Federica Fracassi: Erodiàs di Giovanni Testori, il corpo della parola

In attesa del suo contributo in Voix nel quale racconta La Monaca di Monza di Testori prossimo al debutto per la stagione 2020, vi presentiamo Federica Fracassi con alcuni articoli dedicati ad altrettanti momenti del suo percorso di questi ultimi anni. Incontrate con noi l’attrice votata alle scritture più visionarie, feroci, poetiche che fin dagli esordi ha disegnato un percorso indipendente nel panorama del teatro italiano di ricerca.

 “Intus! Erodiade! Agno/ inerte (Iagus dà dono!)/ Erotoegnia ad nidus!/Urea odi (odit: negas!)/ Ora adusto de ingenî/sudai orgoni (e Dante)/ di sangue e arti dono./Ode donai, nuga serti! Naro di guisa de note…” – Umberto Eco, Sanguineti, Secondo diario minimo, Bompiani, 1992

In questa Conversazione Federica Fracassi racconta Erodiàs di Giovanni Testori per la regia di Renzo Martinelli, una produzione Teatro i. Un monologo che, per allestimento ed interpretazione, è una delle forme più alte di teatro della crudeltà nel panorama teatrale contemporaneo. Elegante, mai volgare, capace di smontare la quarta parete borghese con la sua dolcezza e grazia che si scontrano con la violenza e la brutalità di un personaggio complesso e meravigliosamente contraddittorio, Federica Fracassi con estrema coerenza interpretativa smonta lo stereotipo dell’attrice in vendita ed allo stesso tempo costruisce una figura di donna che rifiuta l’archetipo disonorante e ferocemente distruttivo dell’oggetto esposto alle politiche degli uomini e alle costrizioni sociali. Ancora una volta, Federica Fracassi dimostra che il teatro è un atto d’amore e non l’inchinarsi di un manichino per riverire e fare accomodare pubblico o critica.

Erodiàs è il secondo di tre monologhi scritti da Testori all’inizio degli anni Novanta, poco prima della morte. Sono tre lamenti funebri (Tre lai): il primo è quello di Cleopatra sul corpo di Antonio (Cleopatràs), il secondo è proprio quello di Erodiade per Giovanni Battista (Erodiàs), il terzo è quello della Madonna sul Cristo (Mater Strangosciàs). Qual è stato il percorso che ti ha portato a mettere in scena proprio il monologo Erodiàs?

Parto da lontano per risponderti, perché credo sia importante dare conto della genesi, anche concreta, di questo lavoro. Da anni desideravo essere interprete testoriana. Per un’attrice della mia generazione l’incontro scenico con Testori è avvenuto tramite la visione dei lavori di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi. I Tre Lai, che avevo visto incarnati da Sandro e in generale tutto il suo attraversamento della scrittura di Testori, avevano lasciato in me una forte impressione teatrale, come si trattasse di un’esperienza creativa imprescindibile, di un modello, che, se da un lato si era guadagnato lo statuto di “esempio”, dall’altro era, proprio per questa stessa ragione, inimitabile, unico e quindi suggeriva ai futuri attori, che avessero voluto vivere quel banco di prova, di prenderne le distanze per trovare il “proprio modo”. Com’era possibile attraversare e reinventare Testori in sua assenza, come del resto molti miei colleghi e colleghe coraggiosamente e con ottimi risultati provavano a fare? E com’era possibile fare della lingua di Testori qualcosa di “ancora una volta” teatralmente memorabile dopo attori come Franco Parenti, Franco Branciaroli, Adriana Innocenti…che avevano invece dato vita magistrale al verbo testoriano a fianco dell’autore? Condividevo questi pensieri con pochi amati registi e c’erano progetti e idee (che non nomino per scaramanzia!), ma che sogno di realizzare in un prossimo futuro. In questo contesto desiderante, ma ancora produttivamente nebuloso, i Tre Lai e in particolare Erodiàs sono improvvisamente apparsi come un’occasione concreta e immediatamente realizzabile con Teatro i e con la regia di Renzo Martinelli con cui collaboro oramai da vent’anni, uno degli artisti con cui condivido la passione per l’autore di Novate. È stato un incastro magico in cui in una settimana tutto va come deve e hai garantita la possibilità produttiva e di visibilità di un lavoro. Ha collaborato a questo percorso la rassegna Stanze- Teatri d’appartamento di Alberica Archinto e Rossella Tansini, che ci ha fatto debuttare in estate con Tre Lai- Balbettii d’amore o Trislaiada, un avvicinamento a Erodiàs tramite l’intero trittico, che è poi diventato uno spettacolo a tutto tondo che il FAI ha voluto all’Albergo Diurno di Piazza Oberdan a Milano: un evento memorabile che ha messo insieme tante energie culturali della città. Questo studio mi ha permesso di lavorare su tutte e tre le regine, di entrare nel respiro dell’intera opera per capire la diversa posizione e il differente linguaggio utilizzato per i tre personaggi e di mettermi in bocca queste tre voci, seppur a frammenti. L’idea scenica è molto semplice. Una donna, un’attrice torna a casa dopo uno spettacolo, triste, sola, in preda a una profonda mancanza d’amore e aprire il libro di Testori è l’occasione per dar voce al suo lamento, attraversando il laiare delle tre regine. Sono accompagnata da musiche anni Sessanta che vanno da Ornella Vanoni a Mina, canzoni che, abbiamo poi avuto conferma, erano tra le preferite di Giovanni Testori. C’è stato un apporto fondamentale di Alain Toubas e Pino Sonzogno che gestiscono i diritti di Testori; dell’Associazione Testori e di Giuseppe Frangi che ci hanno seguito in tutto il cammino di studio dell’opera, mettendo a disposizione materiali, divulgando le iniziative collaterali e diventando nostri partners in un percorso di incontri testoriani En corps… Testori, ancora con Giovanni Agosti, Franco Branciaroli, Gianfranco De Bosio, Luca Doninelli, Fabio Francione, Sandro Lombardi e Andrée Ruth Shammah, un percorso che ci ha portati a Erodiàs, che fin dall’inizio era la nostra destinazione. Testori ha scritto tre Erodiadi, due in italiano ed Erodiàs, appunto, in idioletto e in questo senso ci è sempre piaciuto pensarlo come un novello Flaubert pronunciare la frase: “Erodiade c’est moi!”, identificandosi nella tensione e nella struggenza della regina ebrea. Come critico d’arte poi amava le Erodiadi dipinte, quelle di Francesco Cairo su tutte. Similmente a lui non abbiamo mai avuto dubbi sulla nostra predilezione per questa figura tragica. Erodiàs è la regina del purgatorio, è, come noi tutti occidentali oggi, in un eterno limbo, privata di punti di riferimento ideologici o religiosi. Non può cancellare l’atto compiuto, la decollazione del Battista, che la perseguita. Non può andare avanti, ma neppure indietro. Aspetta. Nella nostra visione, di sicuro più laica di quella di Giovanni Testori, quest’attesa può rivelarsi eterna.

Testori è artefice di un plurilinguismo magmatico, come hai lavorato sulla sua parola?

Avevo chiaro che amavo Testori visceralmente per la sua scomodità umana e artistica, ma anche e alla stessa temperatura per la sua lingua, e soprattutto per quella che è la sua invenzione linguistica che dalla Trilogia degli Scarrozzanti in poi si distanzia dall’italiano per abbracciare un originale idioletto, per inerpicarsi in un impasto verbale che ha come radice il dialetto brianzolo, ma poi si spinge a neologismi e li ibrida con francesismi, echi di Spagna, prefissi e suffissi latini. Era quella la lingua che volevo provare a masticare, approfittando delle mie origini lombarde (sono nata a Cornaredo e Novate non è così distante…), ma al contempo imbrigliandole musicalmente. Sia io che Renzo Martinelli amiamo una forma molto distante da un generico “realismo” che comunque in teatro, che è il luogo della finzione per eccellenza, non esiste e rischia anzi spesso, quando lo si persegue, di svilirsi ulteriormente in derive spontaneistiche. Pur avendo a disposizione una lingua carnale e viscerale come quella testoriana, abbiamo lavorato a mantenerne intatta la levatura sonora e formale. Questo ha significato per me in certi passaggi anche provare a raffreddarla, a renderla sinfonia, tenendo le briglie strette alla strada più facile legata alle mie radici, che l’avrebbe portata verso una sonorità più popolare. Ho cercato di lavorare sulle singole parole, di spaccare il verso evitando la cantilena e di dare accenti e differenze molto nette di volumi e di toni. Non c’è nulla di sfumato in questo spettacolo né nella gestualità né nel dire. Ci sono cambi secchi, improvvise accelerazioni, stop, ripartenze. C’è il momento aulico accanto all’urlo e alla bestemmia. Inoltre Renzo ha diretto Fabio Cinicola, il nostro sound designer, nella ricerca di una voce parallela alla mia, un tappeto sonoro, che è un’ulteriore scrittura drammaturgica nello spettacolo e che fa si che si vada oltre il monologo. La mia stessa voce in alcuni passaggi è moltiplicata in rimandi ossessivi. Ho l’impressione che questo lavoro stratificato esalti per paradosso la nudità e lo scandalo della parola testoriana. È in un certo senso un tradimento di Testori che non può compiacere tutti, perché intreccia alla sua poesia il nostro mondo, ma, come dicevo all’inizio, è il tentativo di dire Testori oggi senza rifarlo imitando stilemi passati. Emilio Isgrò, che ha visto lo spettacolo, ci ha fatto un complimento bellissimo dicendo che di certo a Testori quest’esito che “va oltre” sarebbe molto piaciuto. 

Riguardo il rapporto tra carne e parola. Sembra quasi che tutto lo spettacolo sia un eterno parto, come se il seme maturasse nel personaggio-vuoto (o sottovuoto come lo definite nelle note di regia) per poi esplodere nel grembo del significato. Il simbolo che partorisce se stesso e la realtà di cui è proiezione. Come hai lavorato su questo aspetto così materico?

Come ha giustamente detto Francesca Garolla, che è Dramaturg dello spettacolo, pur utilizzando la stessa lingua Testori è molto più criptico e complesso sia tematicamente che lessicalmente all’inizio del testo e porta invece il verbo a una grande semplicità nella parte finale. Questo percorso che va dalla meccanicità alla carne, dalla testa al cuore, all’incarnazione è la direzione su cui abbiamo lavorato tutti. Ogni traccia dello spettacolo, per parlare in termini fonici, parte da una frammentarietà meccanica, dalla materia fatta a brani così come a brani è fatto il corpo del Battista, una parcellizzazione mortifera e ossessiva che si risolve in organicità, in corpo e in vita. Il mio lavoro d’attrice ha avuto questa linea di condotta. All’inizio sono io stessa a inglobare l’atto di decapitazione del Battista, a tal punto che la mia e la sua testa mozzata con la barba sono la stessa cosa. In scena sono anche una sorta di ologramma barocco che ripete frasi già dette mille volte, che rivive momenti vissuti mille volte. Una testa mozza su un sudario insanguinato tenuta tra le mani da un manichino a cui manca a sua volta la testa. Un delirio psicotico. Evado da questa prigione come da una matrioska, ma ho una gonna gabbia che continua a limitarmi e mi trovo dietro (o davanti?) una vetrina che mi divide dagli spettatori. Sottovuoto ancora recito, narro. I miei gesti sono forzati, fuori sincro, goffi, talvolta grotteschi. Il corpo inizia a liberarsi nel racconto di Salomè, piccolo manichino di legno rosa senza testa, che però nel suo apparire rende me più umana, più presente nel rievocare l’omicidio, la mia bestemmia e la mia maledizione. E finalmente, compiuto l’atto, sfondo quello spazio sacro e, inerme, entro nella zona del pubblico per condividere, per fare comunione attraverso un vero e proprio monologo interiore. Sono priva di orpelli a quel punto, disarmata, sola. Lì il verbo si fa carne. Dio continua a essere distante, ma è Erodiàs a essersi incarnata, a offrirsi nuda all’altro, agli altri.

Come avete lavorato rispetto alla scenografia?

La scena come il suono è un linguaggio fondamentale del nostro lavoro. La scena non esiste dice Renzo, perché non esiste la scenografia, ma un luogo da edificare perché l’attore ci possa vivere per attraversare coerentemente la sua storia. La scena dunque nasce magari da una suggestione legata al periodo prima delle prove, quando si è ancora a tavolino con la Dramaturg, ma poi prende corpo nei primi giorni di lavoro. Della nostra scena in principio c’era una riga di separazione tra me e il pubblico, che spesso ritorna nel nostro lavoro, in quell’ossessivo dare allo spettatore una prospettiva ben precisa all’interno dello spettacolo, una distanza e un posto, anche separato da ciò che accade in cui sia conscio del suo ruolo. Non a caso questa linea si è trasformata in una superficie trasparente dove il pubblico può riflettersi, una vetrina con una scritta rovesciata che porta lo spettatore a chiedersi: “Io sono in vetrina? O lo è Erodiàs?” In questo spettacolo ci sono pochi oggetti, ma ognuno di loro ha un senso molto chiaro e una vita bene precisa. Sembrano molti segni, ma di fatto sono pochi e usati fino in fondo. Anche il costume che regge la mia testa mozzata, realizzato da Cesare Moriggi, intercetta un’esigenza drammaturgica emersa nelle prove, è un vero e proprio pannello scenico, è sudario, è molto più di una semplice veste. Così come le luci di Mattia De Pace che dialogano con me in ogni momento. Siamo insomma, come ci definiscono, una rock band, che crea il lavoro finito da un intreccio improvvisativo e di confronto continuo, ognuno a partire dal suo linguaggio.

Testori permette di fare una riflessione sul teatro in sé? Scriveva di volere rifiutare la parola come menzogna: “menzogna che è servita e serve per usare la carne; per colpirla, crivellarla e stenderla, assassinata, su una delle strade che avevamo costruito per il nostro bene e per la nostra vita”.

 © Enrico Fedrigoli

Il teatro è corpo. Prima è corpo e silenzio. Poi è anche voce e musica, che è a sua volta corpo. E solo in qualche caso è parola. Certo, detto così, è un paradosso, è il paradosso di un’attrice che da anni fa soprattutto quello che viene definito teatro di parola, che ama gli autori, che ben ricorda che un tempo ci furono Eschilo, Sofocle e Euripide, che crede che la parola ponga questioni. Penso però che Testori volesse dirci altro. Quello della parola è un livello del teatro, che benché centrale, arriva dopo. La verità che per prima si dà come presenza sul palco e nella vita è lo scandalo del corpo, che non è mai perfetto perché è troppo umano, non è mai quello di un dio. Il corpo è violento perché è lì, da vedere, che si offre, che non mente, con la sua caducità, con la sua finitezza, con il suo sovrabbondare, esuberare. Il corpo è politico. Mi fa sempre impressione che nell’Eucarestia venga offerto in pasto, letteralmente, “il corpo di Cristo”. Questo dio incarnato, questo dio che si è fatto uomo, è un vero scandalo come lo è un attore in scena, mi si permetta questo paragone blasfemo, che si offre allo sguardo talvolta anche oscenamente. La parola si può costruire, con la parola si può mentire. La parola è filosofia, è retorica. Il corpo è. Io amo le parole e le parole m’innamorano quindi per me è molto duro dover ammettere che la parola è anche velo, nascondimento, arringa dell’imbonitore, oppio dei popoli. Si ha talvolta e raramente la fortuna di incontrare una parola incandescente, che scardina e che ferisce. La parola poetica di solito ha questa grazia. Testori è un fulgido esempio di lingua materica di carne e sangue, ma credo che abbia raggiunto queste altezze proprio in virtù della sua dolorosa consapevolezza dei limiti del verbo.

La voce di Testori è il lamento interiore di Milano. Come entra Milano in questo spettacolo?

 © Enrico Fedrigoli

Questo testo, a parte l’eco linguistica di cui abbiamo già detto, non trabocca di riferimenti espliciti che riguardano Milano: partendo dal lamento di una regina del passato, lo eleva a lamento universale e quando dà suggestioni geografiche che mescolano le carte temporali e locali le situa in Brianza, sul lago del Segrino, a Canzo, ad Asso, strappandoci un sorriso per quel mondo di provincia fatto ancora di relazioni personali e di aneddoti pittoreschi che “Giovanni Testori da Novate” ben conosceva. Milano è di sicuro nella mia carne, lo è la sua parte oscura, lo spettro di una città che sento mia, ma che può diventare labirinto, dedalo in cui smarrirsi. Nell’ultima parte dello spettacolo parlo “dei orridi del Lambro” e della tentazione di Erodiàs di uccidersi, buttandosi nel fiume. Quella tentazione è intrisa di tutta la solitudine a cui Milano, città dai mille appuntamenti e dalle mille risorse, può condannarti. E penso che anche per Testori, che ne ha parlato in svariate opere, Milano fosse un ventre, un limbo nebbioso, un purgatorio, che è poi esattamente il luogo di Erodiàs. Quindi Milano c’è in questo spettacolo, ma trasfigurata in simbolo. Credo sia curioso sottolineare che la prossima opera di Testori che Renzo Martinelli affronterà nel maggio 2017 si chiama invece I segreti di Milano e parla di un’apocalisse che ha come protagonista e cuore pulsante della narrazione proprio la città.

«T’ho amato con pietà/ con furia T’ho adorato./ T’ho violato, sconciato,/  bestemmiato.//  Tutto puoi dire di me/  tranne che T’ho evitato» scriveva Testori, e di fatti i suoi personaggi non si risparmiano. Che donna è questa Erodiade che si fa anche uomo e pietra, velluto, silenzio e grido?

Erodiàs è in bilico tra due mondi e due religioni e per questo è privata di punti di riferimento. Il suo Dio è un Dio “intatto e lontanissimo”, che non la giudica, che non entra in contatto con i suoi desideri e la sua vita, che non s’incarna. Erodiàs però improvvisamente s’innamora di un profeta che promettendole un Dio incarnato al contempo e paradossalmente sottrae il proprio corpo al desiderio della donna, si nega. Il Battista parla di un Dio che non è ancora giunto, un Dio che promette la resurrezione. Ed Erodiàs non può che incagliarsi nel mezzo del cammino, tra il corpo e lo spirito, in un gorgo desiderante e ateo, in un cielo ormai privato di stelle verso cui puntare lo sguardo. È una figura massimamente contemporanea in questo suo abitare un limbo da cui sembra impossibile uscire. Chiede alla figlia Salomè di andare a letto con Erode. Le cede il talamo nuziale, il suo posto di regina, per avere in cambio la testa del Battista. Forse avendo un pezzo del suo corpo, crede di poterlo inglobare, controllare, leccare e possedere, ma l’oggetto a quel punto, proprio come dice Testori, è solo una testa di cartapesta e non un soggetto autonomo, vivo e quindi amabile e quell’atto condanna la regina a un eterno racconto, a un’ossessiva rivisitazione della scena. La tragicità di questa donna, la sua violenza, la sua irrisoluzione ci hanno attratto irrimediabilmente.

Teatro e violenza. Attrice e pubblico. In che rapporti sono questi elementi in questo spettacolo.

© Laila Pozzo

Alcuni spettatori sono stati colpiti dalla violenza di questa figura femminile, quasi urtati. Ne hanno visto la sete di potere, di controllo, l’imitazione di un modo maschile di guardare il mondo. Di fatto Erodiàs è violenta, è violento tutto ciò che la riguarda, ma proprio per questo è così femmina e ha così a che fare con il teatro e in particolare con il mio teatro. Da anni senza esserne sempre così conscia, porto il femminile sulla scena. Attraverso il teatro incontro differenti declinazioni del femminile. Sono donne, le mie, di solito piene di vita, esuberanti, mai algide, ma limitate, violate, oltraggiate che in qualche modo lottano come belve, ma che difficilmente riescono a vincere. C’è sempre fragilità in loro sotto scorze a volte dure e soprattutto c’è sempre lotta strenua con un potere precostituito che vorrebbe ordinarle, etichettarle. Non sono mai donne rassegnate. A volte si fingono bambole, si fingono ciò che si desidererebbe da loro, ma non ce la fanno. Provano. Provano a uscire da gabbie mentali o fisiche. Provano facendosi violenza, o essendo violente, o subendo violenza a non arrendersi. Ecco questi conflitti che le abitano sono conflitti che abitano anche il palco, che non è un posto accomodante e consolatorio, è sempre un posto violento. E a questa violenza, anche quando non ne sono pienamente consapevoli, queste figure rispondono con amore. Ma anche l’amore è violento, troppo spesso purtroppo lo è.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

FOTO DI COPERTINA  © ENRICO FEDRIGOLI

*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Oubliette Magazine il 1 dicembre 2016

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