Il ritorno di Gabriele Salvatores: il suo Casanova oltre Fellini e la crisi in anteprima al Bif&st 2023

Il ritorno di Casanova è il ritorno di Gabriele Salvatores: non un film sulla crisi, né un film della crisi, ma un film del superamento e la possibilità per l’uomo si trova nel corpo di una donna che ha già scelto per la vita e che, all’uomo, non deve nulla.

Presentato in anteprima mondiale al Bif&st 2023, Il ritorno di Casanova è stato accolto con entusiasmo dal pubblico nella serata inaugurale della kermesse. Salvatores separa la vita e l’opera: al centro denuda l’uomo-regista che deve accettare non semplicemente “il tempo che passa” e “la paura di amare”, ma l’impotenza davanti al desiderio e la consapevolezza del tempo perduto (che, forse, può essere compensato almeno, se non proprio recuperato dalla vita stessa che avanza e salda i conti).

Così il regista manda in analisi una intera generazione di uomini-artisti che cercano disperatamente di tenere vivo il «bambino dispettoso che non vuole crescere e che si portano dentro», lo definisce così nella nostra conversazione, e si tratta di un dáimōn che bisogna imparare a conservare e a trasmettere, perché possa splendere. Questi casi-limite della malinconia sono figli che devono imparare a essere padri. Salvatores fa quindi critica di classe: la borghesia alla deriva degli ultimi venti anni del Novecento si ritrova a un punto di non ritorno, la generazione del 1968 che non ha saputo uccidere i padri fino in fondo, adesso si guarda con impotenza mentre i giovani costruiscono un sistema di comunicazione privato di sentimenti e ambiguo, che si nutre dell’immaginario più anarchico per costruire un futuro reazionario. Eppure, ci svela il regista, «non bisogna essere invidiosi dei giovani, è così stupido, anzi vedo che vanno verso logiche narrative diverse, nuove, spero di avere dato un contributo a questa cosa». E, in effetti, c’è una pietas che nasconde un senso di colpa profondo nella grande intuizione di Arthur Schnitzler e di Salvatores di denudare e far duellare Casanova e la sua giovane nemesi soldatesca che, nonostante si muova nella ricostruzione di fine Settecento, ci ricorda la mascolinità fascista, un poco ingenua in verità, di cui ancora è imbevuta la cultura italiana. Duellano quindi un archetipo scisso, il famoso doppio ricorrente in Schnitzler, che Salvatores moltiplica: così si muove il regista Leo Bernardi – qui Servillo supera sé, tutte le sue precedenti prove e trova una proposta completamente nuova, pure se fortemente autorale – che porta avanti disperato, o si fa portare avanti, il film che ha girato su Casanova, una straordinaria interpretazione di Fabrizio Bentivoglio che allo specchio piega gli angoli della bocca e si sconcia il viso prendendosi gioco di sé, in uno slancio d’attore sospeso tra Molière e Goldoni, ma pienamente shakespeariano nelle scene corali dove duetta in modo favoloso con Elio De Capitani. Più che a , quindi, conviene pensare a Il Casanova di Fellini come ci conferma lo stesso Salvatores: «Fellini lo vede come una macchina del sesso, addirittura strutturato così, pensa alla scena con l’uccellino meccanico o a quella finale con la bambola, ma non è la visione che abbiamo avuto noi di Casanova: per noi non è Don Giovanni. Don Giovanni è un collezionista, mentre Casanova è uno che si innamora veramente delle donne che corteggia, quando erano di umili origini addirittura regalava loro una dote e scrive nelle sue memorie “Per difendersi dagli altri uomini”, pensa, che strano… quindi è un Casanova un po’ diverso, è un seduttore in crisi di età: lo vediamo quando questo ruolo del seduttore libertino non è più ripetibile, è umano: si sta accorgendo di non poter più recitare il proprio personaggio».

Salvatores, dicevamo, separa opera e vita: da una parte il film a colori, sontuoso e splendente, che ricostruisce ambienti e costumi d’epoca, dall’altro il bianco e nero della vita di Leo Bernardi, il protagonista dal nome evocativo che ricorda quello di Leo de Berardinis: non a caso, il creaturale attore che firmò con Carmelo Bene nel 1968 un Don Chisciotte e che nel 1986 e nel 1987 portò in scena due edizioni de La Tempesta di Shakespeare di cui è citata proprio la battuta del monologo finale di Prospero, come un avvertimento a inizio del film. È sempre lo stesso regista a scegliere di sollevare il vento e di far cominciare la rappresentazione e di viverla, fino alle sue estreme conseguenze. Certo, ci saremmo aspettati di vedere tornare i colori anche nella vita di Leo Bernardi, ma su questo Salvatores ci rivela che: «ci sono tre motivi per cui ho scelto questa cosa: uno, il più banale, è per dare al pubblico una chiave visiva immediata per passare da un’epoca all’altra e da una storia all’altra, diventa automatico il discorso dopo un po’; da una parte c’è il film di Leo su Casanova, dall’altra la vita di Leo. Il secondo non è nemmeno tanto che il bianco e nero sia la visione del personaggio di Toni Servillo che dice proprio a un certo punto “vivo solo quando sto girando”. Il vero motivo è più tecnico, è teoricamente artistico: noi siamo abituati al colore, vediamo tutto a colori, ma come diceva Wenders, il bianco e nero è diventato più magico, più evocativo e epico e allora avendo una storia del  ’700 da una parte, con le luci delle candele e gli abiti dell’epoca e la vita dall’altra, per nobilitare la realtà ho dato questa pagina di classicità, affascinante. È meno realistico, così non scade l’aspetto visivo quando confronti il film nel film e la storia di Leo».

E, in effetti, così è chiaro il contrasto tra intimo-privato e pubblico, anche linguisticamente dal punto di vista cinematografico, lo spettatore è condotto a un livello profondo di riflessione sulla vita del protagonista e su ciò che rappresenta il suo lavoro in quanto desiderio e quindi dovere etico nei confronti di sé e della società a cui propone questo sogno. E la tempesta, tra l’altro, è anche quella che la casa domotica provoca per reagire alla malinconia del suo proprietario, costringendo Leo a trasferirsi in albergo. «Questa scena mi aveva affascinato, le svelo che è anche una questione biografica, io stesso ho avuto esperienza con una casa domotica. È uno dei temi molto trattati dalla fantascienza americana degli anni Settanta, da Philip Dick… come tutte le cose bisogna capire come usi la tecnologia». Una suggestione, questa, che rimanda a L’invenzione di Morel di Emidio Greco (1974), tratto dal romanzo di Adolfo Bioy Casares e a Das Haus (2021) di Rick Ostermann presentato in concorso nella sezione Panorama Internazionale del Bif&st 2022.

Il ritorno di Casanova è una proposta: per un discorso intergenerazionale che valorizza la presenza politica e sociale della donna rappresentata dal personaggio-chiave di Silvia, una toccante quanto misurata Sara Serraiocco che emerge dalle acque del lido di Venezia come in un ipotetico e fulminante movimento inverso rispetto alla scena della spiaggia de La dolce vita. Oltre la crisi e finalmente, oltre Fellini.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI FOTO DI NICOLE SERINO

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.