Il titolo di questa recensione è volutamente provocatorio. Le mie ragazze di carta infatti è una commedia intelligente, schietta e gentile e, in modo non troppo paradossale, una riflessione sull’educazione sentimentale della generazione di fine anni Settanta in Italia. Sì, perché il sesso in Italia è ancora una questione morbosa, comunque la si giri: parlando senza retorica vige sempre il famoso italiota “si fa, ma non si dice e se si dice è per questione di potere”.

Luca Lucini, con il compianto Mauro Spinelli, costruisce una sceneggiatura sincopata fondata sulla coralità, ma che definisce in modo esemplare i personaggi in tutta la loro complessità riuscendo non solo a usare parodisticamente il porno per svelare la doppia morale della borghesia trevigiana del 1978, ma anche a fare dell’ottimo humor inglese come ha sottolineato Maya Sansa che nel film interpreta Anna, la madre del giovane protagonista Tiberio (Alvise Marascalchi). Parlando del suo personaggio l’attrice rivela: «Ho pensato a lei come se provenisse proprio da un altro tempo, dagli anni Cinquanta. Si chiama Anna proprio come l’investigatrice della serie che ho girato in estate Sei donne – Il mistero di Leila [in onda su Rai1 a febbraio 2023, n. d. r.], ma qui il dialetto veneto mi ha sostenuto nel cercare una voce più acuta e un carattere diverso. Mi fa pensare che negli anni Settanta in Italia le donne siano scese in piazza da sole, invece in Iran oggi c’è una grande complicità con gli uomini e gli uomini sono a fianco alle donne nelle piazze, mi sembra che le cose stiano cambiando, finalmente. Anna Bottacin ha scelto Primo perché è un uomo gentile, lui la ama perché è una donna forte e molto acuta, anche se non ha potuto studiare. Oggi credo che Anna anche se madre di famiglia avrebbe scelto di rimettersi a studiare, mi piace pensare a questo personaggio così».

Dunque, la trama è un gustoso pretesto: una famiglia lascia la campagna e arriva in città, il figlio quattordicenne deve studiare per diventare ragioniere e diventa amico di Giacomo (Christian Mancin), suo coetaneo, il cui padre è proprietario di un cinema in crisi che si risolleva proprio cambiando target, come si dice oggi, e proponendo film per soli adulti (anche e soprattutto sposati).

Così l’epopea della famiglia Bottacin che passa dal cantare le canzoni degli alpini e godersi il vuoto pieno dei campi a vivere nella perenne competizione della città provinciale e frenetica avviene in un’annata chiave per la Storia d’Italia: il 1978 è l’anno dell’omicidio di Aldo Moro (che Elsa Morante comprese immediatamente essere l’inizio di una nuova barbarie e la fine di un certo modo di fare politica) e l’anno della conquista civile dell’aborto, tutte cose che sono nell’atmosfera, ma non compaiono mai nella narrazione. Ed è giusto così: perché Tiberio e Giacomo sono una coppia di adolescenti archetipica, caratterizzati benissimo, ma sono soprattutto campioni di una gentilezza e delicatezza maschile anche piuttosto inedita. Sono figli di genitori gentili, di madri un po’ apprensive ma capaci di emanciparsi (anche se devono fare tutto da sole), e in particolare Andrea Pennacchi riesce a fare di Primo un personaggio indimenticabile sia perché duetta in modo amabile e lieve con Maya Samsa, sia perché rimanda in modo elegante al Peppone di Gino Cervi con un paio di sguardi, sia perché si porta dietro un immaginario, costituito dal Poiana e dai suoi monologhi che però non risulta ingombrante, ma offre uno spessore culturale a questa interpretazione. L’altro grande duetto di Pennacchi è con Cristiano Caccamo che è una vera rivelazione e ha il ruolo più delicato di tutti: interpreta un giovane, anzi una giovane (per essere corretti e non fare l’errore provinciale e fascista di rifiutare la dignità dell’identità altrui) che vuole cantare e vivere la sua femminilità con tutta la libertà e la grazia che un essere umano deve riservare a sé e agli altri.

In alcuni momenti si potrebbe pensare a Nuovo Cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988) e al fatto che qui la questione della censura viene portata alle sue estreme conseguenze: Salvatore Cascio (Jacques Perrin) deve aspettare l’ultima scena del film per godersi tutti i baci tagliati dalle pellicole che Alfredo (Philippe Noiret), il proiezionista, ha messo da parte per lui, mentre Giacomo e Tiberio si nascondono nelle ultime file del cinema proibito e scoprono che le donne non sono oggetti, soprammobili o bambole gonfiabili, ma creature proprio come loro. E la cosa straordinaria è che nessuno glielo insegna: i due ragazzini lo capiscono da soli che cos’è l’amore, imparando ad ascoltare gli istinti e il corpo e il porno come genere diventa la parodia di sé stesso, serve unicamente a mostrare tutta la pochezza intellettuale e umana degli adulti ipocriti che vivono di una morale doppia e di pettegolezzi e che non hanno sentimenti, ma vivono reprimendo la violenza nel perbenismo quotidiano.
Insomma, ce la ricordiamo Moana e il suo Partito dell’Amore? Ecco, la rivendicazione de Le mie ragazze di carta è questa: cosa e chi è veramente pornografico? Chi il porno lo fa o chi lo guarda e lo critica? Risposta semplice: non avremmo bisogno di una industria del sesso se lo si vivesse con curiosità e gioia e come un fatto naturale (lo è, ricordiamocelo). Lo disse qualcuno questo (abiurando alla sua Trilogia della vita), ma abbiamo ancora bisogno di dircelo oggi e siamo nel 2023.
Meglio tardi che mai? Chissà, intanto bisogna pensare a un fatto: i film sugli adolescenti visti con tanta grazia e resi con tanta onestà intellettuale non sono poi tanti in Italia, né si sa esattamente come si innamorino e come amino i ragazzini di oggi, né che ne pensino del sesso. Del resto oggi tutto sembra essere pornografico, anche il sentimento.
