Francesca Garolla è dramaturg del Teatro i di Milano e dal 9 al 18 ottobre 2020 Tu es Libre, sua drammaturgia finalista al 54° Premio Riccione per il Teatro e segnalata dalla Comédie-Française, sarà in scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, prodotto da Teatro i con il sostegno di Fabulamundi. Playwriting Europe – Beyond Borders?, per la regia di Renzo Martinelli, con Viola Graziosi, Paolo Lorimer, Maria Caggianelli Villani, Alberto Malanchino e la stessa dramaturg Francesca Garolla che racconta questo progetto, questo esercizio di libertà sfidante.
Come è nato il progetto Tu es Libre?

Tu es libre è nato, nella mia testa, nel 2014. Prima degli attentati in Francia e prima che il terrorismo internazionale (è difficile anche solo dargli un nome) diventasse tema emergente della nostra attualità.
Eppure il fenomeno dei foreign fighters era già innescato e il Medio Oriente campo di battaglia per quelle forze (politiche, culturali, sociali) che oggi lo hanno reso deserto di macerie e morte.
Nel 2014 tutto era insieme abbastanza lontano e abbastanza vicino, ma nessun furgone bianco minacciava di falciare le folle per strada.
Potevamo stare tranquilli. I nostri confini erano saldi. Confini mentali credo, più ancora che reali: quella sicurezza infantile per cui, per continuare a fare bei sogni, ci convinciamo di essere salvi, in ogni caso, salvi. La guerra non è mai davvero nostra fino a che non bussa alla nostra porta.
Nel 2015 la guerra ha bussato. Tutto si è fatto più vicino: siamo diventati vittime possibili.
Ed io ho iniziato a pensare che, oltre ad essere potenziali vittime, potessimo diventare anche potenziali carnefici: tanti, tantissimi giovani, negli anni, si sono uniti a Daesh. Giovani adulti, come me, come noi, che hanno scelto di lasciare un sistema, il nostro, per condividerne un altro. Una scelta incredibile, perché è una scelta che pare essere di morte e di morte solamente. Ma è davvero così?
Tu es libre si interroga su questo: sulla libertà di scegliere qualunque cosa, anche qualcosa di incomprensibile o condannabile. Viviamo in un mondo instabile sotto ogni punto di vista, ma in che modo credi che il teatro possa raccontare questo nostro frammento di Storia? Gli storici hanno bisogno di tempo perché i fatti assumano una dimensione leggibile e raccontabile. I filosofi hanno bisogno di relazionarsi alla realtà facendo un passo fuori dalla cronaca. Gli studiosi devono avere documenti da cui partire nelle loro riflessioni.
L’arte invece non è tenuta ad analizzare la storia o la contemporaneità e nemmeno a fornire numeri, cronologie, statistiche. L’arte traduce, non racconta. E non parlo di traduzione letterale, parlo di metafora, di visione, di punto di vista. Arte per me è guardare l’orizzonte dallo spioncino di una porta. Non posso vedere tutto, non devo vedere tutto, ma da quello che scorgo posso immaginare un intero paesaggio.
Il teatro parla diverse lingue, questo è il suo vantaggio, o svantaggio: parla con la musica, con la pittura, con la poesia, con le parole, con le forme. Con un sacco di cose. E questo lo rende instabile: instabile come è la contemporaneità. La forma teatrale non è mai chiusa, si ripete, ma diversa in ogni esperienza e in ogni replica. Accade al presente. Forse proprio per questo può parlare di oggi, un oggi che non è fermo, ma in movimento, sempre.
La libertà è questione politica. Siamo liberi di fare teatro oggi?

Se pensiamo di essere liberi solo quando non abbiamo condizionamenti allora no, non siamo liberi. Ma i condizionamenti non sono divieti, sono cose piccole e concrete: sono il contesto. Per esempio: io non posso fare teatro senza considerare una serie di condizioni economiche che mi determinano, non posso scrivere di teatro senza considerare un pubblico che inevitabilmente mi condiziona, non posso lavorare in un palco piccolo pensando di essere alla Scala, non posso… ma questo significa che non posso fare teatro?
Non credo. Siamo liberi di fare quello che vogliamo, magari cercando di moltiplicare le nostre possibilità anche e soprattutto all’interno di confini molto stretti.
La libertà è questione umana e quindi politica e allora quello che ciascuno di noi fa ha funzione politica, secondo me. In questo senso il teatro ha sicuramente un valore politico. Ed io cerco di lavorare in questo senso.
La tua protagonista è donna, è Andromaca, è madre, figlia, moglie. Che rapporto ha questa sua essenza con la libertà?

La protagonista di Tu es libre è Haner, una giovane francese appassionata dell’Iliade di Omero che decide di partire per la Siria ed unirsi a Daesh.
I suoi genitori l’hanno chiamata Haner perché amano la figura di Andromaca, il cui nome, letteralmente, deriva da due parole greche, aner, uomo, e maké, battaglia. Andromaca significa quindi uomo che combatte: nel suo essere dolce e materna racchiude il segreto di una battaglia.
Haner vede in Andromaca un altro modo di intendere la guerra: una guerra in cui l’umanità non è perduta nella violenza, ma, anzi, consepevolmente responsabile di quella violenza. Una umanità per cui la libertà è senza confini, non è risolta nella dicotomia tra bene e male, una libertà che allinea il valore della vita a quello della morte. Una libertà che comprende tutto, come tutto comprende la figura di Andromaca: amore e violenza, vita e morte.
Come è strutturato lo spettacolo?

In scena ci sono sei persone: Haner, la madre di Haner, il padre di Haner, l’amore di Haner, la compagna di studi di Haner e la figura dell’autrice.
Durante lo spettacolo si assiste ad una indagine: perché Haner è andata via?
Haner non è straniera, non è emarginata, non è matta e non è stata manipolata…
Tra un Oggi in cui Haner è già partita ed uno Ieri in cui Haner c’era ancora si assiste alla ricerca di una presunta “verità” che sappia dare una spiegazione alla sua partenza. Ciascun personaggio darà la sua visione della storia di Haner.
Ma nessuno comprende davvero le ragioni della sua scelta e nessuno riesce ad accettare il fatto che si sia trattato di una scelta libera, appunto.
Renzo Martinelli, il regista, ha scelto di dare una dimensione tesa, corale al testo, accogliendo perfettamente la mia suggestione: ciascuno di noi potrebbe essere, o diventare, Haner. Il testo ha debuttato al Fit Festival di Lugano il 4 ottobre 2017 e poi è stato in stagione a Teatro i dal 15 di Novembre. Tu es libre è uno dei testi finalisti al 54° Premio Riccione, ne sono felice. Ma soprattutto sono molto curiosa di vedere che reazione avrà il pubblico confrontandosi con un tema così delicato.
C’è uno stretto legame tra sofferenza e libertà nella vita, come si realizza questo legame nel tuo testo e in scena?

La nostra libertà finisce quando inizia la libertà dell’altro, vale a dire che in realtà la mia libertà non dovrebbe intaccare la libertà altrui e quindi non dovrebbe causargli sofferenza.
Ma di quale libertà stiamo parlando? A quali parametri ci stiamo riferendo? E, quando paliamo di sofferenza, a quale tipo di sofferenza?
Se la vita non fosse necessariamente un valore? Se l’individuo non fosse bene prezioso da difendere ma solo parte e funzione di una comunità molto più preziosa del singolo elemento?
Il punto di vista cambia i significati: libertà o sofferenza si modificano in relazione ad una esperienza.
Io parto da questo: noi sappiamo accettare una libertà per cui la vita non è necessariamente un valore? Una libertà per cui l’individuo non è bene prezioso da difendere, ma solo funzione o frammento di una comunità?
Noi pensiamo di essere liberi, ma sappiamo accettare che l’altro sia davvero libero di scegliere?
Che cosa significa essere libera per te a teatro e nella vita?

Un progetto artistico per me, nasce sempre e comunque da una esperienza e l’esperienza è sempre soggettiva.
Questo non significa che debba essere una esperienza autobiografica, significa soltanto che per poter raccontare qualcosa che cerca di essere collettivo io ho bisogno di riferirmi anche a me stessa e, in questo caso, ho dovuto fare i conti con la mia idea di libertà.
Quello che ho intuito è che per me essere liberi significa essere spietati con il proprio punto di vista, ma soprattutto con tutti quelli che ti dicono che il punto di vista giusto è sempre e solo uno.
Ecco, quelli non mi sembrano mai tanto liberi, né nella vita né nel teatro.
Per me essere liberi significa cercare. Non accontentarsi della prima risposta e nemmeno della seconda. Esseri liberi significa immaginare non un solo paesaggio ma infiniti paesaggi, significa ascoltare anche quello che non si ha voglia di ascoltare, significa accettare di non capire, significa tentare, significa stare in silenzio, prendersi il tempo e avere curiosità anche per quello che si detesta.
Libertà e parola: il testo vive nell’italiano e nel francese, come è stata questa esperienza?

Il testo è stato scritto all’interno di due residenze artistiche realizzate a La Chartreuse – Centre National des écritures du spectacle di Villeneuve Lez Avignon,centro di drammaturgia francese che promuove la creazione artistica degli autori teatrali e che per il 2016 e il 2017 mi ha sostenuto.
Il testo è tradotto in francese grazie al contributo della Maison Antoine Vitez ed è stato presentato come mise en espace all’interno dei Rencontres d’été de la Chartreuse durante il Festival d’Avignone 2017. Questa non è stata la mia prima esperienza di traduzione, ma è stata la prima esperienza di scrittura all’estero e una immersione totale in un contesto differente dal mio (basti dire che ho imparato il francese). Ecco, nell’ottica di lavorare sulla moltiplicazione delle possibilità e degli orizzonti di senso, essere straniera, pressoché muta e del tutto sola, è stata una esperienza di libertà unica.
ARTICOLO* DI IRENE GIANESELLI
*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Globalist.it il 26 settembre 2017.