Resta ancora un po’: il pretesto di un viaggio on the road per dare pace ai fantasmi

Ci sono storie che ruotano su se stesse, senza mai davvero raggiungere una acme. La catarsi è negata o arriva in sordina ed è come se non potesse mai davvero spostare gli accenti nella metrica incoerente delle esistenze.

Ghila Piattelli gestisce i personaggi del suo romanzo d’esordio Resta ancora un po’ (Giuntina, 2020) lasciandoli precipitare in loro stessi: non c’è scampo per Yoni, Ahuva, Zvaki e Ittai e l’acme non arriva davvero per nessuno, nemmeno quando sembra essersi risolto lo strappo tra passato e presente, tra sogni adolescenziali ed età adulta, tra lo Stato ideale e la cruda realtà di attentati e guerre.

Vivono in uno stato di morbosa sospensione, questi personaggi, nel ritmo esasperato ma controllabile delle loro quotidianità. Ghila Piattelli li disegna con uno stile aspro, con ironia tagliente e con estrema leggerezza: la sua scrittura scorre come quella di un soggetto cinematografico, descrive azioni ed emozioni, racconta intenzioni e le analizza senza dare tregua ai suoi attori altoborghesi che si muovono tra Tel Aviv, Gerusalemme e dintorni alla ricerca di un cimitero per Giuditta, la nonna, l’ava anticonformista che vuole occuparsi personalmente della propria sepoltura.

Ma non ci si deve fare ingannare dall’apparenza: il narratore c’è e si fa sentire, a volte si tradisce, è lo stesso Yoni, il nipote segnato dal destino di un nome che non gli appartiene fino in fondo, a prendere la parola sporadicamente, in prima persona.

Giuditta, intanto, si gode gli ultimi giorni che le vengono concessi con la sua ironia che si lascia ammorbidire dall’incontro con i due amici del nipote Yoni e, nel frattempo, cerca di seminare le ultime istanze di ribellione.

Giuditta comprende, infatti, di dovere essere una maestra silenziosa per il giovane: deve insegnargli come scegliere che uomo diventare e per affrontare la vita deve metterlo davanti alla morte, darle una consistenza continuando ad evitarla, a rimandare con urgenza. Deve mostrargli come spezzare l’incastro di corpi e di vite che hanno condizionato sua figlia Ahuva, la madre di Yoni, fino a condurla in una esistenza vissuta soltanto nella perenne proiezione immaginifica, in parallelo ad altre scene (im)possibili nelle quali protagonista è il giovane amore della sua vita ucciso da un cecchino sulle alture del Golan.

Yonatan, il giovane soldato. Yonatan, il giovane promesso sposo. Yonatan, l’amore eterno ucciso in guerra.

Ahuva è una donna della nuova generazione di Israele, su di sé ha il peso di una Storia nazionale controversa, irrisolta, violenta, la perdita del giovane amato e più che altro quella serie di scelte che cominciano con un nome (chiamare il figlio Yoni come l’amato sono un meccanismo di difesa). Ahuva fugge, fugge nel passato felice e irrimediabilmente negato dal presente per sopravvivere. A suo modo, è una sopravvissuta, come tutti quelli giunti in questa terra prima di lei, e si impone nella trama per negazione.

Ghila Piattelli la racconta attraverso gli occhi di un ragazzo già piuttosto adulto, inconsapevolmente maturo e affida a lui il talento di poter risolvere questa vertigine: la terra promessa è diventata la terra delle promesse, come se ne esce? (E tutti sappiamo bene quanto le promesse siano difficili da mantenere, soprattutto per chi ha alte aspettative).

Giuditta e Yoni fondano una alleanza di tenerezze nascoste, di presenza costante in questo ultimo viaggio on the road sarcastico come una battuta di Woody Allen o come quella di un fumetto (splendida la copertina firmata da Ada Rothenberg).

Ma dietro questo Yonatan del Novecento, si nasconde il glorioso figlio del Re Saul che morì in battaglia contro i filistei e che amava l’amico Davide profondamente. Anche questo Yonatan amato da Ahuva aveva un amico: è Erez a cui viene affidato il compito di vegliare proprio su Ahuva, sulla sposa perduta. Sempre in parallelo prende forma la coppia di amici formata da Yoni ed Ittai cui si unisce la fidanzata del primo, Noga. Le due triadi replicano l’ossimoro che Ghila Piattelli intende fare emergere, un ossimoro che si snoda attraversando una manciata di tre parole: “buongiorno”, “guerra”, “bisogna ricominciare a vivere”.

Buongiorno, guerra, vivere sono le parole che colpiscono Giuditta quando compie le sue scelte: sia quando vive a Firenze, sia quando sceglie di seguire il marito nella terra di latte e miele.

Buongiorno, guerra e vivere sono le parole che scandiscono le vite senza catarsi di Ahuva e del marito, il padre di Yori.

Buongiorno, guerra e vivere sono le parole che sanciscono la gioventù di Yori e dei suoi amici che scampano casualmente ad un attentato con la leggerezza di chi sa cosa sta accadendo ma deve fare finta di niente per non soccombere.

In questa intricata eppure semplicissima trama di vite incastrate nel passato e ossessionate dal fantasma della propria piena realizzazione e felicità sono tre moire mediorientali a chiudere in se stessa una saga familiare che si ripiega in un dolore ottuso come il fatalismo.

Ghila Piattelli conclude tutto in un respiro prima dell’apnea: per terminare il racconto di personaggi incatenati dal fantasma che evocano di continuo, non le resta che fare evaporare tutti proprio in quel passato tanto agognato come in una scatola di scarpe nascosta in un armadio, come quel “Resta ancora un po’” sussurrato per sfinimento a chi invece dovremmo lasciare andare. Forse, ci troviamo a pensare, la catarsi è proprio una questione fisiologica, una necessità naturale e quando manca o è in sordina e ci troviamo a desiderarla, solo allora, la accettiamo davvero.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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