«Nel 1974, con mia moglie Clare, a Los Angeles, abbiamo incontrato Jean Renoir, che tutti e due amavamo più di qualsiasi altro regista al mondo. Ottantenne, seduto su una sedia a rotelle con un plaid sulle ginocchia, Renoir salutando ci disse: “Rappelle-toi, il faut toujours laisser une porte ouverte sur le plateau. On sait jamais : quelqu’un pourrait entrer, inattendu, c’est la réalité qui vous fait un cadeau!” (“Ricordati, bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set. Non si sa mai: qualcuno potrebbe entrare, inatteso, è la realtà che ti sta facendo un regalo!”). Quando ci siamo salutati, ricordo che Renoir ci disse: “Est-ce que je peux vous embrasser?”»
Bernardo Bertolucci, Il mistero del cinema, Milano, La nave di Teseo, 2021

È arrivato nelle librerie un libro piccolo ma potente edito da La Nave di Teseo: è la lectio doctoralis pronunciata al Teatro Regio di Parma in occasione della laurea honoris causa in Storia e critica delle Arti e dello Spettacolo, conferita a Bernardo Bertolucci dall’Università di Parma il 16 dicembre 2014. Ha per nome, titolo, come si vuole, Il mistero del cinema.
In poco più di novanta pagine, Bertolucci tratteggia la geografia del suo Cinema, ricorda ed evoca Piero Spila, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard e Jean Renoir, il padre Attilio – straordinario poeta italiano – e il fratello Giuseppe (che è sempre stato bellissimo) e poi Zavattini, Malerba, Fornari, i suoi produttori. L’unica donna è sua moglie Clare, delle attrici non racconta. Poi ci sono Casarola e Parma, le due grandi madri che colorano anche la sua Cina (il giallo Parma de L’ultimo imperatore) e lo lasciano andare verso Roma e Parigi.
Il Cinema per Bernardo Bertolucci è la vita, sin dal principio, e questo non deve stupire: siamo ancora in pochi a credere che il pubblico sia privato e che la costruzione dell’essere umano in certi luoghi si fonda sull’incanto, in una dimensione mitica che poi viene trasfigurata nella mitopoiesi della propria opera, ma per Bertolucci è così e non tenerne conto sarebbe solo un errore.
Da un lato c’è Olmo (Gerard Depardieu), il protagonista biondo di Novecento che parla di un passato aurale e viscerale tutto italiano, dall’altro c’è la tomba di Ozu, il grande maestro del cinema giapponese, su cui c’è inciso l’ideogramma del nulla, del niente: l’attrazione impossibile verso un abisso universale, ucronico, oltre il politico.
Da un lato c’è quella bandiera rossa, il cinema di Pasolini (e Pasolini stesso) mai davvero superato e dall’altra c’è la libertà di un sogno americano che però è pur sempre un altro tradimento.

Bertolucci sta tutto in questo profondo contrasto ideologico, intimo e pubblico ancora, un contrasto mai davvero elaborato fino alle sue estreme conseguenze, ma per questo il suo cinema è prezioso, perché il suo ultimo film, Io e te, è un film che non risolve, anzi, è un film che racconta proprio questa disperazione intellettuale, politica. La stessa disperazione con cui Matthew (Michael Pitt) volta le spalle a Isabelle (Eva Green) e Théo (Louis Garrel) e alla violenza di un ’68 che somiglia troppo ad un fascismo intransigente e allo stesso tempo frustrato. Forse un giorno, mi trovo a pensare leggendo questo piccolo libro, troverò il coraggio di affrontare questo contrasto ideologico, di mettere in ordine i miei appunti di libera ricercatrice e di accettare l’idea che tutte le risposte di Bertolucci (più una, magari non richiesta) sono nei suoi film e tornerò a guardarli, sempre inseguendo il mistero.
Quando ho incontrato per la prima volta, e purtroppo è stata anche l’unica, Bernardo Bertolucci avevo ventuno anni, l’età della sua prima regia (La comare secca) e rimasi affascinata dal suo mistero quando arrivo al Bari International Film Festival nel 2018 illuminando la città per alcune ore. Era lui, è sempre stato lui il mistero. Eravamo in una sala blu, pochi giornalisti riuniti per la proiezione dedicata alla stampa di Ultimo tango a Parigi in lingua originale e in versione restaurata dalla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia con la supervisione di Vittorio Storaro per l’immagine e di Federico Savina per il suono. Decisi di non fare domande, non osai fiatare, quasi non respiravo. Lo guardai rispondere con gentilezza e pazienza alle domande più banali e invadenti sul lavoro di Brando (il solito gossip, la solita curiosità sul metodo oramai noto di Marlon Brando). Poi per qualche istante accadde che i nostri sguardi sconosciuti si incontrassero, ci sorridemmo. Fu il mio modo di fargli domande, fu il suo modo di rispondermi, senza davvero stringerci la mano o parlarci, eravamo solo due paia di occhi luminosi e lo racconto perché anche questo è un mistero, privato ma pubblico, politico.

Credo che in quel momento si incontrarono senza avvicinarsi due ragazzi, due giovani magnificamente ossessionati dal Cinema che si stavano riconoscendo in un sorriso, in uno sguardo misterioso (davvero mi chiedevo e mi chiedo ci siamo guardati, davvero ci siamo scambiati quel sorriso almeno un paio di volte mentre lui ci osservava tutti in quella sala blu? Sì, è successo, sono stata parte di un mistero per qualche battito di ciglia e il mistero mi è appartenuto in quegli istanti). Bertolucci sarà per sempre il ragazzo di ventitré anni senza età che ha diretto Prima della Rivoluzione e noi saremo sempre i ragazzi, i sognatori senza età che lo cercano oltre quella porta aperta per preparare la prossima rivoluzione.
In questo discorso che racconta anche la forza carnale della scrittura e della macchina da presa, Bertolucci dice che il cinema è stata la sua passione accecante e che il cinema acceca.
Tu hai accecato noi, Monsieur Bertolucci, tu sei il cinema.
Il tuo amore per I grandi registi del cinema italiano è così potente da far innamorare anche chi legge i tuoi splendidi articoli.
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