Apocalypsis cum figuris – Atto III

Maurizio Donadoni firma Apocalypsis cum figuris in Voix.
Una scrittura nel suo farsi, pensiero di un attore e drammaturgo nel 2020. I primi due atti sono stati condivisi nell’ambito di E come Eresia: Le Rivoluzioni siamo noi?

Da sempre i cataclismi, naturali, artificiali, azzerano il vigente per liberarne, d’un colpo irrevocabile – in meglio o peggio – un divergente futuro.

Fuori i sauri,  dentro  i mammiferi. Sfiorisce il latino, sboccia il volgare. Dal Vaiont nasce la protezione civile. Intesi, nessuno s’augura tragedie. Beato il Paese che non ha bisogno di catastrofi, di santi, d’eroi. La terra in cui civiltà e civilizzazione dialogano; in cui il merito consolida con pazienza, giorno per giorno, le intuizioni del genio, trasformandole in conquiste durature e fruibili e non si vede – lasciando stare il male maggiore, ecomafie, multinazionali, oligopoli, pool di banche mondiali, epitome ed epifania del peggiore capitalismo retrò – non si vede mortificato dalle burosincrasie di funzionari anonimi ma funzionali ai decreti d’una falsa democrazia; mediocri ma fedeli d’una qualche combriccola d’interessi; inetti ma capaci d’esercitare nelle sedi opportune opportune pressioni; conventicola dalle oliate leve dedita non a sollevare dai guai il mondo, ma ad incrementare il proprio tornaconto di branco.

Imbattibili nel chiedere a tutti, tranne che a se stessi, di fare ulteriori sacrifici e buchi nella cinghia, poi tirarla fino ad avere una vita che sembri di profilo anche vista di fronte.

Generalità burocratiche mai una volta al fronte a combattere, a differenza dei veri comandanti in capo; mosche cocchiere di sudori altrui; sepolti nel burro dei loro uffici, ad inscenare risiko di cavilli e commi, bis e ter, accademie infami all’interpretazione di circolari, il cui unico esito è quello ad esempio di bloccare milioni di presidi sanitari d’emergenza acquistati con donazioni private (onde supplirne l’indecente mancanza nei reparti Covid-19, con distribuzione gratuita al personale sanitario mandato privo di difese dalle ineffabili ATS al più definitivo sbaraglio) mascherine ferme nelle dogane di mezzo mondo – ad Amman, come a Liegi – per settimane e settimane, causa mancanza d’un timbro apposto; o perché il dirigente preposto allo sdoganamento non sa l’inglese; o nel dubbio che – oh impareggiabili malfidati di stato e parastato – chissà forse i volontari potrebbero anche rivendersele, nonostante  documenti e controdocumenti dimostrino il contrario.

E ciò mentre a migliaia ci s’infetta e muore perché di mascherine, camici, disinfettanti, non ci sono scorte. Per non parlare di quanti, dirigenti, hanno pensato – impunemente, non impuniti si spera – di smistare pazienti affetti da Coronavirus (quando si dice il genio!) nelle RSA, trasformandole in trappole cui i parenti non potevano nemmeno avvicinarsi, e da cui gli internati non  potevano in alcun modo scampare, se non lasciando questo mondo, non più distinguibili dal colore delle coperte in cui per giorni e giorni hanno giaciuto, implorando aiuto, se non salvezza, in agonia.

Possiamo tollerare questo, in nome della paura di subirne conseguenze, senza sentirci inutili, impotenti? O limitarci ad un disaccordo intimo, che non incida sulla realtà?

Accontentarci del così detto “esilio interiore”?

Ciò che ha consentito ai totalitarismi, da Est a Ovest, di potersi consolidare?

Quello scostare appena le tendine delle finestre, guardare in strada e non riuscire ad opporsi, a dire apertamente no, ma solo “ecco, ne portano via un altro”, ma attenti a non farsi sentire, dal figlio, che forse è un delatore e potrebbe denunciarti.

È così raro poter sperimentare, nel grafico d’una vita, la vita stessa evolversi in curve esponenziali, sensibili. I cambiamenti, nel mare della storia o delle storie, si costituiscono, per la maggior parte del tempo, goccia a goccia: e chi ne vive la lenta progressione, perlopiù non se ne accorge. Sono pochi gli attimi, brevi ma degni d’un intera esistenza. 

Le placche continentali si scontrano anche ora, l’una contro l’altra, testarde più d’elefanti in “must”, a pressioni francamente impressionanti, non è chi non lo sappia, eppure chi lo avverte?

A malapena il pennino d’un sismografo, fino a che non si scatena, ondulatorio e sussultorio, il finimondo

Salti tecnologici esponenziali in passato sono stati  la scoperta del fuoco, la metallurgia, la navigazione a vela, la macchina a vapore, vapore, il motore a scoppio, l’energia elettrica e nucleare, il computer.

Questa pandemia non è il salto esponenziale, la singolarità esplosiva che il radar d’alcuni transumanisti, alla Ray Kurzweil, certifica  sempre più vicina, col congedo dalle scene dell’essere umano biochimico così come lo si conosce, e l’entrata in palcoscenico d’un essere umano rivisitato, la cui coscienza sia risultante d’una simbiosi tecnologica chimico digitale.

Ma è il momento prima, quando l’energia che carica le molle del grande meccanismo probabilistico raggiunge l’acme che precede – non di molto –  l’inevitabile liberarsi delle forze sotterranee, compresse e represse.

Ma il cambiamento è già sensibile, e di scala tale da farci intuire il “big one” che potrebbe derivarne; da farci avvertire uno sconvolgimento al cui manifestarsi, se non proprio inadeguati, ci ritroveremo, credo, tutti un minimo interdetti, al risolvere, e meno inclini a replicare il controcanto delle magnifiche sorti, coro svogliato  d’una lirica estiva, a Caracalla, in bermuda, camicia a fiori e birkenstock personali, sotto i costumi di Turandot.

Ecco, quando avviene di attraversare zone di confine, come quella in cui transitiamo ora, questo singolare getsemani, dilatato in quarantena desertificata, tentazioni comprese; quando l’ ordinario si dimette dal suo ruolo amministrativo e l’extra ordinario, come l’apparir del vero, appare in scena e rivela quel ch’era velato; quando finalmente ciascuno di noi, singolarità e società, smesso giocoforza – per avventura o combinazione del caso – di fare quel che s’è sempre fatto – acritici, di malavoglia – e possiamo attingere alla possibilità d’un riesame di coscienza, individuale e collettivo allora, siamone più che certi, l’occasione d’un inizio di cambiamento dell’ esistente e dell’esistenza va presa al volo.

Non fosse che per onorare le decine di migliaia di vittime, mai approdate alla opportunità d’una ripartenza. 

Passata l’emergenza, nel doppio dopoguerra cui toccherà far fronte, – di rivolgimenti politico sociali come nel ’18, di rivolgimenti socioeconomici come nel ’45 – non avremo più modo di perdere tempo per  inezie quali la politica italiana, declinata come s’è declinata, fino al de profundis; perché sarà da ricostruire prima di tutto noi stessi.

Non potremo più permetterci d’assistere inerti allo spettacolo indecoroso e suicida d’incompetenti piazzati a dirigere ambiti di competenza ben più alta; di vedere brocchi spacciati per campioni solo in virtù d’appartenenza; o di delegare ad altri il diritto /dovere di decidere in prima persona, in tutta responsabilità, il da farsi; di vivacchiare, fino alla consunzione, ciascuno nel pregiudizio che, di stagione in stagione, ne ha sbiadito le azioni.

Fino a trovare di fatto accettabile ogni anno – accuso me non altri – milioni e milioni di morti per fame; milioni e milioni di morti per sete; e vivere in contesti di privilegio in cui si reputi normale farsi un bidet con l’acqua potabile o buttare tonnellate di cibo poiché invenduto.

Come dice Kostja al vecchio zio Sorin nel primo atto de Il gabbiano di Anton Pavlovič Čechov  “Occorrono nuove forme… e se non ce ne sono, meglio niente”.

(continua)

ARTICOLO DI MAURIZIO DONADONI

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