Pasquale Guaragnella, professore ordinario di Letteratura italiana (Facoltà di Lingue – Università di Bari), è studioso di storia delle idee e delle forme linguistiche in età moderna e delle tipologie del “riso” e del “comico” nella letteratura tra Otto e Novecento. È autore di studi e saggi sulla letteratura del Novecento. Si è occupato del fiabesco de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e dell’eroicomico di Alessandro Tassoni, della prosa di scienziati e moralisti del Seicento: di Galileo Galilei e Benedetto Castelli, di Paolo Sarpi e Traiano Boccalini. In questo articolo propone una lettura di Una questione privata di Beppe Fenoglio.
Raccontava un suo professore, Pietro Chiodi, che Beppe Fenoglio fin dagli anni del ginnasio, ad Alba, si era immerso nel mondo della letteratura inglese: in particolare nella vita e nel costume dell’Inghilterra post-elisabettiana e rivoluzionaria. Più volte Fenoglio avrebbe raccontato che, da adolescente, aveva spesso sognato di essere un soldato dell’esercito di Cromwell, “con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla”. È probabilmente questa la ragione che presiede alla scelta dello scrittore albese di attribuire nomi inglesi ai personaggi delle sue più importanti opere: non solo il nome di Johnny al protagonista dell’omonimo e suo più noto romanzo, ma altresì quello di Milton al protagonista di Una questione privata. Converrebbe ricordare a questo proposito che Milton è il nome di uno dei più importanti poeti inglesi del Seicento, autore di un’opera dal titolo suggestivo The paradise lost.

Precisamente il tema di un amore perduto ritorna intensamente in Una questione privata, romanzo uscito postumo per la morte prematura dello scrittore, a causa di un cancro provocato dal vizio compulsivo, e quasi suicida, del fumo. Non c’è infatti foto di Fenoglio che non lo ritragga con una sigaretta; e non c’è ritratto di suoi eroi narrativi che non rappresenti la loro vita come “alimentata” da un abuso di sigarette. Del resto Fenoglio solo nell’ultima parte della sua esistenza sembrava avesse assunto – ma solo apparentemente – una “maschera serena”: nel corso della sua giovinezza – aveva poco più di vent’anni – aveva vissuto la condizione estrema della lotta partigiana e della terribile guerra civile, in luoghi in cui, da ragazzo, aveva pure trascorso liete vacanze estive. Una guerra civile segnata, nelle Langhe, da una indicibile violenza: beninteso, non solo da parte delle truppe tedesche che occupavano tra il 1943 e il 1945 le regioni dell’Italia centro-settentrionale o da parte dei loro collaboratori fascisti della Repubblica di Salò, ma altresì da parte delle stesse brigate partigiane, soprattutto quelle composte dai “rossi”.
Quel clima di violenza è icasticamente rappresentato in Una questione privata, con una inchiesta “tacita”, ma penetrante, sulle ragioni del bene e le ragioni del male: con una componente aggiuntiva costituita da una passione amorosa e da una gelosia che nel protagonista del romanzo, Milton, non conoscerà limiti. Di qui la ragione del titolo: una questione privata nel fitto di una drammatica storia collettiva, pubblica. Milton infatti, nel corso della lotta partigiana, si ritrova nei pressi di una villa che, sulle prime, appare a lui – che vive il suo amore prevalentemente in chiave letteraria – come un locus amoenus, un luogo delle ricordanze: è la villa della famiglia di Fulvia, una ragazza di cui, prima della guerra, è stato perdutamente innamorato. Il cuore di Milton “sembrava latitante dentro il suo corpo”: egli, nella sua mente, così pensava di Fulvia “È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria”. Milton ricorda una scena di due anni prima, nel giardino, con Fulvia che, guardando il sole, gli diceva: “Sei brutto” e lui che assentiva con gli occhi; e Fulvia che riprendeva: “Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano…”. Era il gioco del rifiuto e della seduzione, dispiegato da Fulvia: con Milton che restava in silenzio. Il silenzio era il linguaggio della sua timidezza: Milton infatti sapeva parlare soprattutto attraverso i libri o le parole altrui, ma quando arrivava ai momenti decisivi restava addirittura muto. Era questa la sua attitudine a eludere le questioni, per lui indicibili, dell’eros, della paura, della morte: l’attitudine a non usare parole superflue o esornative, ritenute sciocche.

Senonché, entrato nel soggiorno della villa, dopo che la custode gli ha finalmente permesso di accedervi, il partigiano “andò al tavolino addossato alla parete di fondo” e “s’inclinò leggermente e col dito disegnò la forma” del grammofono: che ormai non c’era più, ma chissà quante volte aveva suonato “Over the Rainbow”, un motivo musicale americano che indicando il cielo oltre le nuvole, riconosceva nel colore azzurro l’apoteosi della libertà e della felicità. E pensare che la giornata di Milton era in questo momento solo piovosa e grigia…
Già da questo momento, dunque, si potrebbe intuire che il rapporto tra l’interno in penombra di una villa disabitata e l’esterno di una giornata uggiosa offra quasi dei segni nascosti, i quali rinviano segretamente a future vicende di malora o di disdetta, secondo il lessico di Fenoglio o di un altro grande narratore della fortuna avversa come Federico De Roberto.
V’è una prima conferma. Nel seguire il gesto di Milton che mimava il girare di un disco, la custode, rivolta al giovane e agitando la mano, gli diceva in maniera confidenziale, ma con allusiva aria di riprovazione: “Quanto ha lavorato quel grammofono”. E svela a questo punto di una relazione amorosa tra la stessa Fulvia e Giorgio Clerici, il migliore amico di Milton. È il principio di un dramma d’amore: in quella stanza Milton “era entrato per raccogliervi ispirazione e forza e ne usciva spoglio e distrutto”. Avrà inizio qui la ricerca “folle” di Milton per incontrare Giorgio e chiedergli spiegazioni, conoscere la verità, “una partita di verità tra me e lui. Dovrà dirmela, da moribondo a moribondo”. Ma quando sarà nei pressi della brigata in cui milita Giorgio, anch’egli partigiano, Milton verrà a sapere che l’amico, in una giornata in cui la nebbia ha nascosto uomini e paesaggi, è stato drammaticamente catturato dai fascisti.
Una nebbia che non consente di vedere a più di un metro, una pioggia a dirotto “su Giorgio prigioniero, forse su Giorgio cadavere, (…) sulla sua verità di Fulvia”; e il vento che sibila e sembra penetrare nelle ossa, e poi la tenebra e la notte: elementi naturali che corrispondono a una significativa trasfigurazione, operata da Fenoglio nel suo romanzo, del paesaggio delle Langhe, al punto da assumerne connotati. Talvolta essi sembrano sostituirsi al nemico storico dei partigiani. Pure, erano state le Langhe per Fenoglio, prima della guerra, luoghi di gite domenicali e di scampagnate.

Ma ora Milton sarà, sempre più, nella condizione umana di un Orlando furioso, secondo l’interpretazione che del personaggio fenogliano e dell’intera sua vicenda proponeva acutamente Italo Calvino. Quella del partigiano perdutamente innamorato diventa infatti l’inchiesta ariostesca intorno a un segreto della donna del desiderio, intorno a una verità che, con la cattura dell’amico, tende ad allontanarsi nel momento in cui sembra sia sul punto di essere finalmente colta. Milton allora concepisce il folle intento di catturare un soldato fascista, al fine di realizzare uno scambio di prigionieri che consenta la liberazione di Giorgio Clerici: con il quale spera di avere un chiarimento definitivo sulla relazione d’amore con Fulvia. Verso le dieci di sera è in un casolare sperduto delle Langhe, ospite di una vecchia che gli offriva un magro pasto. Si era già messo in borghese per tentare, appena fosse andato via, l’impresa audace. “Vedi che i prigionieri bisognerebbe risparmiarli” – diceva la vecchia – utili per un possibile scambio? Milton, con la millesima sigaretta alla bocca, rispondeva icastico: “Questa guerra non la si può fare che così. E poi non siamo noi che comandiamo a lei, ma è lei che comanda a noi”. E mentre la donna parlava di una trascorsa, lontana estate di pace, una smorfia dolorosa si disegnava sulla faccia di Milton: senza Fulvia, non ci sarebbe stata più estate per lui. Vi raccomando – diceva Milton alla vecchia – la mia arma e la mia divisa: lui avrebbe tenuto per sé solo una minuscola pistola, vestendo in borghese. La vecchia gli prometteva che l’indomani avrebbe nascosto ogni cosa nel pozzo: ma ora più che mai Milton è simile a Orlando, come quando il cavaliere ha perduto la spada per mano di Mandricardo e poi, impazzito, si libererà dell’armatura. Nel Furioso la catena delle perdite materiali prelude simbolicamente all’alienazione del senno, che si manifestava, secondo tradizione, per l’appunto come spoliazione delle armi e delle insegne cavalleresche. Milton, al pari di Orlando, non volendo nemmeno aspettare l’alba, partiva a testa bassa, mentre dall’uscio la vecchia gli diceva di pensare un po’ di più alla madre. Ma il giovane “era già lontano, schiacciato dal vento e dall’acqua, marciava alla cieca, ma infallibilmente, mugolando Over the Rainbow”.
Così, dopo difficili peripezie, il nostro personaggio finalmente cattura un sottufficiale fascista, ma sarà costretto a sparargli quando questi tenterà una improbabile fuga.

Una questione privata si presenta dunque come la storia di vite di corsa verso un oggetto del desiderio – si tratti dell’amore, si tratti della vita salva o altro – ma, a ben guardare, soprattutto come una storia di fughe, non solo fisiche, ma soprattutto psichiche: da se stessi, dalle proprie passioni incontrollabili, dalle proprie angosce, dai propri incubi, dentro una vicenda collettiva di inaudita violenza, quale è stata per l’appunto la lotta tra partigiani da un lato, e fascisti e tedeschi, dall’altro. Non per nulla, secondo le movenze di un violento destino, per così dire, “circolare” – di corse e di fughe – non resta a Milton che ritornare alla villa nella quale ha avuto inizio la sua peripezia: per parlare di nuovo con la custode e tentare di sapere, dalle stesse sue parole, la verità. Ancora una volta piove a dirotto e il fango che rallenta i movimenti di Milton verso la meta si salda allegoricamente alla sua condizione di cecità, di preclusione di ogni conoscenza, nella quale il personaggio è ormai sprofondato nella sua ricerca disperata: a tal punto da non dar retta a un contadino che lo aveva messo in guardia sulla presenza dei fascisti.
“Sono fatto di fango, dentro e fuori”, dice Milton a sé stesso, ormai definitivamente corrotto.
La verità, per l’incombere della malora – ovvero le movenze di una sorte avversa, che Fenoglio sa rappresentare come nessun altro scrittore del secondo Novecento italiano – Milton non potrà conoscerla, in quanto proprio nei pressi della villa s’imbatterà in una squadra di cavalleria fascista: un reparto militare che appare, nel secondo conflitto mondiale, del tutto anacronistico, ma evocante, simbolicamente, un rovesciamento parodico delle vicende e delle forme dell’epica. Avrà qui inizio l’“ultima” fuga di Milton, che Fenoglio descrive con drammatica arte di scrittore di talento: il personaggio in fuga, nella disperata volontà di attraversare un piccolo villaggio, sembra mostrare un bisogno ultimo di veder gente, che è proprio di chi starebbe per allontanarsi dalla vita.

Una fuga il cui epilogo è lasciato come sospeso alla individuale interpretazione del lettore. La corsa di Milton si concluderà al margine di una “selva”, la quale – a differenza che nel Furioso – non è un labirinto dal quale far iniziare storie da raccontare, bensì un “muro”, che oppone un ostacolo conclusivo alla vita e semmai rinvia alla poetica di un filosofo esistenzialista francese, Jean Paul Sartre, ben conosciuto e studiato da Fenoglio.
Oppure quel limitare del bosco, secondo una interpretazione ancipite, rappresenterebbe la riconquista di uno spazio edenico, paradisiaco e già perduto, a suggello del nome del protagonista, Milton: quel bosco, dunque, evocherebbe il luogo di chi è come “in attesa di incappare nelle ali degli angeli”. Non per nulla – riprendendo il verbo dantesco usato da Fenoglio per rappresentare la morte del prigioniero fascista che Milton non voleva assolutamente uccidere – con il protagonista di Una questione privata, colpito inesorabilmente dalle raffiche della cavalleria fascista, potremmo dire di trovarci di fronte alla scena di un uomo le cui braccia remigavano nel cielo. Un cielo bianco, questa volta: si tratterebbe di un mondo ideale che, al di là della Resistenza storica, doveva rappresentare per lo scrittore albese – non necessariamente per noi – l’allegoria di una scelta esistenziale: votata a resistere in maniera permanente alle profonde e sempre rinnovate ingiustizie della vita. In un caso come nell’altro, la morte o la salvezza di Milton segnerebbero il carattere e il destino di un eroe del nostro tempo storico. Quale che sia il significato che siamo disposti a dare alla parola “eroe”; e quale che sia la possibilità “eroica” che noi siamo disposti a riconoscere dentro l’attuale prosa del mondo, per Fenoglio quel limitare di un bosco, ovvero l’allegoria di un confine doveva indicare la speranza di una salvezza: e questa salvezza poteva venire solo dall’utopia della fine della violenza, di ogni violenza.