Apocalypsis cum figuris – Atto VII

Maurizio Donadoni firma Apocalypsis cum figuris in Voix.
Una scrittura nel suo farsi, pensiero di un attore e drammaturgo nel 2020. I primi due atti sono stati condivisi nell’ambito di E come Eresia: Le Rivoluzioni siamo noi?

Materiale e fantastico hanno rapporti più stretti e consolidati, di quanto, in pratica ci s’immagina. Come tra individuo e massa. Quando a definire la nostra categoria, si scrive  “lavoratori dello spettacolo” mi vien sempre un po’ da starnutire. Preferirei “lavoratori dell’immateriale”  a salvaguardia d’entrambi  i diritti, sindacali e artistici.

Non metterei la mano sul fuoco, foss’anche d’un fiammifero bioricavato da pioppo, nemmeno sulla bontà strategica del principio di gregge, o dello stormo – pecore o storni che siano – meglio espressa: tattica dello sgombro (sardine non dirò, onde evitare malintesi, preferisco). Quel muoversi a ondate sincrone, a dittatura d’istinto, a salvamento da lupi, falchi o tonni. Non so perché, mi sono simpatici anche il tonno, il falco, il lupo. Visto che pecore, storni, sgombri, oltre che imbrancarsi non fanno e pace a chi finisce in bocca a qualcun’altro. Da che preda è preda, scappare è il metodo migliore per farsi inseguire dal predatore.

Se, una volta tanto, fermi, ci rivoltassimo?

Milioni d’occhi contro una ventina. A viso aperto, intesi, non da followers con nick name, sostenitori d’influencer, con like o non like come manganello. Azione, rappresaglia. Così comincia a fare qualche bufalo, contro i leoni golosi d’interiora d’erbivoro. E funziona. Viceversa non avremmo altro scampo (se non crostaceo).

Perso per perso, i ghetti finiscono rasi al suolo, però prima si rivoltano, parola di Yossl Rakover, (Zvi Kolitz) che si rivolge a Dio. 

In questo la sinistra, suppongo debba fare – un autodafé no, niente inquisitori – ma un esame di coscienza, almeno quello, sì. Avanti che sia di nuovo la seconda volta in cui ci troveremo a fare qualcosa,  d’un micron, ma già un po’ appassita la freschezza della prima. La reazione/rivoluzione che ci vorrebbe, non escluda nessuno che abbia la buona volontà di cambiare in meglio, coscienti che chi vuole il Paradiso in Terra, sprofonda la Terra, il più delle volte in un inferno per tutti gli altri. E, per favore, teniamo conto di quel che è la natura umana, non solo di quel che dovrebbe essere.

A Rudolph Hess, Adolf Hitler confidava “Perché tanta fatica per adeguare il nostro volere alla realtà, è tanto più semplice adeguare la realtà al nostro volere”.

Non mi pare il caso di seguirne l’ esempio.

Una volta per tutte, mandiamo in “buen retiro” la nostra sicumera da barricata in salotto, tanto più odiosa, quanto più dà per dimostrato, senza più onere di prova, quanto da sempre si stia, per privilegio culturale, di censo o  d’anagrafe, dalla parte di chi ha ragione. Qualche dubbio, qua e là, come antidoto. No?

Per non finire  davvero dalla parte del torto, stiamo dalla parte dei torti, di chi li subisce, ha paura e non ce la fa a pensare al meglio delle sue possibilità. Perché vive in un casermone accorante di periferia, non in un attico del centro; non commisera “fratelli che sbagliano” da un’amaca d’avorio; non si autoincensa, in nome e cognome, al pari di valori altissimi quali la resistenza e l’antifascismo; non si fa paladino dei poveri a 15mila a replica; non critica capitalisti a 35mila a sera; non riceve 250mila euro ad ogni consegna di sceneggiatura;  o 500mila a firma di contratto TV; né un milione a serie;  o multipli milionari per cicli di puntate su questa o quella rete. Non si tratta della solita polemica sulla rivoluzione al rolex o al caviale. Però almeno il rischio di qualche sampietrino addosso, chi sta “sopra la linea”  (dei costi), potrebbe anche rassegnarsi a prenderselo.

Anche perché chi sta sotto la linea – cioè il 98 per cento degli altri – ha visto negli anni precipitare il proprio compenso della metà o di due terzi, invariato o addirittura aumentato quello del fortunato 2 per cento sovrastante. Un po’ d’equilibrio, mi pare non guasterebbe. E poi lasciamo la parola non solo ai – necessari, per carità di patria – fautori dello “spettacolo come industria”; ma anche ai veri profeti, disadattati dell’oggi perché vedono più lontano, o propongono, surreali alla Chlebnikov, di bollire un lago russo, per farne zuppa da sfamare il mondo. Non so se avrò la forza di scavallare i miei pregiudizi.

Mi costerà credo, abbandonare alcune certezze  in negativo. E provare a credere sincero chi credo che finga; chi dice di credere a ciò cui non crede; chi s’accoda a pappagallo al corteo dei vincenti; gli insinceri paracul/culturali, cattivi fin dalle intenzioni; chi raggira, inganna, manipola per principio; chi considera il mondo solo pura espressione agiografica d’un io distorto o malinteso, poligono di tiro per le proprie esibizioni cannibalistiche, territorio da occupare ad erigente piedistallo, d’un gioco di costruzioni autoriferite, l’ego. O anche solo chi abbandona il sacchetto della sua immondizia sul ciglio d’una provinciale della Tuscia viterbese, nel paesaggio  più bello del mondo, dove – dice Pasolini – l’Ariosto si sarebbe ricreato, di gioia.

Proverò perciò a comprendere. Sapendo che ciò che sento, credo, penso, è solo ciò che penso, credo, sento. E non la verità.

D’un paio di cose però sono quasi sicuro: che la libertà, come l’amore, non ha prezzo; che la scienza è contenuta nella vita, non il contrario. E il tutto nell’amore del tutto.

ARTICOLO DI MAURIZIO DONADONI

Un pensiero riguardo “Apocalypsis cum figuris – Atto VII

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