8 domande a Igort (presentato da Valeria Golino) su 5 è il numero perfetto

2 settembre 2019. Valeria Golino, attrice protagonista, e Igort, regista, sono al cinema Galleria di Bari per presentare “5 è il numero perfetto”. È settembre, pioggia incerta, caldo umido certo, la sala ospita spettatori accaldati che attendono di vedere sullo schermo come il fumettista ha trasformato il suo personaggio di carta bicromo. Chiedo a Valeria Golino di presentare da regista, lei che spesso è anche dietro la macchina da presa, Igort.

«Da regista posso dire che Igort è uno che parte già nel campionato di serie A. Perché nonostante sia al suo primo film, è come se avesse già un’esperienza ma anche un universo. È un regista che sa quello che vuole con un punto di vista molto forte, che ha un’onestà intellettuale anche rispetto a se stesso, a quello che gli piace, alle citazioni che fa, maneggia l’argomento che gli interessa, quindi penso che lui sia già un regista avviato».

E da attrice, cosa pensa Valeria Golino?

Da attrice l’ho vissuto al suo primo film e quindi anche con le acerbità, le ingenuità di una persona che sta sul set da “capo” per la prima volta e che quindi qualche volta non sa come usare il suo “potere”… anche se invece sa anche essere prepotente, è abbastanza “leader”. Igort non conosceva ancora delle convenzioni che ci sono nel cinema: per esempio non urli al tuo attore da una parte all’altra della stanza l’indicazione, ma vai vicino all’attore e gliene parli… questo riguarda la superficie del comportamento che un regista dovrebbe avere. Poi non è detto, perché i registi possono fare quello che vogliono. Però lui ogni tanto si vedeva, mi diceva, di sentirsi frastornato da tutta quella gente. Il cinema è un’esperienza collettiva e lui avendo sempre fatto cose da solo, cose in cui era il “tiranno” di se stesso, adesso doveva essere il “capo” in una gerarchia democratica che è il set.

È stato facile per te dare corpo fisicamente a questa donna di carta?

La mia presenza fisicamente era abbastanza organica come essere. È una femminilità che conosco, che non è proprio la mia, forse è anche di un altro momento… però è del sud sicuramente: c’è una docilità, un’indolenza di un certo tipo di donna che io conosco, che ho conosciuto. La parte difficile era proprio non avere molti orpelli, non avere molte frecce al mio arco nel senso che non avevo tanto dialogo, non reagivo, ero un po’ come una presenza in sordina.

Rita, il tuo personaggio, lavora sotto pelle nel film.

È vero e spero che sia così. Per me la difficoltà è stata esserci senza esserci, creare la presenza senza avere tanto da dire e quella è stata la parte più difficile e però mi piaceva anche: è stata una piccola sfida suonare con un suono diverso. Nella carriera, ad un certo punto l’esperienza ti porta a fare ruoli sempre più “grandi” e quando devi tornare a fare ruoli più “piccoli” – questo mi è successo anche nel film di Costa-Gavras (Adults in the Room, ndr) che abbiamo presentato a Venezia – ti accorgi che è più difficile fare le cose piccole che le cose grandi, molto più difficile. In poche scene devi far esistere il tuo personaggio, però senza sgomitare. Il personaggio deve stare dove deve stare, al suo posto.

Igort, partiamo da un posto che però diventa un altro personaggio. Partiamo da Napoli.

Quando ho scritto questa storia era il 1994, abitavo in Giappone, a Tokyo, e avevo finito di lavorare ad una storia che avevo concepito per il mercato giapponese, per quel tipo di lettori. Ho deciso che volevo raccontare una storia che contenesse questa chiave doppia dell’ironia e del dramma e Napoli mi è sembrata subito il teatro naturale. Napoli ha un certo modo di apparecchiare quasi con lo sberleffo, con il sorriso, i colpi che poi sferra alla malasorte, è una città che ha sofferto moltissimo storicamente: decimata da pestilenze, devastata dai bombardamenti della II Guerra Mondiale, affamata dal dopoguerra… questa dimensione mi sembrava un retroterra molto importante da fare emergere per creare il tono dolente dei personaggi. Ricreare la città in questi termini è l’opera congiunta del lavoro mio e di Nicolaj Brüel che è il Direttore della Fotografia. Un Direttore della Fotografia che io ho molto cercato senza sapere ancora di lui. Avevo chiarito con la produzione che volevo una fotografia pittorica, penso a Stalker di Tarkovskij oppure al lavoro di Doyle con Wong Kar-Wai. Volevo quel tipo di approccio al racconto visivo perché per me l’immagine è racconto, l’immagine serve per evocare i non detti e nel cinema è una stratificazione fondamentale secondo me. Il coraggio delle proposte di Nicolaj Brüel è stato la chiave per cui poi abbiamo cominciato a lavorare insieme a questa dimensione metafisica della città e quindi non illustrativa: ci serviva riuscire a creare un paesaggio che rendesse il senso di malinconia, di solitudine e anche di questa dimensione di perdita del controllo. Il personaggio all’inizio del film sente che non sta più riconoscendo questa città, è vulnerabile. Peppino Lo Cicero è un vecchio guappo in pensione che si veste come negli anni Quaranta-Cinquanta e siamo negli anni Settanta, è fermo nel tempo, si muove in questa città avendo perso il figlio e si nasconde in un cinema dove vede il primo film di kung fu che è arrivato in Italia, 5 dita di violenza. Questo nuovo tipo di violenza sfacciata, spettacolare, provoca il lui un senso di sorpresa e di estraneità. Quando abbiamo lavorato su Napoli, abbiamo deciso di eliminare i luoghi troppo da cartolina, troppo iconici, troppo riconoscibili. Era meglio avere una Napoli che era una Napoli fatta di budelli, stradine, scorci, era la dimensione di una qasbah criminale. Di una città fatta come un labirinto.

Il senso di estraneità, di disorientamento poi si proietta nel finale in quello che è anche chiaramente (in origine) un paesaggio sardo. Un paesaggio che per contrasto è pieno di luce mentre Napoli somiglia a Londra avvolta in una pioggia perenne. Ma la luce ci lascia con una domanda. Perché tutta la luce, tutta la bellezza di questo paesaggio puro, si scontrano con la mancanza di purezza del protagonista.

Dunque, io credo nell’entertainment ma credo nell’entertainment non vacuo. Questo è, per me, un film morale: cioè una delle cose che mi hanno sempre incuriosito, anche quando ho cominciato a scrivere questa storia nel ’94 (e stiamo parlando di 25 anni fa) è che gli italiani d’America, penso a Coppola e Scorsese e anche a De Palma, propongono nei loro film degli eroi che non sono degli eroi: basta pensare a Il Padrino o a Scarface, i protagonisti di questi film vengono spesso presi in simpatia, vengono mostrati acuti, intelligenti. Pensavo che sarebbe stato importante raccontare una dimensione antieroica e antimitica: è chiaro a tutti che Peppino Lo Cicero è un gregario, è un camorrista, è un mafioso, uno che non ha delle grandi capacità di detection o di lettura del reale. Io ho casa a Parigi e mi ricordo che quando uscì Goodfellas i francesi erano molto perplessi e dicevano che non era normale che il racconto dei mafiosi fosse così compiaciuto. Il mio film nel suo piccolo vuole avere un piccolo spostamento da questo atteggiamento: quanto io spettatore ho il diritto di empatizzare con questo povero vecchietto che ha perso il figlio e che comincia a sparare e cerca di vendicarsi e di capire chi è che glielo ha fatto fuori, anche se so benissimo che questo povero vecchietto in realtà è un mafioso, un assassino? Questa era la sfida e io e Toni Servillo parlavamo continuamente di questa cosa sul set: cioè volevamo renderlo umano, renderlo vero, cercare di fare sì che dall’affetto che lo spettatore prova verso il personaggio si possa scatenare la domanda “Ma è giusto che io provi questo sentimento?”

In 25 anni come è cambiato, se è cambiato, il suo rapporto con “5 è il numero perfetto”?

Io lavoro continuamente, non mi fermo mai, per cui non ho neanche riflettuto su come io potessi vedere diversamente la storia. In questi 25 anni, Peppino ha continuato a esistere dentro di me, è stato un personaggio di cui intravedevo la fisionomia. E la storia della realizzazione di questo film, come accade molto spesso nel cinema, è stata una storia travagliata con false partenze e concretizzazioni che poi sono evaporate. Io non volevo come sapete, non volevo fare la regia, perché sono uno che aspetta le idee e sono molto calmo quando lavoro. C’è una fase in cui un romanzo deve proprio lievitare, come il pane, e per lievitare non lo puoi lavorare continuamente, lo devi lasciare gonfiare e questo cresce dentro di te, tu fai un’altra cosa e quello nel subconscio continua a crescere e tu poi lo riprendi e lo finisci. Quindi sto lavorando sempre a tante storie diverse… quando abbiamo cominciato a lavorare al film, eravamo all’ottava stesura della sceneggiatura, ho aggiunto il personaggio del gobbo, poi ho aggiunto un prologo in cui noi vediamo la solitudine di Peppino… ma è stato sempre chiaro da subito che quando facevamo il film, facevamo cinema e bisognava dimenticare il fumetto. Avevamo il copione che era nel parlato molto simile a quello del fumetto, i personaggi che erano stati definiti, ce ne erano alcuni nuovi, però comunque bisognava pensare in termini strettamente cinematografici. Per esempio, abbiamo abbandonato subito la bicromia, perché i film e le serie TV prodotte in Italia ultimamente sono tutte azzurre e a me annoia moltissimo questa monotonia. In Italia c’è il 75% del patrimonio artistico mondiale, una cultura pittorica, una cultura dell’antico, del sedimentato che io voglio vedere in un film italiano, io voglio vedere la bellezza. Spiegelman, che è un mio amico, vedendo le mie pagine a colori mi ha detto: “Si vede che tu sei un europeo, si vede da come usi il colore: un americano non potrebbe mai colorare in questo modo”. Ecco per me questo dovrebbe essere la base di una rappresentazione del mondo del fumetto. La grande cura che viene riconosciuta nella costruzione delle immagini e nella costruzione delle atmosfere, questa visione anche delle luci, per me era fondamentale farla diventare parte del racconto cinematografico. Non posso pensare che un film venga fatto visivamente in maniera sciatta, perché poi si capisce cosa intendiamo quando si dice di certi prodotti (anche in maniera un po’ razzista) che “sono molto televisivi”.

Certo è che lavorare con l’immagine disegnata e lavorare con l’immagine cinematografica sono due modi per arrivare ad una manifestazione di qualcosa di altro.

Ovviamente disegnando avevo in mano uno strumento che era in grado di comunicare quello che volevo. Quando eravamo nella cucina di Rita e stavamo per girare la scena in cui Peppino spiega perché 5 è il numero perfetto, io ho detto a Brüel “Vorrei un Casorati”. Così quando c’è lo scambio dei prigionieri sulla terrazza, una specie di duello, che è una scena tipica da film western all’italiana, ecco lì parlavamo di De Chirico.

A proposito di Tokio, in Giappone il fumetto è un fenomeno di massa, non così in Italia. In Giappone è molto frequente che si facciano delle trasposizioni cinematografiche dai manga. Ha visto qualche trasposizione particolarmente interessante per il suo lavoro?

In realtà a me non piacciono molto i fumetti che diventano film, me ne piacciono pochissimi però la mia terza vita è asiatica completamente, conosco i maggiori artisti e di loro mi colpisce sempre la fantasia: cioè il fatto che siano in grado di inventarsi delle cose che sono puro cinema. Affrontano l’idea del racconto anche attraverso l’artificio, magari senza una sceneggiatura pronta perché producono anche 4 film in un anno: una cosa che è appartenuta anche al cinema italiano. Però di bei film tratti dal fumetto me ne vengono in mente due: Oldboy di Chan-wook e History of violence di Cronenberg. Per esempio, Toni Servillo ha rubato una parte della mimica al personaggio del fumetto (mette le mani dietro ai reni) certe espressioni lui le ha prese da lì, però poi cercavamo anche una dimensione drammatica e il fumetto stesso per come lo concepisco io, ha molto l’aria di certe commedie di Viviani, di De Filippo, a me interessa Tennessee Williams, mi piace molto Cechov… insomma c’è un tipo di scrittura teatrale che io uso anche quando racconto, mi interessano i dialoghi che sono molto importanti nel mio modo di scrivere, quindi a me interessava ci fosse quella vita e quella ironia un po’ anche assurda

A proposito di teatro napoletano. In questo film c’è il Servillo nato con Rasoi di Enzo Moscato prima ancora del Servillo che beve il caffè di Eduardo… c’è il Servillo che legge Napoli a suo modo.

Ma lo sa che io voglio fare un libro tratto dai lavori di Enzo Moscato? Per me è il Genet napoletano, amo molto quel modo di scrivere e quella visionarietà.

Prima parlavamo di ironia, c’è molta ironia in questo film anche nei dettagli: la Madonna che piange è piuttosto ricorrente in questo nostro periodo storico, al cinema e altrove.

Pensare che nel ’94, quando l’ho scritto, non si riusciva neanche a pensare a un film di genere. Ma il punto è questo: io voglio partire dal cinema moderno, inventato dagli italiani. Da Deserto rosso di Antonioni che parte dall’artificio e dipinge le mele e il carretto come per dire che non basta filmarli, li devi colorare come se fossero parte di un dipinto, voglio partire dall’idea del mare di plastica di Fellini, dalla reinvenzione della città di Rimini, di Roma, dalla Venezia di Casanova, dalla reinvenzione del mito… Questo è il cinema moderno, quello degli anni Sessanta-Settanta che rimbalza in Asia, in America… per poi tornare in Europa. Per me la cosa importante è che si crei un nuovo impatto: questo film forse è diverso dagli altri film italiani perché vuole essere profondamente italiano, anche nella musica. Io ho chiesto ai musicisti “Fate un viaggio nel tempo, mi dovete fare una colonna sonora italiana degli anni Settanta” perché per me questa è una storia profondamente italiana, con una invenzione profondamente italiana e che poi dopo rimbalzi, che colpisca Tarantino, Sergio Leone o altri, è quasi naturale. Qualunque cosa mi piace io la rubo. Qualcuno sui social ha commentato dicendo che il mio film “È una storia western, una storia di samurai”. Per me è giusto, deve essere letto così: è anche un lavoro di attraversamento dei generi per me.

Sapevano farlo i registi come Mario Bava, è Storia del Cinema.

Ecco, sì.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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