Nicola Scardicchio: Nino Rota mi ha insegnato come esprimere ciò che sentivo davvero

Nel 1960 Federico Fellini veniva premiato al XIII Festival di Cannes per La dolce vita con La Palma d’Oro. Fu Nino Rota a comporre la colonna sonora del film e abbiamo chiesto al M° Nicola Scardicchio, già docente di Storia della Musica presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, di ricordare per noi il suo Maestro e di condurci nella sua musica: quella che compone, quella che ascolta e quella che lui stesso trasmette ai suoi allievi o ai giovani spettatori del Teatro Petruzzelli di Bari.

Come ha incontrato la musica?

Sono stato fortunato, perché pur non essendoci nessuno in famiglia di professione musicista o che avesse studiato compiutamente musica in qualche modo, l’ambiente famigliare in cui sono nato era molto amante della buona musica. Mia madre aveva una bella voce di soprano e spesso la sentivo cantare brani d’opera mentre sfaccendava ed era sempre sintonizzata con la radio la mattina per ascoltare quel paio di romanze della trasmissione Antologia della Lirica (credo così si chiamasse). Tutta la famiglia del ramo materno era legatissima al melodramma e tutti amavano l’opera, come anche mio padre, che per molti anni faceva l’abbonamento per la stagione lirica del Petruzzelli: io andavo con i miei genitori ed amici di famiglia. In quel palco ho conosciuto la mia prima Bohéme, e poi Pescatori di Perle, Andrea Chénier e tante altre opere, e quando, anni dopo, la mia passione per l’Egitto divenne imperativa, mio padre mi portò con lui a vedere l’Aida, con mio grande piacere. Naturalmente l’approccio era legato essenzialmente al melodramma, ma per me ci fu l’ampliamento delle frontiere ascoltando i dischi di musica sinfonica del mio fratello maggiore Michele, e così all’opera si aggiunsero Beethoven, Grieg, Bizet, Gershwin, Mozart, Liszt, Wagner, Dvorak. In prima media con la scuola andammo a sentire un concerto sinfonico in cui fu eseguito il primo movimento della Quinta di Beethoven. Fu un colpo di fulmine: pochi giorni dopo ne volli per regalo di onomastico il disco che ascoltai fino alla consunzione. Cominciai a frequentare le stagioni concertistiche della Fondazione Piccinni e dopo un concerto memorabile di Dino Ciani e, poco dopo di Marta Argerich, chiesi ai miei di comprarmi un pianoforte e di farmi studiare musica. Cominciai con lezioni settimanali, alle 19 di sera ogni sabato sotto la guida ammirevole e competentissima di Elena Vigliano che, tra l’altro, si era diplomata in composizione sotto l’insegnamento di Nino Rota. Quando io conobbi il Maestro, che dopo aver visto le mie primissime piccole composizioni volle che io mi iscrivessi ai prestigiosi corsi di composizione di Armando Renzi, altro straordinario musicista, fu proprio la Vigliano a spingermi ad iscrivermi al Conservatorio anche per il pianoforte. Restammo sempre in contatto, la nostra divenne un’amicizia sempre più solida ed affettuosa.

Vuole ricordare per noi Nino Rota?

L’incontro con Nino Rota è stato il definitivo colpo di fortuna della mia vita come il nascere in una famiglia che ha favorito le mie inclinazione. Avere grandi insegnanti, soprattutto al Liceo Classico – il glorioso “Quinto Orazio Flacco” barese – come Rosa Cifarelli e suo marito Fabrizio Canfora, genitori di Luciano Canfora, ed ancora Elvira Tatulli e poi incontrare Nino Rota mi sembrano quasi dei premi per una vita precedente meritevole di queste fortunate combinazioni. Conobbi Rota durante un saggio del Conservatorio e mi presentò a lui Fernanda Sarno, moglie di Fernando Sarno, eccellente docente di composizione e vicedirettore del Conservatorio. Quando seppe che ero studente di Liceo Classico, Rota ne fu più che contento e mi regalò un LP con la colonna sonora del film Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, che era la sua prima musica che avevo avuto l’opportunità di conoscere, seguita poi da tutto quello che riuscii subito dopo – erano gli anni 1968/69 – a trovare ed ascoltare e studiare. Cominciai così a frequentare l’ambiente del Conservatorio essendo comunque studioso in privato di pianoforte, ma interessato a seguire ogni saggio di ogni disciplina: con Rota nacque così una confidenza che mi rendeva più che felice. Certo era il tipo di confidenza parziale che in quel periodo poteva esserci tra un uomo di età matura ed un ragazzino, mentre oggi è meno difficile instaurare rapporti di amicizia tra persone di età e peso diversi. Ma in breve tempo la frequentazione si fece molto intensa e, tra l’altro, le discussioni tra di noi fecero emergere in me una maggiore sicurezza in me stesso che ebbe immediati riflessi nella resa scolastica. In classe una certa timidezza unita ad una certa insicurezza mi rendevano poco capace di esprimermi al meglio ed io stesso ne ero bloccato. Da allora invece cominciai ad essere pronto nella resa delle interrogazioni e quasi mi si sbloccò qualche impiccio interno che mi teneva un po’ ingrippato e di colpo cominciai a fare traduzioni dal greco e dal latino con una facilità che stupiva i miei stessi professori. Ricordo a tal proposito l’ottimo professore di greco e latino Antonio Roma, che si divertiva a sfottermi perché scoprì che non traducevo più a casa perché ero capace di farlo direttamente a prima vista nel corso delle interrogazioni. Il confronto frequente con Rota, che aveva una cultura classica e letteraria e filosofica di impressionante vastità e profondità (tra l’altro oltre all’italiano, ovviamente, parlava benissimo inglese, francese, tedesco e perfino russo, oltre al latino ed al greco): si pensi che il mio primo esame universitario in Storia della filosofia antica andò benissimo perché in autobus, mentre ci recavamo a casa di Prudenzina Giannelli, sua amica fraterna, Rota mi spiegò con chiarezza ed incisività la dottrina pitagorica, che era alla base del corso monografico, ed oggi ancora quella sua ‘lezione’ resta per me essenziale. Ovviamente l’importanza di quegli incontri ebbe riflessi fondamentali sulla mia formazione musicale e nel 1970, visti alcuni miei piccoli pezzi per pianoforte, Rota mi disse che riteneva importante che io mi iscrivessi al corso di composizione, dato che finalmente aveva accettato l’incarico il grande compositore, pianista, direttore di coro e d’orchestra Armando Renzi, altro straordinario modello di musicista, come Rota capace di dominare lo scibile musicale senza limiti. Io ero ancora agli inizi dei miei studi e non conoscevo ancora tutto il setticlavio, necessario per poter scrivere il contrappunto nelle chiavi antiche: nessun problema. Armando Renzi, che faceva studiare il contrappunto – di solito in programma dal quinto corso in poi –  fin dalle prime lezioni di composizione, mi compose all’istante un solfeggio in chiave di tenore, la chiave che mi mancava per poter scrivere appunto gli esercizi di contrappunto – contrappo lo chiamava con il suo caratteristico umorismo romanesco il Maestro – e questo avveniva il 16 dicembre 1970, duecentesimo anniversario della nascita di Beethoven e mia prima lezione in Conservatorio, data per me quindi per molti motivi memorabile. Finita la lezioni corsi a casa dove Leonard Bernstein dirigeva in diretta eurovisione il Fidelio per le celebrazioni del duecentenario. Che giornata!

Qual è stato il più grande insegnamento che Rota le ha trasmesso?

Nicola Scardicchio con Nino Rota

Nino Rota fu un grande Maestro di libertà: in tutta la sua vita non si piegò mai ai deliri dittatoriali di certe pseudoideologie linguistiche parafilosofiche dietro le quali spesso si nascondevano mancanza di creatività o pochezza di carattere o, spessissimo, la carenza di una capacità di provare ed esprimere sentimenti veri e non solo fumi intellettivi, con tragiche conseguenze per un lungo tratto del Novecento artistico. A chi gli stava vicino, Rota non indicò mai cosa fare ed in quale linguaggio esprimersi, purché fosse il linguaggio veramente proprio di chi gli chiedeva lumi. Il suo intervento era sempre illuminante sul come. A me stesso spesso capitava di fargli vedere un mio pezzo e lui senza dire nulla lo suonava, con quella sua impressionante lettura a prima vista e con la sua bravura di pianista autenticamente virtuoso e con pochi tratti di matita correggeva qualche nota, tagliava o aggiungeva qualcosa e nel risuonare la parte corretta emergeva un fatto davvero magistrale: aveva perfettamente capito quello che io volevo dire e con le sue correzioni l’aveva reso più chiaro e funzionante. Perché un pezzo di musica doveva funzionare secondo il suo dettato. Non interveniva quindi sulla sostanza o sul linguaggio scelto ma sulla mancanza di impicci o goffaggini, rispettando il mio pensiero ed insegnandomi al contempo ad esprimerlo compiutamente. Ancor oggi a quasi 66 anni e con un po’ di esperienza, ne desidererei la presenza per chiedergli molte, moltissime cose, e non solo di musica.

I giovani e la musica: cosa direbbe ad un giovane musicista?

Di essere resistente, perché un brano di musica finisce all’ultima battuta e non bisogna arenarsi in corso d’opera. Non è facile, perché sembra che nel nostro mondo la cultura occupi un ruolo non rispettato, nonostante la sua importanza. Ricordo sempre la frase dal Fedone di Platone, per cui “la Conoscenza (Gnosis) divinizza l’Uomo” come imperativo categorico irrinunciabile. Dovrebbe esserlo per tutti, a cominciare dai politici che gestiscono le sorti dei Paesi, ma è l’unica ragion d’essere per poeti, artisti, filosofi, scienziati, musicisti, altrimenti essi sarebbero solo degli sterili narcisisti. Indagare senza infingimenti nel fondo della propria coscienza, intuirne il linguaggio ed esprimerlo altrettanto sinceramente, senza fuorvianti esibizioni di vuota retorica, questo dovrebbe fare un giovane cosciente, specialmente se poi si dedica al lavoro del musicista che adopera strumenti così asemantici ed insieme fortemente significativi come i sintagmi musicali, un linguaggio che deve essere percepito e recepito da quello che Debussy si augurava fosse “l’ascoltatore di buona volontà”.

Un altro incontro importante è avvenuto con Pasolini e Moravia, cosa può raccontarci?

L’incontro con Pasolini fu in un certo modo casuale. Ero nella bella casa di Rota a Roma, in zona Pantheon, ed uno dei giovani che aiutavano il Maestro nelle cose quotidiane si presentò per dire che stava recandosi da Pasolini per ritirare certe traduzioni. La Ricordi tra la fine degli anni sessanta ed i settanta aveva una florida produzione anche discografica e stava progettando un’incisione dei più importanti lavori musicali per il teatro di B. Brecht musicati da Kurt Weill. La produzione giocava molto sul proporne una versione musicale curata da Nino Rota e con i brani cantati, tra gli altri, da Laura Betti, in italiano su versi tradotti poeticamente da Pier Paolo Pasolini. Rota ne era molto felice perché aveva una stima sincera del poeta e rimase molto dispiaciuto per il fatto che la cosa non ebbe più seguito, per qualcosa che aveva a che fare con Pasolini e le sue complesse vicissitudine politiche che lo resero scomodo al punto da precipitarlo in un tragico finale. Ma questo è quello che accadde poi: io quel giorno sgranai tanto di occhi perché per me Pasolini era un mito da tanti punti di vista e Rota lo capì e mi disse che se volevo tanto conoscerlo potevo andare con il giovane messaggero – a quei tempi non c’erano modem o internet ed una copia era una vera copia fatta su veline con carta carbone – ed io andai, in zona EUR, dove il poeta viveva. Quella mattina c’erano ospiti da Pasolini: ero un ragazzino poco più che quindicenne e non ricordo chi fossero: Enzo Siciliano? Moravia? Non saprei dirlo. Ricordo che quando entrammo in quello studio pieno, come tutta la casa, di una quantità incalcolabile di libri, tutti letti, come il loro stato denunciava chiaramente, Pasolini, gentile e scabro come sempre, stava discutendo del suo progetto di un film su San Paolo, che gli valeva la minaccia di scomunica da parte del Vaticano perché intendeva sottolineare l’omosessualità dell’Apostolo, di cui sosteneva di avere le prove. Al mio sguardo smarrito Pasolini reagì chiedendomi il perché del mio stupore ed io a stento riuscivo ad articolare un discorso in cui mescolavo Fede, omosessualità (di cui allora era arduo parlare apertis verbis più che oggidì) morale cristiana ed altro, decisamente in un modo confuso che indusse il poeta a dirmi seccamente che io ero uno studente di Liceo Classico e dovevo aver chiaro che omosessuale è un aggettivo e non un sostantivo. Parole che porto scolpite nel mio animo come monito aere perennius. In quell’occasione conobbi anche Laura Betti, ma come si può intuire, ero molto concentrato su Pasolini e troppo timido per essere più che uno spettatore. Incontrai Pasolini in seguito solo quando venne a Bari a tenere una conferenza per i bellissimi Mercoledì Letterari presso il Teatro Piccinni, quando ai primissimi Anni Settanta presentò la sua raccolta di versi Trasumar e organizzar. A conferenza finita (con alcuni momenti anche burrascosi, perché alcuni studenti decisamente estremisti all’eccesso, lo attaccarono, credo in relazione anche ai suoi articoli giornalistici molto critici sul movimento studentesco e le contestazioni in cui si schierava a favore dei proletari poliziotti e non con i contestatori pariolini figli di papà) passai dietro le quinte a salutarlo, si ricordava di me, con mio grande orgoglio, e mi diede una pacca amichevole dicendosi felice per le reazioni degli studenti che non si lasciavano intimorire ed avevano comunque delle idee da esprimere senza imbarazzi o timidezze. Fu l’ultima volta che lo vidi. Quando fu ammazzato da una combriccola di sicari ricordo che il 31 dicembre di quel tragico 1975 Federico Fellini passò in Conservatorio a prendere in auto Rota per portarselo a Roma per il capodanno e mentre ci intrattenevamo in attesa che Rota preparasse l’occorrente per muoversi, girando per il Conservatorio e poi per l’Auditorium in costruzione, quando accennai alla tragedia della morte di Pasolini, Fellini disse con molto dolore che la cosa era terribile e che un po’ tutti se lo aspettavano da tempo… io per anni ho pensato che fosse in relazione alle frequentazioni di ragazzi di vita poco raccomandabili, tesi sostenuta da certe frange politiche decisamente schierate. Ho capito poi che quel pensiero, che lo stesso Rota mi aveva espresso alcune volte, era legato al fatto che si sapeva che la figura di quel poeta, profeta soprattutto oggi più che mai, era scomoda e pericolosa. Il suo articolo sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974 in cui diceva “So chi sono i responsabili…” in riferimento a stragi e golpe con responsabilità pesantissime, ma senza avere le prove, che però sapeva chi potesse averle, era stata la sua condanna a morte.

E non incontrò più Laura Betti?

Conobbi quella mattina Laura Betti a casa di Pasolini, ma non andai oltre il saluto di presentazione. Anni dopo in varie occasioni ebbi modo di incontrarla e di scambiare qualche parola. Era fondamentalmente stravolta dalla sete di giustizia per la tragedia di Pasolini, ne era letteralmente devastata. Questo la rendeva molto asciutta ed anche un po’ scontrosa, ma che grande personalità!

Quali sono i suoi riferimenti culturali?

Nino Rota e Nicola Scardicchio

Per indole e non solo per formazione scolastica amo molto i grandi classici di ogni tempo: Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Catullo, Apuleio, Petronio, la letteratura medioevale dei cicli carolingi e di Artù e la tavola rotonda e di Parsifal ed il Graal, tutta la poesia trobadorica, gli stilnovisti, Dante, Boccaccio, Petrarca, Poliziano, Ariosto e Tasso, Foscolo e Leopardi, Pascoli e Verga, D’Annunzio e Pirandello e Pasolini, Montale, Quasimodo e Camilleri (tutto); Shakespeare e gli elisabettiani, Marlowe soprattutto, Wilde, W. Scott, Byron, Dickens, Bulwer-Lytton, L. Durrell, A. Bennett, Tolkien e J. Rowling; François Villon e Rabelais, Il Romanzo della Rosa e poi Corneille, Moliére, Hugo e A.Dumas padre, fino a Baudelaire, Mallarmè, Verlaine, Rimbaud, Proust, Gide, Sartre; il Nibelungenlied, Goethe, Schiller, i fratelli Grimm, Thomas Mann (il cui Doctor Faustus ritengo il più importante libro scritto sulla musica da uno scrittore), Schnitzler e poi Gogol, Tolstoi, Dostoevsky, Puskin, Pasternak, Bulgakov, ed ancora Cervantes, Lope de Vega, De Alarcon, fino a Lorca e Pessoa. Ma ne sto saltando troppi…. E non vedo perché dimenticare Vamba o Collodi o Conan Doyle o Balzac… per me importantissimi, e tanti altri. Per rimanere alla narrativa ed alla poesia. Per i filosofi Platone, Aristotele, Agostino di Ippona, Boezio, Tommaso d’Aquino, Plotino, Ficino, Pico della Mirandola, Spinoza, Cartesio, Kant, Voltaire, Hegel, Schlegel, Schopenhauer, Nietzsche fino a Marcuse, con l’odiato-amato Benedetto Croce, causa di molti disagi nella formazione dei programmi della scuola italiana per tramite del forse troppo maltrattato Giovanni Gentile.

Ci accompagni nelle sue opere, adesso.

Federico Fellini e Nino Rota

Da ragazzo, appena cominciai a saper leggere e scrivere la musica riempivo quantità indecenti di quaderni, su cui a mano scrivevo i pentagrammi buttando giù delle vere e proprie farneticazioni squinternate che erano soprattutto un esercizio di grafia musicale e tentativi di riprodurre a modo mio e con i miei scarsissimi mezzi musicali le cose che andavo sentendo senza avere alcuna cognizione teorica di modalità e tonalità… ricordo la fascinazione del finale dei Pini di Roma di Respighi con quelle armonie e melodie che non sapevo essere modali, ma che mi riportavano ad una mia precisa sensazione di intravvedervi un linguaggio specificamente riferibile ad un ambito romaneggiante. Era il periodo in cui con l’indimenticabile amico d’infanzia Enzo Pugliese, prestigiosissimo storico dell’arte troppo presto scomparso, eravamo totalmente immersi nelle letture di Petronio – su cui portai una tesina agli esami di maturità – e di Catullo ed Apuleio… In classe soprattutto durante le lezioni di materie scientifiche, nelle quali ero disastrosamente meno che mediocre, scrivevo tante note che erano a volte temi con variazioni, a volte fantasie improvvisate, altre volte pezzi che volevano essere di virtuosismo trascendentale pianistico, ma che di fatto erano puramente velleitarie. Ma così mi abituai a dare una forma grafica a quello che mi veniva da dentro fino a quando cominciai a scrivere cose meno improbabili, come avrebbe detto un altro mio grande Maestro, il principe Francesco d’Avalos, compositore, direttore d’orchestra e filosofo notevolissimo, a cui devo l’attenzione all’analisi strutturale della musica per una consapevolezza costante di quello che si scrive sul rigo musicale. In una fase iniziale ebbi forti tendenze ad un certo sperimentalismo, come allora di moda ed il mio primo saggio di composizione fu un Salmo 23 per soprano, violoncello e pianoforte che fece molto discutere allora, soprattutto da parte di coloro che, sapendomi comunque discepolo diretto di Nino Rota, anche se non ufficialmente, poiché Rota era Direttore e non più docente di composizione, si stupivano di scelte linguistiche tutt’altro che rotiane. Rota era purtroppo assente da quei saggi perché era il periodo in cui a Spoleto presenziava alla messa in scena della sua opera Napoli milionaria, su cui tanto ed a sproposito si discusse allora. Con l’amico fraterno Toni Florio, oggi tra le eccellenze mondiali per la specifica qualità di specialista della musica napoletana del Seicento e Settecento, anch’egli dotatissimo compositore, andammo a Spoleto per una replica dell’opera di Rota e gli facemmo sentire la registrazione dei nostri pezzi. Erano presenti Vinci Verginelli e Prudenzina Giannelli. Capii che anche loro erano un po’ meravigliati da quel mio lavoro e stranamente, ad un certo punto all’unisono dissero che quello era un momento che a loro diceva molto. Ancor oggi mi pento di non aver chiesto lumi a tal proposito e guardo quella battuta musicale e mi interrogo ancora al riguardo. Fu un lungo periodo di ricerca di una vera voce mia. Ricordo la domanda che Rota mi fece quel giorno: “Ma tu senti veramente così?” Ed io sapevo che avevo parlato in un’altra lingua, non nella mia e che quello che sentivo era altro. Furono veri anni di pellegrinaggio sotto l’influenza di Mahler e Stravinsky, che con Rota avevo conosciuto molto da vicino, ma anche di Monteverdi e Puccini e Bartok, sempre con il faro beethoveniano a segnarmi la direzione. E poco per volta cominciai a scrivere cose più sincere, meno cervellotiche e meno presuntuosamente intellettualoidi, cercando sempre più di togliermi le ultime foglie di fico per esibire i miei sentimenti e il mio pensiero senza piccolo-borghesi falsi pudori e senza paura di espormi. Una volta un direttore artistico, ascoltando una mia pagina orchestrale tratta dalla Cantata Anno Domini 1503, sulla Disfida di Barletta costituita da una Intrada e variazioni sul tema della Follia, volutamente allusiva ai modi della musica tardo rinascimentale, mi disse non senza simpatia che apprezzava la sincerità con cui io mi mostravo per quel che ero. Io non volli dirgli che in altre opere il mio linguaggio era più moderno e meno in stile, ma presi quella sua affermazione come un grande complimento: mi ero mostrato per quello che ero, senza indossare maschere insincere. È questo che cerco di fare sempre quando compongo, esprimermi senza autocensure, senza cilicio, senza cintura di castità, con le parole che ritengo adatte al momento creativo, quali che esse siano con il solo scopo di far arrivare a chi ascolta i miei sentimenti ed il mio pensiero con la massima trasparenza e leggibilità possibile, fedele all’ideale che la fatica dell’ascoltatore dev’essere, se ne vale la pena, percepire ed elaborare il contenuto e non defatigarsi sulla decifrazione del lessico adoperato.

Certo, la musica va sentita, con tutti i sensi, ma sceglierebbe per noi una sua opera? Ce la potrebbe raccontare?

Le proprie composizioni sono un po’ come figli: non ci sono preferenze. Ma qualche volta siamo portati ad essere particolarmente affezionati ad alcune composizioni oltre che per il loro effettivo risultato, per fatti contingenti. Ricordo sempre con emozione la prima dell’Asinus Aureus al Petruzzelli con la bellissima coreografia di Momcilo Borojevic: era la mia prima opera teatrale e vederla sul palcoscenico del Petruzzelli, in cui avevo conosciuto ed amato la musica per tutta la mia vita fin dall’infanzia mi faceva un enorme piacere. Sono poi molto affezionato ad una cantata sul mito di Iside e Osiride, Kemit, canti e danze di Horus, perché era ispirata al mio amore per i miti e la civiltà egizi. Ma sono particolarmente legato alle opere liriche, tutte in forma di singspiel, composte su commissione della Fondazione Petruzzelli e destinate al pubblico esigentissimo dei giovanissimi delle scuole elementari e medie: un pubblico che non si lascia affascinare facilmente da rovelli intellettuali e se sente emozione lo dimostra, altrimenti lascia perdere. La prima fu Il giovane Artù. Era l’estate del 2014 ed il maestro Massimo Biscardi, Sovrintendente della Fondazione Petruzzelli, mio amico e condiscepolo presso il conservatorio dall’epoca dell’adolescenza, mi convocò in sede per propormi di comporre un’opera destinata ai ragazzi che servisse di iniziazione dei più giovani alla frequentazione del teatro d’opera. Mi disse che era prevista per il novembre. Io accettai, perché in più di un anno pensavo di avere tutto il tempo di fare, per il novembre 2015, un buon lavoro, all’altezza del livello che la Fondazione pretendeva e meritava. Ma che 2015! Il novembre era quello immediatamente successivo! Pochi mesi per mettere in scena un’opera che, se pur non più lunga di un’ora, che fu superata di poco più di una decina di minuti circa, doveva ancora essere pensata, immaginata, con un libretto da scrivere ancora. Tristemente declinai l’invito. Era un peccato, mi disse Biscardi, che io non volessi farle l’opera, anche perché l’argomento scelto era bello: Re Artù! Mi cascò la mandibola. Erano almeno venti anni che pensavo ad un’opera su quel tema: avevo scritto già qualche pagina di un’ipotetica trama e, cosa strana, da poco con i miei amici avevamo prenotato una vacanza in Galles sulle tracce dei luoghi della saga di Artù. Come rifiutare ancora?… Ci demmo tutti dentro ed io feci le nottate per mettere in versi e comporre le parti cantate intervallate da interventi di recitazione su testi di Teresa Petruzzelli e della bravissima regista Marinella Anaclerio, che fece uno spettacolo di grande bellezza e validità teatrale, anche per le bellissime scene ed i meravigliosi costumi del carissimo e bravissimo Tommaso Lagattolla, che fece davvero miracoli. Immodestamente devo dire che fu un gran bel successo ed i bambini per mesi mi chiesero di andare nelle loro scuole a conoscerli ed a parlare loro. E sempre mi cantavano i brani che più a loro erano piaciuti, soprattutto il tema della romanza di Artù. Due anni dopo: ulteriore chiamata d’emergenza! C’era bisogno che io mi incaricassi di comporre un’opera di tutta fretta (si era sotto Natale) e l’opera doveva andare in scena ad aprile, a tempo di record ancora una volta. Ulteriore problema il soggetto era Aladino. Mio terrore!  Nino Rota aveva composto una delle sue più importanti opere, sul libretto del poeta e filosofo Vinci Verginelli, intitolata Aladino e la lampada magica. Un vero capolavoro: un’opera che quando sarà definitivamente e regolarmente messa in scena come merita diverrà una delle opere più apprezzate del novecento non solo italiano. Con che coraggio mettermi a lavorare allo stesso soggetto così magistralmente trattato da Rota e Verginelli? Cercai di deviare su Alì Babà ed i quaranta ladroni, ma Aladino era stata la scelta un po’ indicata da sondaggi discreti presso i fanciulli destinatari e come tale non se ne parlava di sostituzioni. Ancora una volta, anche perché i miei amici più fidati mi dissero di fare il mio Aladino e di non pensare agli aspri confronti col capolavoro di Rota, accettai, anche perché, ancora una volta ero reduce da una vacanza israeliana e il solo ricordo dei mercati del quartiere arabo di Gerusalemme alla porta di Damasco mi risuonava già come una veste musicale a cui ancora una volta decisi di metter mano, nonostante la doppia sfida. Il libretto delle parti recitate era di Marinella Anaclerio, che curò anche la bella regia, miei i versi di tutte le parti cantate, con scene deliziose di Francesco Arrivo e bellissimi costumi di Luigi Spezzacatene. Ed andò bene, anche se dovemmo tagliare molte pagine dell’opera perché esorbitavano i tempi di durata previsti dalla normativa per gli spettacoli per le scuole. Ma nonostante qualche dolorosa amputazione (spero sempre di metter mano ad una versione più ampia e completa che non si fermi come in questo caso alle nozze di Aladino con la principessa, ma rappresenti tutta la favola) ancora una volta andò bene e l’anno successivo la Fondazione mi premiò annunciandomi con un anno abbondante di preavviso che avrebbero voluto da me una terza opera e che ero libero di sceglierne il soggetto. E fu così Il gatto con gli stivali, questa volta per un libretto tutto di mano della cara amica Maria Grazia Pani, che ne curò anche la regia. Questa volta con molto imbarazzo devo dire che fu un trionfo: si dovette fare una ripresa in autunno e ci furono quasi 30.000 spettatori, con un encomio da parte del Ministero alla Fondazione per lo spettacolo più visto dell’anno. A queste tre opere sono molto legato perché il successo presso il pubblico più giovane non solo è davvero appagante, ma soprattutto per l’importanza che ha l’educazione dei piccoli al teatro d’opera: sono loro il pubblico di domani.

L’esperienza della musica dal vivo, qui e ora: cosa accadrà al nostro mondo se davvero rinunceremo ai concerti dal vivo?

Nicola Scardicchio, Maria Grazia Pani, Alvise Casellati

Quando ero ragazzo c’erano musiche che potevamo sentire solo in disco perché da noi non c’erano i mezzi per presentarle: il Sacre du printemps di Stravinsky o le sinfonie di Mahler come la tetralogia wagneriana erano sogni che potevamo realizzare solo in trasferta o comprando i dischi. Del capolavoro stravinskiano ascoltai fino alla consunzione la prestigiosa edizione con la London Symphony Orchestra diretta da Leonard Bernstein di cui acquistai anche la versione discografica dell’integrale mahleriana e la tetralogia per anni fu quella monumentale di Georg Solti o quella mitica di Wilhelm Furtwängler. Quando nel 1985 per l’anno europeo della musica l’orchestra giovanile europea eseguì il Sacre du printemps l’ascolto dal vivo di quella musica straordinaria eclissò ogni versione pur prestigiosa riprodotta meccanicamente. Gli spessori sonori, il colore, le masse sonore, il pathos ritmico erano tutt’altra cosa sotto la bacchetta competente e funzionale di James Judd, certo non deflagrante come la vulcanica personalità di Bernstein e quando nel 1991 andai a Milano a sentire Bernstein dirigere alla Scala il Sacre, Petruchka e la Sinfonia dei Salmi mi resi conto che quelle opere che conoscevo già da tempo dalle incisioni di Bernstein, dal vivo erano una cosa nemmeno paragonabile. Pensare ad un mondo senza ascolto dal vivo di ogni tipo di musica è un’idea solo raccapricciante e disumana.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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