Che cos’è che cerchiamo (veramente) quando chiediamo un po’ di amore? E soprattutto chiediamo sapendo che, per vivere, bisogna pure dare qualcosa?

Arturo Giammarresi torna ne La disperata ricerca d’amore di un povero idiota (Feltrinelli, 2022) con (dis)incanto, quarantenne e sperduto, più inquieto che mai, aggrappato (con meno convinzione del solito) alla sua immedicabile ironia (più amara, perché intimamente in crisi), dispensatore cronico di citazioni pur di salvarsi (almeno in apparenza) dalle situazioni (tanto comiche quanto incresciose) in cui sceglie di cacciarsi. «Ma nella realtà le avventure non capitano a chi se ne sta a casa: bisogna andarsele a cercare fuori» per dirla con un racconto di James Joyce, Un incontro in Gente di Dublino (1905). Se ve lo state chiedendo: sì, ci sono appena cascata anche io nel citazionismo.
E c’è del metodo in questa follia: è quello di un algoritmo che riesce (si fa per dire) a decifrare l’animo umano e a stabilire con esattezza (più o meno) chi è e dove si trova l’anima gemella del consumatore. Il problema, però, è che per raggiungere questa potenziale anima gemella (e l’app è sperimentale, quindi il protagonista si concede un vero e proprio balzo della fede) da Siena a Lecce passando per la Svezia e la Groenlandia, Arturo rischia di perdere la sua di anima fino a toccare un punto di non ritorno che è davvero la svolta autorale di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif), sempre critico con la società (come è giusto che sia), dallo stile chiaro e per questo sicuramente anticonformista in un’epoca di certezze cotte e stracotte e di sintassi contorte e artificiose che non fanno altro che girare a vuoto senza restituire mai davvero la complessità umana.
Se infatti vi aspettate di trovare anche questa volta la dolce Flora pronta per essere salvata da un destino avverso (meglio da una Storia, un sistema o un accidente qualsiasi della realtà che, si sa, segue sempre altri piani) per poi cadere tra le braccia timide e premurose di Arturo, idealizzata e amorevole, non dovrete rimanere delusi nel non vederla al fianco del protagonista: questa volta Flora, semplicemente, proprio non c’è. E forse la sua sparizione dalla trama, in effetti traumatica per Arturo che deve affrontare donne contemporanee (autonome, distratte, arriviste, egoiste, tanto emancipate da essere arrivate a scegliere di fare definitivamente a meno dell’altro sesso anche in termini puramente dialettici) è proprio il segno della maturità autorale di Diliberto.

Se prima l’amore (contrastato, dal cinema alla carta) tra Flora e Arturo era solo un pretesto per concentrarsi sulla memoria nazionale e sulla Storia anche contemporanea (succedeva al cinema con La mafia uccide solo d’state, 2013; In guerra per amore, 2016; E noi come stronzi rimanemmo a guardare, 2021) questa volta l’amore è proprio un problema. Anzi, come Arturo stesso ammette, è il problema e proprio il fatto che sia il problema rende la situazione problematica. Dramma amletico? No, proprio dramma da uomo (italiano) nel 2022. Perché, in effetti, stare al mondo sarebbe meno doloroso e dispersivo per il protagonista se solo si desse pace. Se solo, cioè, rinunciasse proprio alla disperazione nella ricerca della felicità. Eh, sì, piccolo spoiler necessario: si scrive amore, ma si legge felicità.
Diliberto è abilissimo a mettere il suo Arturo e chi legge sullo stesso piano: siamo tutti dei poveri idioti (nel senso etimologico: semplici, incompetenti, inesperti) mentre assistiamo, impotenti, al fallimento dei suoi approcci (dai più goffi ai più disinvolti) e siamo dei poveri idioti proprio perché lo seguiamo in questa ossessione dell’amore certo, “garantito al limone”. Sì, l’idiozia (tutta post-borghese) è proprio la pretesa di trovare l’amore a tavolino, barando, conquistando l’altro studiando i metadati e le informazioni disperse in rete mentre facciamo oscillare il pendolo dell’esistenza tra un social e l’altro senza soluzione di continuità, come se si trattasse di ordinare su Amazon un articolo al miglior prezzo (possibilmente molto, molto scontato), già imballato e pronto per la spedizione. Insomma, Diliberto con la sua delicatezza inconfondibile (ma attenzione, questa volta ha una brutalità tutta nuova, tipica degli onesti quando sono un po’ stanchi di vedere che le cose non cambiano mai) ci smaschera.

De André lo cantava in una manciata di versi: «senza un programma dimmi come ci si sente / continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito / farai l’amore per amore / o per avercelo garantito», Carmen Consoli lo ribadisce schietta «Volevo essere più forte / Di ogni tua perplessità / Ma io non posso accontentarmi / Se tutto quello che sai darmi / È un amore di plastica». Diliberto guarda al maschile e al femminile di oggi, entrambi in crisi anche se il femminile tenta di non darlo troppo a vedere per l’abitudine antica a dissimulare, con un candore rischioso, ma sincero anche se vagamente postmoderno (perché ricordiamoci che il citazionismo è arte nel postmoderno). E in effetti La disperata ricerca d’amore di un povero idiota si pone in modo anche irriverente tra Fëdor Dostoevskij (L’idiota), Lucio Dalla (ri-ascoltate Disperato erotico stomp, magari nella versione di Gigi Proietti e poi mi direte) e Lina Wertmüller (provate a pronunciare il titolo del romanzo ad alta voce tutto d’un fiato e capirete che intendo).
Ma, in effetti, che cosa ne sappiamo davvero di questo tempo che prevede la possibilità di incontrarsi in base a una presentazione di sé (spesso) fittizia, totalmente inautentica, occhieggianti dalle vetrine asettiche di Tinder e dei social dove chi pure si professa allegro e contento in realtà si vendica della propria frustrazione più profonda sganciando post per non ammettere i propri fallimenti nemmeno nella solitudine del proprio letto?
Sì, ma Arturo lo trova o no questo “centro di gravità permanente”? Non lo so. Ecco, mi sbilancio, penso che perfino lo stesso Diliberto ne sappia poco o nulla del destino di Arturo e per quanto, personalmente, io abbia sempre trovato i finali aperti irritanti, questa volta devo ammettere che mettere la parola “fine” sarebbe proprio una beffa. Arturo è in piena trasformazione e allora lasciamolo lì, che affronta e mette in discussione sé stesso fino a che pure l’ultimo brandello di “coglionaggine” (che non è del tutto candida e incolpevole) non lasci il posto a un uomo nuovo. Non qualunque, non senza qualità, non stanco e nemmeno lamentoso, non in cerca d’autore, non privato (come vuole proprio l’etimologia di “idiota”), ma proprio nuovo, che non abbia più paura di amare, ma soprattutto di farsi amare. Perché a volte ci si cerca da così lontano e per così tanto fino a non riconoscersi, confondersi, dimenticarsi.
Del resto, come cantava e cuntava Rosa Balistreri, «amore tu lo sai, la vita è amara» (l’album è del 1971) ma Giuni Russo e Franco Battiato lo sapevano: «la sofferenza d’amore non si cura / se non con la presenza della sua figura». Non per farla troppo semplice, ma è tutta una questione di presenza.