Per prima cosa, quegli occhi. Quegli occhi capaci di aggrapparsi alle cose e alla verità come solo un intellettuale può: con ostinazione e con passione.

Per prima cosa, quegli occhi, gli occhi di Gian Maria Volonté che saettano dallo schermo o dalla carta patinata, occhi che non spiano ma che guardano davvero, fino in fondo. Occhi che restituiscono lo sguardo e restano in ascolto, perché Volonté è un uomo che capisce e che vuole farsi capire.
Ecco, viene tanto difficile parlarne al passato, tanto forte è il richiamo che risuona a La Maddalena, nei giorni del festival “La valigia dell’attore – Il lavoro d’attore. Personaggi e interpreti nel tempo” che dal 2003 ad oggi ne omaggia la presenza.
Eppure per una forma di giustizia e di verità, per non cedere alla retorica, sarà giusto parlarne al passato. Perché il tempo verbale non sminuisce il valore di un attore così talentuoso e dalla consapevolezza etica e politica così coerente e robusta, ma lo libera da qualsiasi abuso che, anche involontariamente, chi scrive potrebbe imporgli nel volerlo ricordare.

Forse in questa edizione più che nelle altre, stando alla testimonianza di chi ha vissuto il Festival fin dagli esordi, tra incontri e proiezioni si avvertiva forte la tensione dell’amore per Volonté in tutti gli artisti intervenuti: da Angela Molina a Renato Carpentieri, da Alessandro Haber a Paola Petri.
Forse perché questi venticinque anni senza Volonté sono davvero tanti: è sufficiente considerare quanto siano di difficile fruizione “A ciascuno il suo” (Elio Petri, 1967) o “Porte aperte” (Gianni Amelio, 1990) per uno spettatore medio di oggi. L’età poco importa, giovane o maturo lo spettatore medio fatica a seguire la narrazione e spesso non riesce a penetrare fino in fondo in livelli interpretativi, rimane superficiale, non coglie o, forse, preferisce non scoprire la metafora di sistemi e sistematiche colpe e omissioni tutte italiane e si rintana in arroganti giustificazioni che non nascondono, però, la fragilità culturale del nostro tempo che non sa storicizzare e pretende di oggettivare assolutizzando l’opinione personale. Un’epoca confusa, insomma, che però a volte sa confondersi con arte, con estrema sicurezza, perché la confusione offre alibi. Ecco, se c’è una cosa che il cinema di Petri e il lavoro di Volonté in particolare sanno fare è quella di smontare il sistema: alibi, moventi, cause e concause, tutto è sul tavolo, a patto di volere sollevare le carte.

Ma è sufficiente notare questa difficoltà per avere tra le mani il cambiamento (non sempre si tratta di miglioria), il cambiamento vivo e a volte un po’ angosciante del cinema italiano per intenzioni e contenuti, per vocazione e per coscienza politica.
Venticinque anni senza più quegli occhi suoi a dirci che italiani siamo o stiamo diventando. Ma forse, questi, sono anche venticinque anni con Gian Maria Volonté se ci basta vederlo strisciare lungo i muri per creare spazio tra sé e il buio quando interpreta Paolo Laurana o se ci basta vederlo sorridere con distacco e stanchezza, quasi con rassegnazione di fronte alla corruzione quando interpreta Vito Di Francesco per capire non solo la portata poetica e politica, ma anche umana in senso assolutamente non convenzionale, anzi, da separare dal biografismo (che oggi più che mai tutti e tutto inquina), del suo lavoro d’attore che riesce in un solo movimento a mostrare il meccanismo complicato che è l’essere quando si muove nel mondo.

Questa, tra un film e un incontro, è la comune, fondamentale testimonianza di tutti gli artisti intervenuti a “La valigia dell’attore”.
Ed è in giovani come Lorenzo Fantastichini, arrivato sull’isola per ritirare il Premio Gian Maria Volonté per il padre Ennio (scomparso il 1° dicembre 2018), che si realizza quel ponte generazionale a cui tiene particolarmente Giovanna Gravina Volonté, direttrice dell’evento con Fabio Canu.
«La cosa che mi interessa di più è questo mistero che c’è dentro ognuno di noi e a me interessa raccontare cosa sia questo mistero. Quando ho cominciato a studiare recitazione dipingevo. Dipingevo volti senza volto, persone che vogliono essere qualcos’altro e racchiudono dentro di sé più personalità e questa intenzione di raccontare il mistero è poi rimasta fisicamente nel lavoro dell’attore» spiega Lorenzo che poi ricorda suo padre in “Porte aperte” e il rapporto sul set con Volonté.
«È un racconto abbastanza noto: Gian Maria non ha parlato durante tutte le riprese a mio padre e ha fatto sì che lui facesse la sua interpretazione mischiando in questo modo finzione e realtà. Mio padre adorava Gian Maria, ha deciso di fare l’attore grazie a “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (Elio Petri 1970, ndr) e ritrovarselo lì che non gli rivolgeva la parola ha creato questo conflitto utile al suo personaggio».

«Volonté e mio padre hanno fatto innamorare di questo mestiere – continua Lorenzo che sta per diplomarsi al Centro Sperimentale di Cinematografia – nel mio percorso mi piacerebbe raccontare una ricerca politica dell’anima, raccontare la semplicità di ognuno di noi che siamo tutti qui con il nostro mistero. Mi piacerebbe raccontare la fragilità di ognuno di noi, il dolore. Il dolore di quest’epoca, le ingiustizie che ci circondano, magari con il surreale o con la commedia all’italiana».