Che Caravaggio abbia giocato un ruolo fondamentale nella nascita dell’arte dell’illuminotecnica è molto probabile, anche se non immediatamente ricollegabile alla dimensione teatrale, ma è innegabile riconoscere che nella cesura creata da un modo tutto nuovo di illuminare la scena pittorica, quale quello inaugurato dal genio del Merisi, sia nata una nuova concezione della luce come linguaggio, resa evidente nel lavoro di alcuni grandi registi del secolo scorso che ne hanno colto le potenzialità e le possibili applicazioni.
Nei miei precedenti articoli ho cercato di aprire squarci luminosi su un aspetto tecnico, quello dell’illuminazione scenica, che, nel teatro come nel cinema, non è argomento consueto di discussione o divulgazione, mentre invece ritengo che conoscere anche questo aspetto della messinscena sia importante, soprattutto ai fini di una migliore comprensione dello spettacolo, anche perché è grazie ad una moderna coscienza della luce come linguaggio che nascerà la regia come la intendiamo oggi.
Tornando alla pittura caravaggesca, la vera novità, in grado di rompere con un passato luministico molto approssimativo e superficiale, è stata la volontà di interpretare l’illuminazione dei protagonisti dei dipinti come una sorta di lente d’ingrandimento in grado di illuminarne i moti interiori.

La luce intesa come linguaggio è un fatto tutto nuovo, e dalla pittura si tradurrà nel teatro con l’opera di grandi registi sperimentatori che hanno dato vita all’arte dell’illuminotecnica partendo dal presupposto che illuminare non significasse solo rischiarare, come tra l’altro si era sempre fatto nei secoli addietro, ma imponesse un controllo totale sullo spazio scenico e sulla tecnica da utilizzare.
Questo nuovo utilizzo dell’illuminazione scenica è stato approntato soprattutto all’estero da registi come Craig, Mejerchol’d, Wilson.
Anche l’Italia nel secolo scorso ha conosciuto una parentesi sperimentale di cui non si parla spesso ma che ha segnato, di sicuro, una svolta nella storia dell’avanguardia teatrale italiana, ovvero la stagione delle cantine romane, probabilmente il punto più alto dell’influenza caravaggesca nel contesto teatrale.
Questa, che definire una stagione sperimentale di teatro è del tutto riduttivo, nasce tra gli anni Sessanta e Settanta ispirandosi alla volontà ben precisa di innovare e sperimentare, fuori dai solchi del teatro ufficiale, e riunisce attorno a sé un pubblico variegato per estrazione sociale e professione.
Nelle cantine romane si cerca di annullare la separazione fisica tra pubblico ed attori, come anche la centralità del testo, a vantaggio della musica a fare da supporto ad una recitazione più fisica che di parola, in una logica teatrale sicuramente fuori dal tracciato del teatro tradizionale e molto legata ad una volontà di rinnovamento che più che teatrale e culturale, in quegli anni di dissenso, fu soprattutto politica e sociale.
In questo contesto così scarno di materiali altisonanti ed anticonformista per scelta, l’uso della luce fu uno degli elementi che contribuì a rafforzarne i modi del tutto nuovi e certamente uno dei più importanti a caratterizzarla.
Mario Ricci, Giancarlo Nanni, Carmelo Bene sono solo alcuni dei protagonisti di questa stagione sperimentale che molti definiscono ancora “teatro-immagine” e che nell’intenzione degli autori fu la risposta italiana a quel teatro “diverso” che nel frattempo si affermava anche fuori dai confini nazionali con il Living theatre, il teatro di Grotoswsky, le prime esperienze di Wilson.
Questo Teatro-Immagine era un teatro che favoriva innanzi tutto l’immaginazione, cioè un teatro in grado di sollecitare le capacità immaginifiche di ciascuno affinché ognuno potesse liberamente, e per una sera almeno, creare il “suo” spettacolo, in cui la messinscena travalicasse il testo e ponesse l’immagine al centro di tutto.
È facile intuire che l’illuminazione fosse uno dei linguaggi principali per poter costruire un senso e che, seppure in maniera a volte del tutto rudimentale, permettesse, per certi versi, di realizzare delle performance del tutto originali.

Nel teatro di Mario Ricci, ad esempio, la luce è un supporto determinante per una scena dalla spazialità ridotta, dove il movimento meccanico di marionette e macchine è assoluto protagonista dell’azione, la luce è uno dei materiali scenici all’interno di un teatro dinamico fatto di luce e colore, in cui il pubblico partecipa con attenzione, affascinato dal ripetersi all’infinito di movimenti uguali, alterati e al contempo alternati da luci sapienti. La luce, come una sorta di marionettista che si serve del soffio luminoso per muovere le fila del discorso, attiva il movimento della scena, una scena la cui espressività è tutta giocata sulla ripetizione del movimento e sulla successione di tanti frammenti d’immagine più che su di una sola immagine: un’immagine frammentata, quindi, in una scena illuminata da mezzi rudimentali che agli inizi dell’attività teatrale di questi registi geniali saranno costituiti da scatole di pelati dipinte di nero e munite di lampadine da cento watt, un parco luci rudimentale ma d’effetto! Nei suoi primi spettacoli Ricci utilizza delle marionette, Movimento numero uno per marionetta sola sarà il suo primo spettacolo di fronte ad un pubblico che possa definirsi tale, dando inizio ad una forma di teatro che avrà a cuore l’insegnamento di Craig ma con una visione tutta personale ed antinaturalistica del teatro che pone attenzione ai materiali come veri attori della scena e all’ombra come elemento di rapporto cinetico tra cinema e messinscena.
Di luce sono fatte perciò anche le proiezioni che Ricci utilizza per creare quella quarta dimensione che si sovrappone al dinamismo degli attori e degli oggetti, come nella pièce I viaggi di Gulliver dove lo schermo è costituito dallo spazio ma anche dai corpi degli attori che vengono sopraffatti dalle proiezioni entrando in relazione con esse, dimostrando così la possibilità di fare dell’immagine un ingrediente teatrale senza precedenti.
E ancora, nello spettacolo intitolato “Illuminazione” si servirà di tre proiettori 8mm che proiettano contemporaneamente tre filmati differenti, di cui uno contro un caleidoscopio girevole posto al centro della scena e gli altri due su otto parallelepipedi fissati sul palco ma girevoli e con alcune facce specchianti, con la funzione di diffondere le immagini proiettandole sul pubblico e coinvolgendo gli spettatori. Il tutto avveniva mentre in sala si ascoltava la lettura della didascalia del Giardino dei ciliegi e, contemporaneamente, di una lezione di ginnastica.
Un altro artista che in questa stagione sperimentale ha lasciato un segno importante è Leo De Berardinis, che con Sir and Lady Macbeth (1968) porterà sulla scena una formula teatrale segnata da una forte tensione verso la sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi, generando una messinscena che si servirà di una visione dello spazio scenico come di uno spazio carico di rilievo figurativo, in cui i corpi si moltiplicano ed oltre a recitare muovono le luci, incorporandole nel senso del discorso.

Nella scena di De Berardinis gli attori si muovono davanti e dietro agli schermi, manovrano le luci, si sovrappongono alle proiezioni, li doppiano dal vivo, e soprattutto la luce disegna uno spazio saturo di significati nuovi, di cui rappresenta il filo conduttore.
In quasi tutte le performance di questo periodo si evidenzia un uso laterale dell’illuminazione, non più verticale, dall’alto, ma una luce molto drammatica, quasi caravaggesca quindi, come d’altronde accadrà in quello stesso periodo sulla scena di Carmelo Bene, un altro grande innovatore, che in una delle sue messinscene, Il Rosa e il Nero (1966), gioca tutto lo spettacolo sull’uso delle luci, strutturando la scena attorno a due porte laterali, rotanti, poste in ribalta, che, girando su se stesse, aprono o chiudono l’accesso alla luce, determinando un’illuminazione a spiragli che permette di dosare l’intensità della luce di taglio e genera l’impressione di una scena spiata attraverso lame di luce che rimandano a sguardi umani.
In tutti questi casi la luce è stata l’elemento in grado di imprimere un senso nuovo alla messinscena, un linguaggio che, prima di altri, ha contribuito a forgiare una diversa concezione della teatralità.
ARTICOLO DI KATIA MANIELLO
Fonte immagine Mario Ricci: http://marioricci.net/spettacoli/movimento-numero-due-per-marionetta-sola