Maurizio Donadoni firma Apocalypsis cum figuris in Voix.
Una scrittura nel suo farsi, pensiero di un attore e drammaturgo nel 2020. I primi due atti sono stati condivisi nell’ambito di E come Eresia: Le Rivoluzioni siamo noi?
Una volta ritornati, da questo limbo provvisorio, e a scaglioni secondo l’età, nel barnum multipista, chi dell’homo homini lupus, chi della solidarietà, chi dell’ignavia, come potremo ricominciare a fare quel che si faceva prima quasi in automatico, senza chiedersi, tranne che a conati, se si poteva fare in modo diverso?
E come potremo fare, quel che di nuovo dovremmo o dovremo fare?
Avendo per acquisito che non c’è nulla di più credibile dell’incredibile?
Nell’era ante pandemica, l’antropocene spinto, il battito d’una farfalla in una qualunque intersezione di coordinate terrestri, si diceva poter diplomare sfracelli ad antipodi cartografici.
Ma chi ci credeva, se non a difesa d’ufficio di figura retorica?
Invece così è accaduto. Battito d’ali di chirottero, d’accordo, non lepidottero, ma dalla Cina è rimbalzato, di polmone in polmone, col suo codice passepartout, per ogni interstizio mondiale, Argentina compresa, in quel di Cordoba, antipode di Wuhan.
Onor del paradosso salvo. E umanità nelle peste. Una volta dunque riaffacciati nei bar riaperti, con che voce, e corrispondente a quale stato d’ animo – per non dire altro, di più intimo e rivelatore – si ordinerà di nuovo un caffè?
Come riapparirà quel suono, e con che novità, da quali sprofondi o nebbie, fino alle rocce erranti delle corde vocali? Per affrontare, come deve, l’ignoto dove?
E come sarà riandare in autostrada? Di nuovo a Roncobilaccio, in coda, per lavori. In autogrill. E riabbracciare parenti e amici? Ritornare in una chiesa? In un museo? In piscina? Ad un concerto? E riandare nei boschi, a funghi? O al mare, sopra e sott’acqua? In attesa d’un volo, agli arrivi o partenze, in aeroporto? Di nuovo al cinema? A teatro?
Anche se ultimi per graduatoria, quanto ad attività essenziali, dovremo prima o poi tornare, noi attori, ai nostri stracci colorati, alle nostre feste sceniche, le nostre favole rappresentative; e ricominciare a dire, in palcoscenico – secondo miracolo d’uno spettacolo dopo l’apertura di sipario – le prime parole d’un testo:
” Mangia, tesoro.” (Čechov).
“Chi è la?” (Shakespeare).
“Mio marito verrà subito.” (Miller).
“Suonami qualcosa.” (Durrenmatt).
“Fra me e voi, vi è qualche differenza.” (Goldoni).
“È finita.” (Beckett).
“Ah, lo volevo dire.” (Pirandello).
Mi ha sempre dato da riflettere, la prima battuta d’un’opera. Così contigua al silenzio, nel tempo, da dove arriva il suono, movimento da movimento, “sì come luce luce in ciel seconda”.
Come dirla è questione non credo di poco conto, ma subordinata ad altre di rilievo maggiore se non decisivo: quando, a chi e perché. Quando: prima o dopo, è un bel decidere (o farsi decidere). A chi: dipende, non sempre da noi. Perché: per necessità. È la gradazione di necessità, interne all’opera e all’attore che, intersecate creano il tessuto, ordito e trama, da sostenere l’arte, e stabilire modo, tono, suono e altre varianti del tema.
Necessità di comunicare, di costituire un’ecumene narrante, testimone di quel che accade dal vivo e per i vivi. Ma, per quanto profonde, urgenze finora del tutto conchiuse nel geloso hortus di un’arte, quella teatrale.
Viceversa, da questa contingenza inaspettata (inaspettata perché mai?) emerge altra necessità, in questa come in ogni diversa espressione dell’agire umano: quella di ripensare da capo cosa significhi: “essere essere di questo mondo”.
C’è differenza tra recitare in un bel teatro chiuso, riscaldato, in tempo di pace, di prosperità economica, per una platea soddisfatta del suo status esibito di parure in parure o recitare lo stesso testo in un teatro scoperchiato dalle bombe, invaso dalla neve di Sarajevo, per pochi astanti al gelo, col rischio di beccarsi, dopo mezz’ora di rappresentazione, una salva di mortai da 120 millimetri appostati sulle colline.
Vuoi scommettere che nel secondo caso gli attori lo perdono il vizio di sovrapporsi all’opera, sprecare tempo in bellurie che illustrano solo loro stessi in rapporto poniamo a Prometeo? In tempo di guerra non è più questione di calligrafia, ma di reimparare a scrivere, e perché.
Ridefinire una scala di valori necessari. Non più spettatori passivi di quel che succede a noi e ad altri nel mondo, ma testimoni, attori, attanti delle nostre storie e della storia.
Se al posto d’un virus il battito d’ali l’avesse dato la cintura di fuoco dei vulcani nel Pacifico, o un meteorite da mezzo kilometro, un paio di stagioni di cenere e di noi parlanti non sarebbe scampata anima viva, a parlarne. Invece, tragico quanto si vuole, è stato per ora solo un avvertimento, d’apocalisse, un fantasma d’estinzione, catastrofe che possiamo ancora, perciò dobbiamo, ad ogni costo, scongiurare.
Non siamo ancora onnipotenti, ora lo sappiamo perché i fatti lo dimostrano; così come dimostrano che un cambiamento istantaneo, radicale, di tutto il mondo, nel male come nel bene, è possibile. Allora forse non dovremmo sprecare l’occasione che ci è data, di cambiare rotta, uscire da una regata col trucco, che ci vedrebbe alla fine, l’uno contro l’altro, tutti eliminati.
Fottercene della boa, che delimita il campo d’una gara drogata, non strambare e filare liberi verso il mare aperto, l’oltre, l’altrove. Navigazione, quand’anche a vuoto e senza riscontri di nuove Indie, o rotte più agevoli verso isole delle spezie, quanto mai profittevole – Leopardi insiste – nella sua splendida, non applicabile inutilità, di ricerca pura.
(continua)