Valerio Mastandrea, dopo la proiezione di Non pensarci (Gianni Zanasi), è stato il protagonista dell’ultima masterclass del Bif&st 2019 dove nella serata ha ricevuto il Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence. Il suo esordio alla regia, Ride, era in concorso al Festival e ve lo presentiamo.

Ne L’elogio funebre di Ettore Scola, c’è un Alberto Sordi che, da umile spalla, ripercorre il repertorio del suo capocomico. Lo fa in un cimitero, circondato dagli attori della compagnia che, insieme ad alcune donne venute a piangere altri morti, finisce per coinvolgere nel gioco. Lo fa sul ciglio della fossa, la bara del capocomico è già stata sistemata, pronta per essere coperta di terra. L’elogio funebre fa parte de I nuovi mostri, uno dei film ad episodi tra i più sagaci del nostro Cinema: quanto è mostruoso questo proseguire con lo spettacolo, quanto può essere inquietante il gioco che fa ridere nel mezzo del pianto e ci mostra tutta la miseria e tutta la fragilità umana. La risata è da un lato la vendetta del Sordi – spalla che prende l’eredità del primo attore uscendo dall’ombra, dall’altro è un rifiuto al limite del patologico della morte, una stretta di mano a chi resta in un Paese che è tutto un patetico teatrino da ficcarsi in tasca, un souvenir.
Al funerale del Perozzi, che in un primo momento la moglie non crede morto per davvero, gli altri compagni in Amici miei di Mario Monicelli finiscono per ridere mentre seguono la bara, continuando una delle loro zingarate.

Conviene guardare a questi due film, forse, per capire fino in fondo quanto Ride appartenga a quella maniera intellettuale, attiva e mobile, di guardare gli italiani e i loro difetti, le loro fragilità e la loro capacità di elaborare il lutto in un modo imprevedibile. Una maniera feroce nella disillusione e allo stesso tempo malinconica che in molti temevano dimenticata dai “nuovi” registi, ma che evidentemente si agita sottopelle.
Carolina, la protagonista, è la vedova di Mauro, operaio trentenne morto in fabbrica di notte. Non riesce a piangere il marito. Si sforza, cerca di recitare il dolore, di imitare gli amici conosciuti e sconosciuti che invadono la sua casa per disperarsi, spesso con la presunzione di poterle insegnare come comportarsi durante le esequie, ma fallisce. Il figlio la rimprovera severamente: “Mi chiedono come stai tu, come sta mamma. Dovrei rispondere: ride”, le dice. Si vergogna di quella risata, non la capisce.
Questo pianto rimandato – che poi assume la forma di una poeticissima bomba d’acqua che si infrange sui mobili nella protezione delle quattro mura domestiche – e questa risata che viene moralizzata dal bambino sono due elementi da cui Mastandrea elabora un piano privato della vicenda parallelo a quello collettivo vissuto dal piccolo Bruno con l’amichetto, da Cesare (il padre di Mauro) con i vecchi sindacalisti e da Nicola, fratello di Mauro.

Nessuno attore è fuori ruolo. Chiara Martegiani (Carolina) è intensa, non c’è caduta retorica nella sua interpretazione, finalmente un ruolo femminile definito, che diverge dal cliché di genere. Renato Carpentieri (Cesare) e uno Stefano Dionisi (Nicola) davvero in stato di grazia che offre al suo personaggio, nello sguardo liquido, una inquietudine viscerale, duettano con eleganza. Sono toccanti perché sinceri, i loro volti diversamente segnati dal dolore sono reali. Arturo Marchetti (Bruno) e Mattia Stramacci (Ciccio) si impongono con una maturità sorprendente. Milena Vukotic è rigorosamente essenziale, ottimi anche Giancarlo Porcacchia (Morbido) e Walter Toschi (Ictus) che si inseriscono nel quadro perfettamente equilibrato.
In questa Nettuno che sta tutta nel mare e nel vento e nel buio delle strade di notte, Mastandrea riesce a cogliere senza censure e con una ironia piena di amarezza tutte le contraddizioni del nostro tempo. A partire dal rapporto che i giovani hanno con la televisione e con i nuovi mezzi di comunicazione (la scena in cui Bruno prova e riprova l’ipotetica intervista con un giornalista del telegiornale strappava risate ingenue al pubblico in sala), fino al fallimento del movimento operaio: chi per una vita è restato sveglio di notte per lavorare, nel momento in cui i nuovi operai muoiono, rimane a letto, a dormire. È il dramma di Cesare e dei suo compagni. “Non siamo serviti davvero a nulla?” si chiedono.

La macchina si muove spesso dagli oggetti verso i personaggi. Gli oggetti hanno valenza metaforica di filtri, di trasparenze e sovrapposizioni, come nell’inquadratura in cui Carolina sta alla finestra e pare avere addosso la città. C’è disperazione in questo film, una disperazione che porta Carolina a fuggire nel ricordo della felicità. La sua risata è un atto d’amore ma è una risata consapevole di quanta gioia è vivere: non è vigliacca, semplicemente ha bisogno di tempo per trasformare la perdita in elaborazione, ha bisogno del suo tempo per affrontare e vivere anche la sofferenza.

Del resto, se non fosse per una bara vuota davanti ai cancelli della fabbrica, se non fosse per quella elaborazione che in Cesare trova spazio dopo la rabbia e il confronto con Nicola, gli operai non comincerebbero a scioperare. Mauro (un Lino Musella che procede in levare, con una recitazione asciutta e limpida) è un Lazzaro moderno, il simbolo di una morte solo apparente. Perché chi lo ama, come chi condivide con lui il lavoro, chi si riconosce nella sua morte di uomo, re-agisce. Ecco perché, nel finale, madre e figlio guardano dritto in macchina, rompendo l’illusione e affermandone nello stesso istante la potenzialità.

Ride non è un film necessario soltanto perché racconta di una morte sul lavoro. È un film necessario perché prende una posizione, riallaccia il legame tra pubblico e privato in senso politico e ci costringe a pensare che è necessario il superamento, ci costringe a pensare che è necessaria l’elaborazione intellettuale della morte sul lavoro, è necessaria l’elaborazione intellettuale per qualsiasi morte che è un lutto di civiltà. Non basta più essere indignati. Non è più il tempo delle menzogne.
Mastandrea gioca con il simbolo, tiene a mente la lezione di Caligari e ribadisce il comandamento “Non essere cattivo” con un’altra formula. Non dimenticare e metti più sale nel tuo piatto: chi viene dalla campagna può accettare un piatto insipido, chi lavora in fabbrica vuole più sapore. Ma è il più giovane, il ragazzino che si fa uomo, che aggiunge ancora altro sale prima di mangiare.
A proposito di film italiani, l’hai visto Non ci resta che ridere?
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