L’11 gennaio 2013 il Teatro italiano ha perduto una delle attrici più intense e coraggiose: Mariangela Melato. Chiediamo ad Anna Melato, generosa e gentile, di ricordare sua sorella e di parlarci del suo Teatro.
Mariangela come scoprì la sua vocazione?

Mariangela avrebbe potuto fare qualsiasi professione artistica: dipingeva benissimo (aveva fatto l’Accademia delle Belle Arti), ha sempre avuto questo intuito da architetto per cui le sue case sono state stravolte perché lei si inventava le cose anche quando eravamo con quattro soldi in tasca. Mi ricordo la prima casa di Roma, che ho abitato anch’io, ogni tanto: quando venivo a Roma andavo da lei perché non volevo andare in albergo, e non volevo rimanere da sola perché avevo diciott’anni e preferivo stare con qualcuno. In questa casa che era una soffitta pazzesca dormivamo in un letto di ferro battuto con intorno le pentole per raccogliere la pioggia: era un vero concerto di gocce. Non avendo possibilità di acquistare dei mobili, utilizzando le cassette di legno del supermercato, Mariangela aveva realizzato una libreria meravigliosa. Realizzava cose che poi sarebbero andate di moda dopo vent’anni, come i fili tirati per appendere le fotografie evitando così di bucare il fragile muro. Già da ragazzina le piaceva leggere, recitare poesie a scuola e poi era una grande scopritrice di musica. Io dico che mi sono messa a cantare per una predisposizione naturale, ma anche perché sono cresciuta in un mondo particolare: negli anni Sessanta sentivo il jazz, Coltrane, sentivo cose che i ragazzini della mia età non conoscevano perché Mariangela portava a casa questa musica. La cosa più normale che sentivo era Tenco, ma credo che Tenco, per una bambina, abbia il potere di strutturarti diversamente. Il fatto poi di essere passata tante volte davanti a questa accademia di recitazione le avrà fatto scattare il desiderio di essere amata dagli altri, perché se tu conosci i grandi artisti, questi hanno quasi sempre delle “mancanze”, dei problemi pregressi, le fragilità che hanno avuto da piccoli, da giovani li portano a cercare di essere amati, di essere un riferimento per gli altri. Mariangela ha lavorato alla Rinascente, insegnava la sera in una scuola di ballo, e poi ha convogliato tutto nella recitazione che le ha dato sicuramente una grande voglia di vivere e le ha offerto il suo riscatto per essere amata, applaudita, cercata. Era la sua vita, la sua famiglia e il suo lavoro.

E tu, Anna, come hai scoperto il canto?
Mi piaceva moltissimo cantare ma era una cosa da ragazzi, la sera ci si incontrava con le chitarre e si cantavano Bob Dylan, Joan Baez, ma anche Battisti ed eravamo presi nella musica. Spesso io la sera andavo in un locale milanese che non esiste più, c’era un bel pianoforte, si beveva qualcosa e si chiacchierava. Lì avevo le mie amicizie, vicini di casa, compagni di liceo e molti erano musicisti e mi dilettavo a cantare e suonare finché due amici mi fecero una bella sorpresa: fui chiamata in RAI a corso Sempione da Marcello Marchesi che cercava delle voci in tutta Italia per una trasmissione: mi presentai e mi dissero che ero stata iscritta da questi amici e così cantai una canzone tristissima abruzzese che avevo sentito più volte nel Ci ragiono e canto di Dario Fo. Marchesi rimase stupefatto e mi prese come ospite d’onore della trasmissione e mi ritrovai prima al Manzoni di Milano, poi in televisione. Arrivarono i contratti discografici, entrai alla Ricordi. Poi stavo nello studio di fotografia del Piccolo Teatro di Milano dove facevo l’assistente perché nel frattempo frequentavo una scuola di fotografia a Milano. Ho fatto Sanremo, Canzonissima, le serate, quello che si faceva allora e tutto sempre con grande interessamento di Mariangela.

Avete anche girato film insieme, Film d’amore e d’anarchia di Lina Wertmüller e poi Casotto di Sergio Citti...
Sì, e anche lì la signora Wertmüller mi fece cantare nel film quella canzone che avevo proposto a Marchesi e mi fece fare una prova per la canzone scritta da Rota per i titoli del film. Andammo in sala d’incisione, quel disco lo feci praticamente in diretta con una quarantina di elementi. Sono andata lì a vent’anni con un foglio di carta in mano e l’orchestra che suonava, non sapevo neanch’io come cantarla. Però sono stata scelta, non mi sono candidata io.
Un percorso speciale.
Sì, sicuramente speciale, oggi sarebbe quasi impossibile avere queste occasioni. Ho fatto quello che mi piaceva fare, poi a un certo punto mi sono annoiata della canzonetta e ho fatto uno spettacolo meraviglioso che è stato a Roma quasi un mese con l’orchestra del Testaccio, cantavo le canzoni scritte da Pier Paolo Pasolini. Mi sembrava più logico avere delle cose da dire. È scattato qualcosa che mi ha portato alla recitazione, una scelta che mi sembrava più adatta a me, più intimista.
Puoi raccontarci come Mariangela sceglieva i suoi personaggi?
La scelta sicuramente era personale e molto pensata. Aveva appena debuttato con uno spettacolo e già stava con la testa ad altri copioni, romanzi, cose che le arrivavano. Andava a vedere spettacoli all’estero sempre per capire cosa stesse accadendo e poi quando aveva ben capito cosa voleva fare me ne parlava, ma in realtà aveva già deciso.
Quale spettacolo di Mariangela ricordi con più affetto?

Quello che mi ha fatto ridere di più è L’affare Makropulos di Ronconi. Già dopo cinque minuti (io ero in prima fila) ridevo e c’erano delle persone che mi guardavano un po’ imbarazzate: tutti entrando pensavano che la coppia Ronconi-Melato fosse noiosa e invece fu uno spettacolo bellissimo. Mi è piaciuto follemente. Poi ricordo che sono andata tutte le sere a vedere Mariangela con Proietti al Sistina, e poi come dimenticare l’Orlando Furioso sempre di Ronconi: lì c’era proprio un coinvolgimento forte… ma raramente sono stata seduta e vederla e non mi è piaciuto, e se è successo era per le scelte del regista, cose che magari secondo me andavano tagliate.
Mariangela è un’attrice intellettuale.
Diceva sempre che secondo lei la fisicità e il movimento erano più importanti della parola. La parola, quello che dicevi recitando, erano veicolati dal movimento per lei e questo era abbastanza straordinario. Quando Mariangela fece Fedra di Racine che era in versi, pensai che il lavoro fosse troppo difficile e invece con la fisicità e il pensiero arrivava a fartelo seguire. C’era una trasmissione di pensiero e di modi, come quando Dario Fo faceva Mistero Buffo, era lui che ti faceva capire di cosa parlava. Chi fa questo è un artista.

Qual è la definizione che Mariangela dava alla parola Teatro?
Il Teatro per lei è stato il suo grande amore. Per anni si è detto che teatro e cinema avessero bisogno di recitazioni diverse, ma non è affatto vero. L’unica cosa che ha il cinema di diverso è il primo piano che aiuta a farti capire cosa succede veramente a quel personaggio, ma se hai un messaggio lo porti anche a trecento metri dal palcoscenico. Certo, tecnicamente al cinema non porterai la voce come la porti sul palcoscenico, ma chi sa recitare, lo fa bene ovunque. Per Mariangela casa sua era il suo camerino, quella settimana di ferie che ogni tanto aveva a disposizione era un incubo: non poteva stare lontana dal Teatro. Le fu chiesto di condurre Domenica in, con offerte economiche molto interessanti, ma lei preferì fare Teatro: mi diceva di non poter uscire dalla strada che aveva tracciato. “Anche le persone che mi seguono vogliono che faccia questo e non Domenica in” aggiungeva. Era molto onesta, davvero. Era anche di un’onestà a volte irritante, orgogliosa, seria che poteva sembrare difficile da sostenere, ma aveva ragione. Non ha mai avuto il senso del danaro e non ne ha accumulato, era uno spirito libero, pensante e molto simpatica, piena di ironia. Mi mancano le sue risate, le sue telefonate. Mi manca follemente.
I giovani soprattutto possono ancora imparare tanto da Mariangela, cosa direbbe secondo te ai giovani che vogliono fare teatro?

Lei ha sempre lasciato una porta aperta ai ragazzi talentuosi e con la voglia di imparare. Oggi il Teatro è disastroso, è tutto cambiato, molto più difficile. Mariangela ha lottato perché non aveva le tipiche caratteristiche della prima attrice. Lei avrebbe detto che comunque c’è sempre tanto da imparare, non si diventa bravi perché hai avuto la fortuna di fare una cosa bella se poi non continui a lavorare. Per lei era impossibile fare una cosa non bene, dopo Sola me ne vo’ anche io le dissi “Mariangela guarda che dopo questo c’è il circo a quest’età” e lei mi risposte che in effetti non le sarebbe dispiaciuto pensare con Ronconi uno spettacolo sul circo. La grande disperazione quando non stava bene è che avrebbe tanto voluto fare con Lavia Il giardino dei ciliegi. Lo avrebbe voluto fare ad ogni costo. Ad un giovane direbbe, come diceva sempre a tutti “Dai, portiamoci avanti!”. Ha sempre fatto questo grande lavoro su se stessa: la cosa che faceva tenerezza di Mariangela è che arrivava alla prima prova con l’astuccio, le matite e tutte le parti a memoria perché questa profonda conoscenza del testo le permetteva di capire sempre meglio in che direzione desiderava andare. Faceva sempre attenzione a riempire la lista dei doveri (verso se stessa, verso il pubblico).
Aveva imparato a imparare

Sì, aveva imparato a imparare. Pensa che una attrice giovane non potrebbe oggi fare quello che lei ha fatto con grandi personaggi: Brusati, Garinei e Giovannini, Ronconi, Visconti, Strehler: stiamo parlando di una cultura che oggi non c’è. Del resto è evidente: tutto questo gira intorno ad una situazione politica italiana disastrosa. Abbiamo arte, pittura, Teatro, cinema ma su questo non vengono investiti fondi. Mariangela fino al giorno prima di andarsene era ancora lì a scalare la vetta, le avrebbe inventate tutte pur di non stare ferma. Io dico che la montagna l’ho scalata e il problema è il vostro, di voi giovani che dovrete imparare a imparare.
ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI
*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Globalist.it il 18 ottobre 2017
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