In principio era il volto ed era la maschera dell’attore. Poi venne l’individuo scalciante nella rete a maglia invisibile, sempre troppo stretta o troppo lacerata, che è il destino. Persona. Non esisteva il personaggio, esisteva solo la persona.
Il personaggio è arrivato dopo, ad usurpare il senso più intimo e profondo della parola originariamente greca, perché, si sa, i greci avevano la grazia e noi no, c’è poco da raccontarsela. La (post)modernità è imposizione di impostura.
Enrico Ianniello comincia il suo nuovo romanzo con una indicazione nella pagina bianca dove di solito hanno spazio le citazioni, dopo la dedica.
«Il paese sta al paesaggio come la persona sta al personaggio. In un paese vivono le persone, in un paesaggio i personaggi».
Questa indicazione, però, somiglia più ad un dubbio, di quelli amletici corrosivi e anche un po’ petulanti, ma per questo affascinanti. Sarà vero che il paese e il paesaggio, il personaggio e la persona sono cose completamente diverse?
E chi venne per primo? Il paese o il personaggio? Il paesaggio o la persona?

Ne La Compagnia delle Illusioni (Feltrinelli, 2019) l’autore cerca in Napoli, la città-dedalo di meraviglie e perdizioni, di postulati sublimanti e corollari della remissione umana, la geografia della dissoluzione dell’incostanza. Cerca in Napoli la geografia per la sintesi della corruzione delle parole e il suo risvolto più materico.
Il protagonista, il proteiforme Antonio Morra è un attore. Non è un caso che si citi in maniera indiretta (ma non troppo) il mitico Proteo, la divinità greca che esce dal mare per giacere sugli scogli e che, se colto nel sonno e tenuto al laccio con brutalità, può predire riluttante il futuro ai naviganti. Non è un caso perché tutto in Antonio Morra racconta e tradisce lo stato di veglia della nostra società di attori in perenne ricerca della ribalta, per il puro piacere dell’acclamazione, piacere ampiamente sfruttato da chi sa osservare per impostare una politica di marketing capillare e vincente. Perché questo Antonio Morra, un cinquantenne che nel teatro ha fallito e nella televisione ha ricoperto un ruolo marginale di impiccione osservatore di tresche condominiali, è – al di là della professione parlante – l’uomo medio di questo tempo. Sì, certo, ha fatto l’Accademia per recitare, non è un dilettante, ha studiato per stare in scena, ma il gioco in cui viene coinvolto, proprio per la sua poliedrica fragilità e inconsistenza è un gioco al massacro, condotto dalla borghese annoiata di turno, Zia Maggie che fa del fallimento la bandiera per un falso riscatto globale.
La Compagnia delle Illusioni è quindi un romanzo tratto fuori dal magma della contemporaneità, dove “social è bello” perché produce e vende qualunque cosa per qualunque target, per qualunque richiesta, anche la più perversa.
Più che scritto per parlare della contemporaneità, però, il romanzo sembra scritto dalla contemporaneità che detta allo scrittore un ritmo carnevalesco, appesantito dalla volgarità del presente che sgomita per prendersi l’anima dei personaggi, come petrolio sulle ali di un gabbiano.

Ianniello disegna in poche mosse l’uomo qualunque risputato dalla Storia: è tornato proprio il Fronte dell’Uomo Qualunque, è tornato direttamente dal 1944 nel 2017 ed è la Compagnia di Zia Maggie che fa proseliti incrociando le dita e creando liste farlocche in corsa alle elezioni comunali non per vincere, ma per farsi sentire, per soffiare il vento gelato dell’inverno dello scontento affidando ai personaggi più amati del teatro e della televisione, della musica e dello spettacolo tutti rigorosamente morti (perché i morti non parlano, si sa) ora il ruolo di sindaco, ora quello di assessore in un nuovo manifesto dell’antipolitica per la dittatura dell’intolleranza, del fancazzismo e della sopraffazione.
Antonio Morra si presta a fare il giocoliere torbido, il pagliaccio che nasconde nel cilindro la lama mortifera dell’inconsistenza etica ed ideologica. Antonio Morra si presta, convinto, quasi ingenuamente, che il lavoro della Compagnia (che somiglia ad una setta tutta mantra ed esercizi spirituali di annullamento), quello di penetrare nelle vite dei committenti per fare in modo che “il fiore dell’illusione produca il frutto della realtà”, sia un lavoro pulito, che non può fare male a nessuno. Quasi una missione che può dare senso alla vocazione.
Non c’è tenerezza, non c’è amabile goffaggine: in Morra c’è un tradimento. Il tradimento del teatro, della sua essenza più vitale: se l’andare in scena coincide con il partorirsi, se il teatro è eros limpido, apollineo e dionisiaco perché concede lo spazio di una fisicità intellettuale, se la carne che muore e si congeda lo fa per tornare e continuare a dare senso, come può essere l’illusione l’ultima istanza di tutta questa fatica? Non è idiota e vaga l’illusione, ma la sua trascolorata interpretazione nelle mani degli infelici che ne fanno domanda, come se si trattasse di una droga sintetica, agli angoli delle strade virtuali che sono i profili Twitter e Facebook. E Ianniello rende evidente – e perciò doloroso – questo colpo al cuore che il suo attore si inferisce con la stessa delicatezza con cui Asghar Farhadi nel film “Il cliente” ci mostra l’attrice nell’atto di rivolgersi verso la scena per dire la battuta, seguendone l’intenzione, per poi voltarsi immediatamente verso le quinte per sussurrare al proprio figlioletto quello che faranno insieme nella serata.

Ma Antonio Morra si dovrà ricredere, perché recitare, giocare non ha nulla a che fare con l’imbroglio, con l’illusione e il Teatro non ha davvero bisogno degli attori, sono gli attori ad avere bisogno del Teatro. Il protagonista di Ianniello è rabbioso, famelico, incostante, immerso in un Requiem notturno alla Tabucchi. Si adatta, però, si adatta a tutto e non per intelligenza o per vocazione, ma per rassegnazione. Non ha davvero la forza e la purezza, ed in questo è eroico, come piace ai contemporanei.
Passeggia come l’Ulisse di Joyce, ma si ritrova statuine in stile Spaccanapoli al posto delle patate in tasca, scherza bonario, quasi infantile e cerca di sfuggire ai suoi stessi desideri, poi li reclama ma crogiolandosi nel senso di colpa, si porta dentro la morte e non elabora il lutto, si arrende e partecipa al grande gioco sociale, anzi, più ne viene escluso più pretende di esserne inserito salvo poi rivendicare redenzione in un taglio di capelli audace.
Se la prosa inganna con la sua gradevolezza, bagliori rossastri in una oscurità densa stanno assopiti, nascosti dietro le spalle ampie della prima persona narrante che rassicura, pastosa e invitante. Parlare di pirandellismo, di colpo di penna eduardiano e di movimenti danteschi, sarebbe fin troppo banale.
È inevitabile, quando si legge lo Ianniello scrittore, pensare allo Ianniello attore. Emerge la preoccupazione per una categoria di lavoratori, quella degli attori, che troppo spesso viene ridotta a mero (s)oggetto di arredamento nel contesto culturale odierno, contesto forse già decaduto, più che decadente. Emerge qualche adorabile citazione dal copione de “I Giocatori” (originariamente del catalano Pau Mirò e che Ianniello ha tradotto per il palco e per il cinema) quando Morra ammette di non presentarsi mai ai provini con le battute a memoria, per il gusto di una improvvisazione emotiva esasperata. Emerge anche, in quello sforzo tutto racchiuso nella parola ipseità (che fa rima, guarda caso, con responsabilità) il palpito teso, lo sforzo dell’interprete che in “Eternapoli”, qualche stagione fa, ha portato in scena una decina di personaggi lottando con la solitudine del palco e della parola nell’adattare il romanzo “Di questa vita menzognera” di Giuseppe Montesano. Infatti, se in Eternapoli la famiglia dei Negromonte tentava di fare di Neapolis un parco tematico dove tutti avrebbero dovuto “recitare se stessi in un Museo perpetuo” dove tutto sarebbe stato “finto, tutto un’illusione”, qui Maggie e affiliati tentano, fino alle estreme conseguenze gattopardesche, di fare di Napoli un perenne gioco di scardinamento sociale, di affastellamento delle coscienze, un perenne gioco di destrutturazione.

Ma questa alterazione della realtà, questo sonno della ragione, genera abissi incolmabili. Se Isidoro Sifflotin era l’emblema della purezza, del gioco puro e fantastico, della grazia della favola piena di meraviglia, Antonio Morra è l’uomo adulto che della favola non riesce più a conservare nemmeno la falsa immagine, perché quella purezza è inquinata fino al midollo dal disincanto più frustrante, dall’insoddisfazione e dalla paura. La Vittoria delle Illusioni sancisce il fallimento dell’umanità e Ianniello, che sa recitare anche quando scrive, consegna nelle mani del lettore con molta generosità la risposta in forma di visione dietro le palpebre chiuse, in un sonno finalmente ristoratore.
“Saremo giudicati sull’amore?” chiosava Montesano. E allora bisogna vivere cercando la felicità negli occhi degli altri come in uno specchio, amare ed essere rivoluzionari, rilancia Ianniello. Amare e fare dell’amore la rivoluzione, rinunciando alla maschera da Signor Keuner brechtiano che quando ama qualcuno se ne fa un’idea e procura che la persona le assomigli.
Quando si richiude il libro e si osserva l’illustrazione di copertina di Gianluca Folì, la visione si materializza nel disegno: c’è un uomo che esce dall’ombra nella quale sembra essere incastrato, c’è un’ombra che si smaterializza verso un’altra dimensione, altrettanto dignitosa, altrettanto reale e viva. Ci sono due uomini, due persone che si dividono e vanno in direzioni diverse. Ed è chiudendo il libro che forse chi legge può rispondere a quel quesito in forma di affermazione con cui Ianniello ha aperto la narrazione: esistono solo le persone, dei personaggi dobbiamo imparare a dimenticarci. I personaggi sono una illusione, una proiezione alterata che abbiamo costruito per ingannarci, per prendere le distanze anche da noi stessi.
Esistono solo le persone, anche quando raccontiamo storie, esistono solo le persone che abitano e sono abitate dai paesaggi e che vanno protette e difese, anche da noi stessi. Esistono solo le persone che devono imparare a fare davvero parte dei paesi, perché la realtà va avanti anche se crediamo di potercene allontanare fingendo di fare finta di non esserci davvero.