Corri, tesoro mio, corri. Puoi correre finché vuoi. Puoi correre più veloce che puoi. Puoi anche continuare per ore a invocare aiuto come stai facendo adesso. Questa striscia di sabbia è lunga miglia e poi miglia. Nessuno può ascoltarti, nessuno può venire a salvarti.
David Grieco, Miracolo a New York
Miracolo a New York sarà un grande film, per ora è un grande romanzo (La Nave di Teseo, 2022) di “fine” letteratura che contiene una fiducia nell’essere umano così radicale da sfiorare il sublime. David Grieco lascia che a parlare in prima persona sia il medico Matthew Mason, rimasto vedovo l’11 settembre 2001 a New York. Matthew non ha mai potuto piangere e seppellire il corpo della sua Jodie e proprio la sottrazione della realtà fisica della morte è il motore della sua azione che sembra transazionale per una intera generazione. L’altra voce protagonista è quella dell’attuale compagna di Matthew, Allison. Grazie a lei entriamo nelle dinamiche di coppia contemporanee, fatte di lunghi silenzi davanti agli smartphone, frustrazione e reciproca diffidenza. Poi c’è Charlie, la sua voce di figlio parte in sordina, ma si impone con poche, rapide battute risolutive.

In effetti ho anticipato che questo è un romanzo di “fine” letteratura con un senso doppio della parola “fine” che potrebbe sembrare arrogante, ma che invece penso dia forma alla sensazione che si prova leggendo questa storia. Fine sta per raffinata, ma anche per terminale. È finita, o sta finendo, la letteratura. Forse è finita proprio con l’ultimo grande romanzo di Elsa Morante, Aracoeli (1982), e questa era anche la grande intuizione di Pasolini mentre raccoglieva materiale per Petrolio pubblicato postumo (1992) che tutto è fuorché un romanzo (almeno, dipende sempre dall’idea di romanzo che si usa come riferimento), ma è un fatto: i romanzi venuti dopo gli anni Settanta sono altro dall’idea di letteratura che potevamo avere, forse perché il nostro tempo non ha tempo per la fantasia più brutale, vince quasi sempre la rassicurazione dell’autobiografismo e del già visto, mai lo scompiglio della trasfigurazione e della deformazione. Ecco, David Grieco si pone proprio in questa frattura con il suo stile chirurgico e la dose impeccabile di dialoghi intensi e la sua è una storia deformante di trasfigurazioni. Non voglio cadere, però, nella trappola di dire che questo romanzo sia cinematografico, non significa molto di solito, è solo un modo sbrigativo per togliersi dall’impiccio dell’analisi, e io non ho fretta. Ho invece ammesso che Grieco ne tirerà fuori un gran film, ma è una cosa completamente diversa: Grieco è un grande sceneggiatore, un grande regista e, soprattutto, un grande critico e questi elementi lo rendono forte abbastanza per svincolarsi dalle facilonerie di chi scrive come un mestierante, forte abbastanza per fare dell’atto narrativo dello scrivere un momento autonomo rispetto a quello dello stare dietro una macchina da presa.
Alcune pagine sono toccanti, altre perfino avvincenti, l’abisso che Matthew tocca è addirittura metastorico: il corpo di Jodie è il correlativo oggettivo del corpo della Storia globale, fatta da un insieme di piccole illusioni e menzogne di provincia (il mondo è tutto una provincia, disteso su una forma di globo tradita). Anche noi, proprio in Italia, piangiamo morti e omicidi di cui non conosciamo verità giuridiche, anche noi, proprio in Italia, dobbiamo fare i conti con i fantasmi di un passato che è lontano solo grazie a un numero. Leggendo il romanzo si pensa subito anche all’articolo La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci pubblicato il 29 settembre 2001 su «Il Corriere della Sera» (che non è il manifesto di una neofascista o neonazista, è bene ribadirlo) anche se Matthew conosce solo il dolore, la rabbia lo ha già abbattuto, l’orgoglio è solo una parola.
Miracolo a New York è un romanzo realista del 2022 quando nel 2022 quasi nessuno sopporta più l’idea di affrontare la realtà e credo che anche il titolo non sia casuale: l’ho letto e ho pensato a Vittorio De Sica, al suo Miracolo a Milano (1951)tratto dal romanzo di Cesare Zavattini Totò il buono, la favola di un orfano che sogna un mondo onesto e non ho pensato subito al più immediato Miracolo nella 34ª strada (1994) di Les Mayfield. Ecco, dico che la fiducia di Grieco nell’essere umano sfiora il sublime perché sono proprio gli orfani della vicenda, i giovani figli dei sopravvissuti all’11 settembre, che chiudono (e aprono) questa storia scrollandosi il peso del mondo dalle spalle, forse per tenerlo meglio tra le braccia.
David Grieco e io siamo amici, lo sottoscrivo perché non sopporto le ipocrisie, ma non vedo perché avrei dovuto perdere l’occasione di fare e farvi fare un tuffo nella realtà e, soprattutto, di riflettere su un problema comune: quello di essere in relazione con un mondo che cerca l’alibi del simbolo per dimenticare le proprie responsabilità. La letteratura, quella sì che è una foresta selvaggia di simboli, è finita, sradicata, forse, ma non la vita. Non la Storia: per questo, meglio continuare a correre.