Addio a Cecilia Mangini: una conversazione inedita con la regista e fotografa scomparsa il 21 gennaio 2021

Scompare il 21 gennaio 2021 Cecilia Mangini, la fotografa e documentarista nata a Mola di Bari (Ba) il 31 luglio 1927. La ricordiamo con l’intervista inedita di Irene Gianeselli del 2018 nella sala proiezioni della Mediateca Regionale Pugliese.

Incontrai Cecilia Mangini l’11 maggio 2018 alla Mediateca Regionale Pugliese e questa conversazione è rimasta inedita fino ad oggi. Sicuramente, ascoltare una donna di novant’anni che ha vissuto il Novecento e ha cercato di affrontarlo e ha ancora voglia di rivedere il suo lavoro e condividerlo è una grande occasione, ma non potei fare a meno di notare quel giorno, con stupore, che gli spettatori presenti alla proiezione si sentivano, specie i più giovani, disorientati. Soli. Mi dissi: corriamo il rischio costante della villeggiatura, tutti, anche noi che siamo immersi nelle cose del mondo, che scriviamo, che ci chiediamo perché succeda una cosa e non il suo contrario, anche noi che facciamo ricerca.

Non fu un caso, pensai questo perché venne proiettato il film La Villeggiatura di Marco Leto (la sceneggiatura era firmata da Del Fra, Leto e Mangini) nel quale il professor Rossini, docente di Storia all’Università di Firenze, si rifiuta di giurare fedeltà al regime fascista e viene esiliato su un’isola dove corre il rischio di rimanere, da buon borghese, un’ospite in una villa, di fatto in vacanza rispetto ai proletari, comunisti e anarchici che sono incarcerati nella rocca a picco sul mare. Ma poi accade che il borghese rinnega la propria borghesia e si riprende quel coraggio che non l’aveva fatto giurare ed evade. Perché «Le rivoluzioni – dirà ad un certo punto – sono sempre guidate da rinnegati».

Il rischio della villeggiatura, dicevo, c’è per tutti. Anche per chi è abituato a mettere in discussione la Storia, i fatti, le molte verità: quelle di comodo e quelle che fanno più fatica ad essere dette perché fanno troppa paura, a tutti (anche a quelli che dovrebbero minare alle basi qualsiasi forma di oscurantismo).

La Mediateca Regionale Pugliese ospitò quell’anno anche una mostra di fotografie della Mangini. Si chiamò Volti del XX secolo e tra i molti volti, insieme a quelli di Alberto Moravia o di Elsa Morante e di tanti altri tra cui il discusso (oggi) Indro Montanelli, c’era immancabilmente quello di Pier Paolo Pasolini ritratto intensamente nella sua mitezza disarmante. Ci guardavano quei volti e ci ricordavano che loro, Moravia, Morante e soprattutto Pasolini, non sono mai stati intellettuali in villeggiatura.

Cecilia Mangini ricordo che ad un certo punto si confrontò anche con un ragazzo triste e disorientato che a fine proiezione le chiese “Cosa deve fare un giovane oggi?”. E la Mangini risposte soltanto: “bisogna studiare”.

Che significato ha per lei la parola rivoluzione?

Penso che sia una delle parole consumate, ridotte a una trama leggera, bucata: un rammendo. Giorni fa sono stata intervistata e ho tirato fuori questo termine “ideologia” e l’intervistatore mi ha detto “è una parola che non esiste più, è legata a un’epoca per cui veramente ti sei collocata indietro di cinquant’anni”. Esiste da parte mia il problema di essere sicuramente a sinistra, diversamente da mio marito Lino Del Fra che era un marxista particolare perché addirittura lui di definiva un trotzkista, mentre Marco Leto era un socialista ferreo. Io mi considero un’anarchica perché ritengo che il potere è quello che ci obbliga a fare certe cose, mentre se il potere è dissolto (l’anarchia vuole dissolvere il potere) ecco diventiamo responsabili di noi stessi e liberi da qualsiasi imposizione. Perciò l’ideologia (termine vecchio) e il potere mi danno fastidio perché gli anarchici (che vengono considerati personaggi di un certo tipo un po’ fra il romantico e anche un po’ folclorici e non è vero, non sono quelli di Addio Lugano bella, la famigerata canzone degli anarchici) hanno qualcosa di talmente interiorizzato nell’abolizione del potere che secondo me forse bisognerebbe ricominciare a pensarci a questa anarchia. Forse è una cosa obsoleta, vecchia, come sono io perché siamo molto legati al periodo sia della giovinezza, sia dei famigerati quarant’anni che una volta erano quelli della grande consapevolezza, ci si sentiva più agguerriti… mentre adesso a quarant’anni si comincia a uscire dall’adolescenza, è vero… anche le età hanno cambiato dimensione.

Oggi siamo liberi?

No. Non lo siamo perché visto che il potere è stato sì logorato ma non è stato gettato via, e quindi il potere diventa questa cosa logora… se si guarda a Renzi, Salvini…. per cui la gente ormai sente che non gli serve, neanche per combatterlo, è un qualcosa che è proprio diventato un rammendo.

Che cosa tutti dovremmo fare?

Diventare anarchici, logorare il potere e gettarlo via e assumersi le proprie responsabilità, avere il senso di quello che è la vita e raggiungere una vera libertà, non la libertà della democrazia… è un’altra libertà.

È importantissimo il rapporto con la Storia in un film come La Villeggiatura, però oggi si tenta di fare revisionismo di continuo.

Avendo avuto un’esperienza sia di scrivere la sceneggiatura di questo film (La villeggiatura 1973, ndr) che di sceneggiare e dirigere All’armi siam fascisti (1962, ndr) io sono arrivata alla conclusione che chi ignora la propria Storia diventa preda facile inconsapevole e contenta di qualsiasi dittatura gli venga propinata, di qualsiasi mancanza di libertà gli venga comminata. È la storia che ci insegna a essere non estranei a noi stessi, la storia siamo noi… ti ricordi, chi lo dice? (De Gregori, ndr). La Storia non può ignorare il fascismo, il nazismo, quello che è stato il ’68, il’78, la rivolta delle Brigate Rosse… ignorare tutto questo ci espone a pericoli incredibili perché è come non essere vaccinati, per cui qualsiasi microbo può attaccarci e rischiamo di morire. Il professor Rossini, il protagonista del film proiettato oggi, reagisce perché non era vaccinato… si deve auto vaccinare però non è facile farlo, gli riesce perché ha una grande cultura storica. Quello che mi preoccupa è che la gente non si interessa di Storia, si interessa dell’oggi, appena appena dello ieri, ma non ha impulsi, non ha mete, non si preoccupa di arrivare a comprendere quello che succede, perché tanto ci sono gli altri che ci pensano… questo è molto preoccupante.

© Gianni Cataldi

A proposito del realismo: il cinema di oggi è in grado di affrontare il realismo?

Nei documentari sì: io vedo questi ragazzi giovani che hanno cominciato a girare cercando di rispondere ai grandi interrogativi del presente e trovo che ci sono dei documentari di una bellezza incredibile e soprattutto in grado di mobilitare le persone a voler capire la Storia, a tirarsi fuori dall’ignoranza. Per esempio Buongiorno Taranto di Pisanelli è un documentario che fa riflettere, è quasi una costrizione a capire realisticamente che cosa sta succedendo là…

Lei crede esista veramente un progetto culturale in Italia, oggi?

Oggi c’è una pigrizia? Si pensa che la cultura serve a poco? Non lo so, non so dare una risposta, sarei un genio, o per lo meno avrei qualcosa in comune con i grandi critici e ai grandi storici, io non pretendo di essere così, per questo mi interessa la Storia perché… lo dicono i film che ho fatto. Forse mi è servito anche a questo girare: è stato un mezzo? Mi rincrescerebbe perché limiterei l’importanza di quella che è la Storia. Storicamente siamo determinati in un certo modo, storicamente siamo obbligati a crescere in un certo modo, storicamente siamo pronti a fare certe cose e a non farne certe altre quindi da questo punto di vista la Storia è… se me lo spieghi tu mi fai un piacere, secondo te cos’è?

Per me la Storia è tutto. Se non si studia a fondo, si corre il rischio di svilire ogni cosa. E questo non significa che la Storia è il niente, si fa questo giochetto ogni tanto: si dice tutto per dire niente. Corriamo sempre il rischio della villeggiatura.

Sì, è vero. Ecco, direi che la Storia è proprio tutto!

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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