Daniele Maggioni racconta “Nel Mondo Grande e Terribile”, il film in memoria di Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti.
Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.

È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo.
E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917

Conoscere Gramsci. Oggi in pochi lo leggono o anche solo lo sentono nominare. Un film come Nel mondo grande e terribile (diretto da Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini) offre un’occasione. Tornare ad ascoltare le parole di Gramsci. Senza etichette. Senza stereotipi. Senza spiegazioni esogene, senza banalizzazioni derivate.

L’errore grande del nostro tempo è quello di voler giustificare troppo spesso la cultura imbrattando il pensiero di nozionismo o, peggio, cercando di rendere leggero, godibile, utilizzabile quello sforzo intellettuale che invece non può e non deve essere in nessun modo costretto allo scacco della convenienza o della connivenza o, peggio anche in questo caso, della immediatezza.

Gramsci non lo si legge immediatamente. Le mediazioni sono necessarie, salvifiche. Nel mondo grande e terribile ci ricorda le mediazioni, il tempo del desiderio di conoscenza a cui non siamo più abituati, distratti dalla necessità di far quadrare i conti, di non essere di troppo, di essere accettati (di trovare un posticino, insomma, tutto per noi, un angolino che non intacchi lo status quo).

Non c’è niente di più antifascista della libertà di prendersi il proprio tempo per pensare. Non c’è niente di più antifascista del desiderio di conoscenza.

Daniele Maggioni, regista del film, racconta come è nato Nel mondo grande e terribile.

Come è nato Nel mondo grande e terribile?

Il film è nato dal desiderio di raccontare Gramsci e il suo pensiero dopo diversi anni dall’ultima sua rappresentazione. Ci interessava fare un film con una forte impronta sarda e un film che non fosse una sorta di agiografia o di biografia filmata, ma un film da cui emergesse da un lato il pensiero e dall’altro l’umanità del pensatore. Una scommessa tenere insieme queste due cose.

Nonostante la forte somiglianza tra l’attore e Antonio Gramsci, nel film non c’è ombra di naturalismo. Come avete costruito le scene e come avete pensato alla scenografia?

Abbiamo scelto una cifra stilistica astratta, volutamente non naturalistica come scelta per stabilire un rapporto attivo con lo spettatore basato su un principio di interazione. Allo spettatore non abbiamo chiesto di seguire una storia ma di attivarsi e costruire un percorso mentale personale complesso stimolato dalle immagini e dai salti logico/espressivi. Anche stilisticamente un percorso gramsciano. Scenograficamente abbiamo utilizzato un vero carcere, quello dismesso di Buoncammino di Cagliari ricostruendo la sua cella dentro a quella che abitualmente era l’aula di studio dei detenuti.

Si alternano un Gramsci bambino ed un Gramsci uomo, ma anche in questo caso non si limitano a raccontare, usano proprio i pensieri dell’intellettuale. Qual è stato il vostro lavoro sui documenti?

Gramsci bambino racconta i pensieri scritti da Gramsci adulto ma riferiti alla sua infanzia, provocando una sorta di cortocircuito nello spettatore che accettando questo modo di raccontare si distacca e si avvicina contemporaneamente a Nino (Gramsci bambino). Tutto il lavoro sul testo è stato un lavoro filologico. Ogni parola detta da Gramsci è stata tratta dai Quaderni o dalle Lettere. Allo stesso modo tutti gli altri personaggi parlano con frasi estratte da testi riferibili a loro. Il lavoro di sceneggiatura è durato un anno durante il quale si sono scelti i brani gramsciani e si sono trasformati alcuni scritti e scambi di lettere in dialogo.

Rispetto allo specifico Gramsci, qual era l’obiettivo di questo film?

L’obiettivo era di ridare la parola a Gramsci, senza fare un prodotto che assomigliasse a uno sceneggiato. Mostrare un Gramsci vivo, umano, con tutte le sue debolezze ma con la forza del suo pensiero.

A chi avete pensato di rivolgervi?

Non tanto a un pubblico specifico ma a persone vive, cercando di stabilire, come si diceva sopra, un rapporto attivo con loro. Trasmettere il pensiero di Gramsci ma anche lasciare intravvedere spazi di autonomia affinché queste persone possano trovare una propria relazione con il Gramsci uomo e con il suo pensiero. Un film che lascia anche i tempi della riflessione, del ripensamento e dell’immaginazione.

ARTICOLO* DI IRENE GIANESELLI

*Quest’articolo è stato pubblicato in una prima versione su Globalist.it il 2 marzo 2018

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