtà ci guarda beffarda e la sua affermazione potrebbe benissimo suonare «Come and catch me if you dare».
Vieni qui a prendermi, se osi, se ne hai il coraggio.
Ce l’abbiamo questo coraggio?