Odissea di Nikos Kazantzakis: dal Novecento emerge il canto della dissoluzione

La più grande sconfitta del Novecento coincide con la più grande e liberatoria scoperta: la presa di coscienza della frantumazione dell’io. Una presa di coscienza dolorosa come testimonia il verso fulminante di Ungaretti o la prosa inafferrabile di Joyce, ma non priva di un desiderio potente di luce, non priva di una fame sana di vita. Il Novecento ci ha insegnato in modo esemplare e anche piuttosto definitivo che esiste il bene ed esiste il male, che si tratta di due abissi su cui si affaccia l’essere umano senza più avere i mezzi spirituali e materiali per affrontare la sua stessa violenza lacerante. L’uomo del Novecento s’è perduto. È un milite ignoto macellato ai confini della Storia e non conosce ritorno, non può conoscere il ritorno perché non può più recuperare l’innocenza e la grazia.

Il Novecento è stato il secolo del bene e del male, dell’individuo e della massa, del privato e del pubblico, delle dittature e delle rivoluzioni e, almeno da queste parti del globo, s’è schiantato nel primo ventennio del nuovo millennio con una fine ingloriosa, con l’alito marcio del consumismo e del falso ideologico. Ma questa è un’altra Storia, o storiella. È certo che il Novecento è stato il secolo della solitudine. Non la solitudine che conosciamo oggi noi nelle scatole degli schermi piene di tutto e vuote dell’essenziale, ma quella abbagliante e vorace del soldato Septimus in Mrs Dallowey (Virginia Woolf) o quella mutilante del Franz Biberkopf in Berlin Alexanderplatz (Alfred Döblin).

Non a caso, Nikos Kazantzakis comincia a scrivere Odissea ritirandosi solitario in una casetta in riva al mare presso l’antica Cnosso a Iraklio sull’isola di Creta. È il 1925 e il poeta comincia un viaggio tra le Cicladi alla ricerca di parole antiche – ne recupererà 7500 innestandole nel suo canto –. Un viaggio che durerà 13 anni e che si condensa nella versione definitiva del poema trovando una forma piena e concreta nei 33.333 versi suddivisi in 24 canti.

Ma Kazantzakis non riscrive la storia omerica, né davvero si limita a continuare il racconto. Il suo Ulisse è un uomo del Novecento, è quel taglio nella Storia: è tutto ciò che un Uomo è e tutto ciò che un uomo vorrebbe essere. È la frustrazione e l’ambizione, l’egoismo e la rassegnazione, ma è anche e soprattutto l’intelligenza (senza pessimismo) e la volontà (senza ottimismo). È la rivendicazione totale, senza compromessi, della fantasia al potere fino alle estreme conseguenze.

La vita mi pare un sogno, sembra una fiaba il mondo, / e come fumo inanellato l’anima sale in aria; / nascono in un lampo, risplendono nella mia testa / e subito svaniscono gli déi, ma altri spuntano / come nubi, e nella mia mente febbrile stillano. / Solo i miei sogni sembrano ancora vivi e strisciano / come serpenti multicolori leccandomi le ciglia – / mari dai riflessi di perla si aprono nel cervello, / pesci d’oro mi guardano tristi nelle acque dense, / voci dolcissime emergono dal fondale azzurro.

L’io centrifugo dell’Ulisse di Nikos Kazantzakis sembra essere la summa della modernità e delle sue contraddizioni. Nella sua mente che lievita e si gonfia come il pane c’è l’alimento dell’intellettuale, ma Kazantzakis supera anche in questo Omero: Ulisse non è soltanto un curioso che sfida la propria mortalità, Ulisse per lui diventa il punto di non ritorno sul quale si affaccia l’essere umano che desidera ardentemente diventare la materia oltre i limiti che supera.

“Quest’uomo viola i confini, confonde uomini e déi, / infrange l’ordine sacro che regge il mondo sull’abisso!”

Così inveisce il popolo di Itaca, un popolo che il re è pronto a smembrare pur di non perdere il dominio su se stesso perché “segue meglio gli antenati chi se li lascia indietro”. L’incontro tra padre e figlio è subito rapporto contrastivo: Telemaco non può amare un uomo che non sa invecchiare e in questo adolescente smanioso il padre si rivede. Ulisse si specchia nel peccato di gioventù che arde nelle membra di Telemaco.

“Ragazzo, ho pena per la tua pena, amo la tua smania; / ma non essere impaziente, tutto verrà a suo tempo. / Io ho fatto il mio dovere di figlio superando mio padre; / ora superami tu, se puoi, nelle armi e nella mente; sarà difficile, ma se non riesci perirà la stirpe, e toccherà anche a noi essere governati dalla massa!”

Ulisse è l’oltre-uomo di Nietzsche fatto poesia e sangue che riesce ad entrare in un rapporto totale con il tutto che lo circonda, senza più età e vincoli di sangue si accinge a rifondare l’umano avendo per patria l’esilio e per figlio il mare.

Giorgio de Chirico, Ettore ed Andromaca, 1963 

Per questa ragione Odissea non è soltanto un monumento all’umano che vacilla e si incaponisce per istinto animale (perché a spingerlo è l’inestinguibile élan vital) ma è un monumento ad una cultura che riluce nel fuoco agreste di un bivacco in riva al mare. È un monumento alla Grecia nel momento di un trapasso e infatti il primo atto di Ulisse a Sparta dopo avere detto per sempre addio ad Itaca è il rapimento di Elena non per possederla, ma perché metta al mondo Elleno, il bambino simbolo dell’incrocio tra due civiltà (nel poema sta agonizzando l’Età del Bronzo e giunge l’Età del Ferro con i biondi Dori). È un monumento perturbante e conturbante come Ettore ed Andromaca di de Chirico.

L’uomo-poeta scopre che in lui fermenta il vino e la carne si fa spirito e per questo si sdoppia proiettando il sé inconfessabile in Ulisse e la donna di Kazantzakis prende consapevolezza e forma nuove. L’assenza di Penelope denota la sua presenza: la regina ha compreso di non essere mai stata assieme ad Ulisse, la sua attesa è stata vana, quest’uomo non le è mai appartenuto fino in fondo, il matrimonio è l’espressione di un tradimento, la riconciliazione non esiste e lei non prova desiderio per questo guerriero che si bagna nel sangue dei Proci.

Il poeta corsaro (corsaro come il nostro Pasolini e come lui attratto dalla figura di Cristo nella sua inestimabile umanità) scolpisce scene di una bellezza sublime rendendo materiche apparizioni archetipiche e visioni oniriche al punto che ad ogni pagina sembra moltiplicarsi la spirale dei risvegli ma conserva anche gesti puramente tradizionali, plastici che fanno tornare la carne alla carne derubandola dell’illusione durante questa veglia tra le parole. Tra questi gesti c’è quello di cingere le ginocchia all’interlocutore quando si cerca benevolenza e protezione, ma sono cambiate le intenzioni, sono scoperte le doppie trame del pensiero, disvelate dallo stesso cantore con una nota di sagace ironia: Ulisse è padrone dei meccanismi psicologici di sodali e avversari, l’astuzia s’è tramutata in calcolo, finalmente sa cosa vuole ottenere e non si cura più del prezzo. Ulisse ha imparato a sedurre, ha adesso il talento della Calipso omerica, è diventato egli stesso il canto ammaliante delle sirene:

“Voi navigate il fiume, e non vi viene in mente / che il fiume è l’anima, ed è l’anima che navighiamo; / se anche oggi smonto dal corpo, prosegue la missione! […] Anima, sai quanto ti amo, ma mi divora un fuoco; / perdonami se ti perdi, se ti rimetto in pericolo – / ma anche volendo non posso tornare sui miei passi! […] Aspettatemi amici, tornerò, cercate di arrangiarvi, / e se non torno, cospargetevi di cenere i capelli, / tingetevi gli occhi di nero, prendete su i tamburi, / e come il Verme della canzone, levate il lamento: / ‘Hai fatto tutto bene sulla terra, pane, vino, donne; / ma i bambini, Assassino, perché uccidi i bambini?’. / Perché quando vivevo nel mondo ero un bambino!”

Nella parabola del Verme che si ribella a Dio e alla Morte c’è tutto il senso dello spirito d’anarchia di Kazantzakis. Il Tormentato, questo è uno degli epiteti tra i più ricorrenti, è trattato con compassione dal poeta, ma c’è anche un distacco necessario tra l’intellettuale che scrive e la sua creatura, perché Ulisse è creatura creante: attorniato da presenze e altre creature, personaggi che incarnano e rappresentano strati sociali, politici e culturali vari, di fatto si trova a plasmare i compagni di viaggio e il mondo tutto perché guardando, parlando, affabulando li evoca e li sospinge in una stazione dell’essere che diventa ambigua. Ulisse è in tutti quelli che vede e tradisce, ama e subisce. Persino costruire una nave per lui significa dare vita ad un corpo: è felice quando sceglie un cipresso e lo trasforma in albero maestro come se stesse traendo dalla materia viva la spina dorsale, le gambe e le braccia di un corpo distrutto dagli dèi. Tra l’Arciere e il Mondo c’è una alleanza, una corrispondenza che supera l’empatia e il panismo.

Volge la testa a destra, e tutta la selva si volge a destra; / la volge a sinistra, e tutta la selva si volge a sinistra; / “Io!” grida dentro di sé, e la foresta rabbrividisce; / per la prima volta si sente vivo, ha una sua anima. / Ora è inondato di alberi, acque, frutti, serpenti, fiere; / e alberi, acque, frutti, fiere si inondano di Ulisse.

Il poema ha di fatto una struttura circolare: il protagonista preconizza il proprio svanire, e Prologo ed Epilogo contengono l’invocazione al Sole. Proprio come accadrà all’Edipo sofocleo riletto da Elsa Morante (La serata a Colono) l’astro diventa il correlativo oggettivo di un Dio dai molti nomi al quale si può attribuire tutto il bene e tutto il male e, allo stesso tempo, il Sole-Dio diventa la proiezione superiore del sé e della città ideale: Ulisse tenterà anche di costruirne una dal niente dopo avere conosciuto Eliopoli, la Città del Sole e della rivoluzione religiosa fallita del faraone Amenofi IV. E anche Ulisse, con la sua ideologia e religione nuova, fallisce: non può costruire la beatitudine di una terra promessa. Le promesse sono fatte per non essere mantenute su questa Terra. Il rapporto con Dio è un rapporto con l’Io: il multiforme ingegno si trascende.

Una mattina che da solo raccoglievo i miei pensieri, / sentii mare, terra, cuore che invocavano aiuto; / Dio è in pericolo, mi chiama, io mi levo in fretta / per costruirgli una testa, una città come rifugio. / Perdona, Vita, se ho inseguito ali multicolori / come uno stolto – da dove veniamo e dove andiamo; / ho sprecato anni a cacciare, come fossero carne, / le tre grandi ombre, verità, pura virtù, bellezza; / ma benedetti anche gli errori che mi hanno accompagnato / al tuo corpo nudo, fresco come acqua di sorgente!

L’erranza e l’errore portano il Tormentato a evocare vari personaggi che si susseguono nel Canto XVII, qui la struttura è quella di un contrasto, di un dialogo allegorico. Da questo momento in poi, il Setteanime incontrerà ipostasi di pensatori e di rivoluzionari esistiti su carta o in carne ed ossa: il Principe della Terra (Buddha), Capitan Uno (Don Chisciotte), il Signore della Torre (l’edonismo decadente), il Giovane Pescatore (Cristo). Il Poeta pensa Ulisse, si avverte nel poema la sua presenza anche quando il re di Itaca è in culla e viene baciato da Tantalo, Eracle e Prometeo, ma egli è l’amato del Sole e il Sole stesso che, in lutto, si vota al digiuno e al silenzio quando si riunisce alla Madre per la notte. Il piano è triadico: Poeta-Ulisse-Sole sono i pianeti dell’essenza che si allineano e cercano di fare ordine tra religione-ideologia-manifestazione dello Spirito.

“Madre, mangiala tu la cena, bevilo tu il vino, / madre, sul letto di rose riposa le ossa stanche; / madre, non voglio bere il vino né toccare il pane; // oggi ho visto svanire come un pensiero il mio amato.”

Yves Klein, IKB 191, 1962

Ulisse si dissolve. Kazantzakis anticipa Yves Klein e il suo International Klein Blu (IKB 191), il colore ideale del tutto: lunga vita all’immateriale, sembra sussurrarci in segno di saluto dopo aver fatto consumare il suo protagonista tra sussulti e urla. Il Setteanime, il Tormentato, il Solitario, il Rapitore di Anime si è affacciato sull’orlo di un inferno, l’individualismo, e solo si congeda dalla vita dopo averne assaggiato la vertigine autodistruttiva.

Il grande corpo del Giramondo svapora, si dissolve, / e lentamente nave di ghiaccio, amici, memoria, frutti / svaniscono come nebbia, gocce di guazza in mare. / La carne dissolta, lo sguardo fosco, il cuore fermo. / La grande mente balza sulla vetta del suo riscatto; / un ultimo frullo di ali vuote, poi, ritta nel vento, / si alza in volo, esce dall’ultima gabbia, la libertà. / Tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta / sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne: / “Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!”.

Ulisse si dissolve, ascende in soffio – la materia non gli pesa più – pronto forse a cambiare forma nel tratto a noi inaccessibile e non conoscibile, pronto forse a tornare in forma di fumo come il protagonista de Il Codice di Perelà di Aldo Palazzeschi che discende alla vita nella cappa di un camino.

La versione isometra di Nicola Crocetti, primo in Italia a tradurre e pubblicare il poema nel 2020, restituisce lo sforzo di Kazantzakis di offrire un canto vivo al e del popolo greco. Certo deve essere Poeta anche il traduttore, certo anche Crocetti costruisce con il proprio sforzo fedele e colto un monumento amplificando così l’opera del Poeta di Iraklio. Se O∆ΥΣEIA di Kazantzakis è monumento all’umano e alla Grecia anarchica e ancestrale, è monumento al Poeta e alla Poesia in sé Odissea per la traduzione di Crocetti che filtra nella nostra lingua la bellezza e l’abisso restituendo a noi l’opera, affidandola a noi come un tempio prezioso, come una statua tratta dalla nave sommersa della Storia, come una lezione morale e poetico-politica per affrontare il presente con la grazia dei greci. Perché i greci, per dirla con Simone Weil, conoscono, hanno la grazia.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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