Vincenzo Ferrera, attore di teatro, cinema e televisione nasce a Palermo nel 1973. Nel suo percorso incontra diverse Case Teatrali. La sua ultima tournée si è conclusa lo scorso marzo, con l’Enrico IV di Pirandello prodotto da Marche Teatro e adattato, diretto e interpretato da Carlo Cecchi con il quale lavora da ventiquattro anni. Un viaggio da Shakespeare a Molière, Čechov, Pirandello e Morante, Stoppard e Kelly. Recentemente è stato al cinema con Momenti di trascurabile felicità di cui dice «È stato un piacere ed onore lavorare con Daniele Luchetti, per me è tra gli esponenti della regia d’autore insieme a Moretti, Virzì… è stata un’esperienza meravigliosa fare cinema con lui, nel film sono un amico del protagonista interpretato da Pif». In questa conversazione Vincenzo Ferrera racconta dell’ultimo spettacolo e del mestiere di attore oggi.
Si è conclusa da poco per te l’ultima tournée con Carlo Cecchi e con il suo Enrico IV di Pirandello.

Sì, ed è il mio ventiquattresimo anno di lavoro con Carlo. Come ogni esperienza con lui, anche questa è stata unica, ovviamente. Con lui si deve lavorare sull’improvvisazione, perché ogni volta in scena è una rappresentazione nuova. L’Enrico IV riflette quello che è Carlo, insomma proprio più Enrico IV di lui non ce n’è in Italia e nel mondo. Questo spettacolo riflette anche quella che è stata la sua scelta di vita: darsi al teatro, nel bene e nel male, avere questo mal di vivere un giorno sì e un giorno no. Il mio personaggio sta al margine del dramma ma è molto efficace: questa prima scena che avete visto in cui noi facciamo un provino a questo ragazzo che deve entrare nel “gioco” del palazzo è nato da improvvisazione, abbiamo preso le improvvisazioni fatte durante le prove con Carlo e le abbiamo messe sul testo. Sì, ogni sera in scena accade qualcosa di nuovo.
Spesso Cecchi dice che per essere un attore devi correre il rischio di non esserlo.
Sì, quando lui dice questo si riferisce al fatto che per un personaggio bisogna partire sempre da stessi e poi continuare, mai “fingere” (ed è quello che io ho imparato e spesso insegno quando faccio pochi laboratori per le persone che si vogliono avvicinare al Teatro). Questo partire da se stessi è un lavoro che si rifà a Peter Brook, anche a Stanislavskij, immaginando le circostanze e il contesto del personaggio e partendo dai propri ricordi, partendo dalle proprie esperienze gioiose e dolorose. Si parte da lì, dalla propria esperienza di vita per andare avanti.
Avevi già incontrato Enrico IV, con Glauco Mauri.
Nel ‘99. Era ovviamente uno spettacolo molto più tradizionale, molto più lungo, completamente diverso da quello di Cecchi e ho un grande ricordo di Glauco Mauri, davvero un gran signore.
Ventiquattro anni di teatro sono un “fatto”. Come è cominciata?
Dopo il Liceo, perché mi piaceva organizzare spettacoli in cui emergere e mettermi in mostra, avere questo contatto con le persone che mi ascoltavano. Ho iniziato con la Scuola al Teatro Biondo di Palermo e con un gruppo teatrale molto importante dell’epoca, sin degli anni Settanta, il Gruppo della Rocca. Poi ho incontrato Carlo Cecchi. Tenne nel 1996 un laboratorio a Palermo in una chiesa sconsacrata e mi prese insieme ad una trentina di altri allievi. Scelse solo alcuni di noi e il primo spettacolo che ho fatto con lui è stato l’Amleto di Shakespeare. Sì, ventiquattro anni sono una cosa importante: ne avevo ventidue quando ho incontrato Carlo, se penso che ora ne ho quarantasei… fa veramente impressione pensare una cosa del genere e guardarsi indietro. Carlo lo avevo visto in scena, mi aveva molto colpito.
Con quale spettacolo?

Finale di partita, un anno prima di conoscerlo lo vidi proprio al Teatro Biondo di Palermo e mi “scandalizzò” questo suo modo di recitare abbattendo spesse volte la quarta parete, certe volte arrabbiandosi col pubblico. Per me era una cosa incredibile che riuscisse a rientrare nel personaggio dopo avere fatto un cazziatone allo spettatore della II fila perché aveva tossito troppo, era incredibile. Sicuramente lui è l’ultimo di quelli che riescono ad avere un dialogo col pubblico, nel bene e nel male. Spesso il pubblico viene a vedere gli spettacoli di Carlo per scoprire “Cosa succederà stasera di diverso?”. Il pubblico del resto è fondamentale per un attore. Per me tutto è iniziato dal primo applauso che ho ricevuto, mi sono detto “Che bello avere un applauso per qualcosa che fai”.
Nell’Enrico IV c’è anche una forte ribellione al fascismo. Si tratta di una ribellione intellettuale, ma anche attoriale. Il Teatro secondo te riesce ad opporsi fino in fondo a qualsiasi meccanismo reazionario? Può essere ancora un “luogo-altrove” dove la libertà è fatta salva?
Sì, assolutamente può essere considerato un luogo altrove, anzi lo è. Rimane l’ultimo luogo in cui una comunità si riunisce e quindi c’è un rapporto e uno scambio fra il pubblico e l’attore, in quel momento nasce qualcosa e in quel momento morirà. Probabilmente andare a Teatro per molti sarebbe assolutamente salutare. Ora non dico che risolverebbe i problemi della terra… però diciamo che rimane veramente l’ultima riunione in cui le persone scambiano qualcosa di importante.
Un aspetto molto interessante del lavoro di Cecchi è la sua capacità di trasmettere ai giovani sia la sua passione che il suo lavoro. Anche in questa Compagnia ci sono molti giovani, che cosa rappresenta questa grande possibilità di scambio generazionale per te?
Avere a che fare coi ragazzi che hanno la mia età di quando ho iniziato è davvero bello… li guardi, li osservi e vedi come cercano di affrontare quello che comunque (paradossalmente) è anche un momento tremendo per loro. Non è facile lavorare con Carlo: può essere molte volte rivoluzionario nella tua testa ma anche tremendo e distruttivo. Lui riesce subito a selezionare quelli che hanno carattere… ci sono quelli che non ce l’hanno e quelli che ce la faranno… insomma è una selezione anche tremenda se vuoi, ma se ce la fai ti porterà un grande risultato negli anni a venire. Incontrarlo così ti porterà sicuramente ad essere un Attore, con la “a” maiuscola.
Come è possibile insegnare davvero il mestiere del Teatro, si può?

Non lo so se è possibile insegnare il mestiere… è una domanda a cui non so rispondere. È possibile insegnare a “giocare” perché tutto questo è un gioco, il Teatro è un gioco. Purtroppo in italiano si dice “recitare” perché la nostra è una lingua, come dice Carlo, un po’ strana in questo. Ma recitare in inglese si dice “play”, in francese si dice “jouer”: per tutti è un gioco. Si cerca di provare ad insegnare a ritornare a giocare, a ritornare un po’ bambini. Quando riesci a insegnare questo, la gente ovviamente si lascia andare… ed è una delle cose più belle che si possano insegnare.
Torniamo a Shakespeare, nel tuo percorso è un autore che hai incontrato spesso.
Di Shakespeare quello che mi colpisce è il fatto che si pensi in genere che sia un autore di “mattoni” e invece è il precursore di tutti quelli che sono i grandi plot, le grandi fiction moderne. È un autore talmente “contemporaneo”… se uno leggesse in un certo modo l’Amleto lo troverebbe di una leggerezza insostenibile.
Restando nella drammaturgia inglese: che incontro è stato quello con Dennis Kelly?
Dennis Kelly è stato un bellissimo incontro. Poco prima che diventasse uno fra i più famosi sceneggiatori mondiali, abbiamo messo in scena “After the end” insieme a quella che sarebbe diventata un giorno sua moglie, Monica Nappo. Lui fece una supervisione allo spettacolo e poi mi chiamò per fare una piccola parte in una fiction inglese, Utopia, che ha avuto un clamoroso successo.
Hai incontrato diverse Case Teatrali e a volte sei stato tu stesso regista. Che cos’è per te la regia?

Non ho un modo di pensare alla regia, non mi ritengo un regista. Sono sempre stato un interprete ma in tutti questi anni ho potuto apprezzare quanto un modo di fare regia sia diverso dall’altro così come il modo di approcciare gli attori. Cambia, da Cecchi a Servillo, da Martone ad Andò. Con Teatri Uniti ho fatto diversi spettacoli e sicuramente l’esperienza più formativa è stata “Sabato Domenica e Lunedì” di Eduardo De Filippo, quattro anni in giro per l’Italia con la regia di Toni Servillo. Con Roberto Andò ci conosciamo da tantissimi anni perché avevo partecipato a due suoi film (Il Manoscritto del Principe e Viaggio segreto, ndr) e quindi mi sono trovato bene quando nel 2017 ho lavorato con lui nuovamente per “Locandiera B&B” scritto da Edoardo Erba. In questo spettacolo ho avuto accanto una meravigliosa creatura che è Laura Morante, da perderci la testa sia per l’attrice che per la donna.
Che idea hai della situazione del Teatro oggi in Italia?
Spero sempre che i giovani possano “vedere” più Teatro e venire a Teatro. La situazione oggi è drammatica, giusto per fare un esempio, è sempre più difficile andare in tournée. Le nuove norme prevedono, a quanto pare, che le produzioni degli Stabili devono essere fatte con attori presi dal luogo e si prediligono più le produzioni che non si spostano. Così la tournée viene penalizzata: una volta si girava quei tre/quattro mesi, adesso è molto difficile farlo. Questo cambia molto il processo produttivo e artistico.
E la tua Palermo?
Beh… quando stai fuori l’ami di più, se ci stai la odi. Succede sempre così, però, per tutti. A Palermo per me sono cominciati molti progetti, come “A noi ci piace vintage”. Nel 2006 con il percussionista Dario Sulis abbiamo riunito un gruppo di amici che suonano insieme, da dodici anni riusciamo a riempire i teatri. All’epoca eravamo paladini del fatto che ci piacevano le canzoni di un tempo, vintage, appunto. Poi mi capita molto spesso di recitare in film o fiction in cui la cadenza e il dialetto siciliano sono predominanti. Penso a “Il capo dei capi” nel quale interpretavo il commissario Giuseppe Montana. “La mossa del cavallo” di Camilleri è stata una divertentissima interpretazione di un avvocato cialtrone, insieme a Tavarelli ci siamo divertiti a costruirlo in questa Vigata “di una volta”.