Jean Gili è un critico cinematografico francese e uno storico del cinema. Ettore Scola diceva di lui: “Per me lo specialista straniero del cinema italiano Jean Gili è sicuramente uno dei più puntuali, meglio informati ed è il meno noioso”. Gili è autore, tra gli altri, di un contributo pubblicato per la rivista “Bianco e Nero” numero 593, dedicato a Bertolucci e proprio di Bertolucci gli abbiamo chiesto in questa Conversazione al Bari International Film Festival 2019.
Questa è una breve conversazione su Bertolucci.

Ho conosciuto Bertolucci a Cannes nel 1964. Era l’anno in cui alla settimana della critica venivano presentati sette film. Oggi sono dodici. Non c’era nessun concorso a quell’epoca, le proiezioni venivano seguite dai critici e dai giornalisti, ricordo che alle cinque del pomeriggio la giornata era finita, avevo visto tutto quello che c’era da vedere. In quell’occasione c’era il secondo film di Bernardo, cioè Prima della rivoluzione. Il film fece una forte impressione. Lui era presente, fu accolto molto bene e abbiamo scambiato due parole… io ero un giovane critico e cominciavo un po’ a scrivere. Prima della rivoluzione (1964) mi ha molto colpito, poi ho seguito la carriera di Bernardo fino a Novecento, presentato a Cannes nel 1976 fuori concorso. Anche questo film mi impressionò moltissimo: è un affresco che racconta la Storia d’Italia fino alla Liberazione dal nazifascismo. Bertolucci pensava di farne una terza parte, ci lavorò ma poi non continuò il progetto. Il contributo di Novecento alla Storia del Cinema italiano è notevole e secondo me è uno dei film più importanti, una pietra miliare. Bertolucci si era già cimentato con Il conformista (1970) e Ultimo tango a Parigi (1972) in un certo modo, ma Novecento è l’apice della prima parte della sua carriera e lui lo considerava un po’ fuori norma per vari motivi. É un film prodotto con capitali americani ma è violentemente anticapitalista e lui accetta di proporlo agli americani, ma quando lo presenteranno nelle sale tagliandolo e censurandolo ne rimarrà molto deluso. Credo che il Paese in cui abbia circolato più liberamente fu la Francia perché anche in Italia ebbe difficoltà.
Il Pci non lo accettò.
Il Partito Comunista lo trovò proprio eretico. Poi c’erano attori americani, Burt Lancaster, Sterling Hayden… Bertolucci nella scelta degli attori ha sempre da un lato, come tutti i registi, l’idea di trovare un interprete adatto alla parte, ma dall’altro è molto sensibile anche a che cosa rappresenta l’attore di per sé in rapporto a quello che ha già fatto. Per Bertolucci è fondamentale tenere a mente, cioè, che l’attore porta con sé l’immaginario dei personaggi che ha già interpretato. Sterling Hayden non c’è dubbio che l’ha scelto per via di Johnny Guitar (1954) mentre Burt Lancaster aveva fatto Il Gattopardo (1963)…
A proposito di film poco accettati: Partner (1968).
Partner è un film che ho visto all’epoca in cui è uscito in pieno 1968 e mi rimane non tanto il film piuttosto il ricordo dell’impressione che mi fece. Ho il progetto di rivederlo adesso per scriverne in modo approfondito. Di solito è presentato come il più brutto, senza mezzi termini, ma tornando al discorso degli attori: Tofano fu un personaggio notevole del cinema e del teatro, era anche disegnatore nel Corriere dei piccoli con il Signor Bonaventura. Firmava Sto le sue caricature. Dopo Cannes del 1976, vinsi una borsa di studio e abitavo a Roma quando è uscito Novecento. Cercai Bertolucci, andai in casa sua – viveva ancora a Monteverde con Giuseppe Bertolucci e nello stesso palazzo abitava Pasolini -. Ero emozionato ad andare in quella casa, gli ho fatto una lunghissima intervista in quell’occasione che è stata pubblicata in Francia. Mi chiedo se non sarebbe il caso di ripubblicarla con un saggio su Partner.
Esiste davvero un ultimo film di Bertolucci?

Io e te è un film strano tutto girato in un teatro improvvisato a due passi da casa sua perchè per lui era più facile andare sul set. Racconta di un fratello e di una sorella che si sono messi da parte, nonostante siano giovani. Questo film molto raccolto è anche un modo per riflettere sulla propria condizione. Io non credo Bertolucci pensasse che fosse l’ultimo, poi ha lavorato ad un altro film al quale ha rinunciato, ma io non sento in quel film il senso del testamento. Bertolucci cerca di arrivare a risolvere questo distacco dal fuori proprio perché quel fuori è interessante per lui. In quel film c’è anche un riflettere sul corpo che viene recluso: lui era un ragazzo aperto, con capacità di girare, di scrivere, stare bloccato a casa è una specie di tortura. L’ho anche intervistato per un film sulla Sandrelli, aveva accettato non molti anni fa perché amava molto questa attrice. Ricordo che era sdraiato, parlava ed aveva delle luci negli occhi, aveva recuperato una specie di gioventù mentre parlava. Raccontare della Sandrelli lo riportava a Novecento e a Il conformista. Vorrei tornare su Ultimo tango a Parigi.
Ma certo.

Quando l’ho rivisto l’anno scorso qui al Bif&st ho scoperto che c’è un’attrice, Maria Michi, che fa la madre della moglie morta di Brando. Dunque, arriva questa signora dai begli occhi, questa attrice era una delle protagoniste di Roma città aperta (1945) – lì è l’amante dell’ingegnere comunista, quella che tradisce l’amante -. Quando sono tornato a Parigi ho telefonato a Bernardo e gli ho chiesto: Ma tu Maria Michi non l’hai scelta a caso… e lui mi ha risposto Ma certo, è un modo di citare Rossellini!Infatti c’è anche Giovanna Galitti in Ultimo tango a Parigi (lì è una prostituta che chiede di entrare in albergo a Brando). Anche la Galitti è in Roma città aperta, è la tedesca che vende la droga proprio a Maria Michi. Questo conferma quello che ti dicevo prima riguardo la scelta degli attori. In Io ballo da sola (1996) c’è Jean Marais, l‘amante di Jean Cocteau. Ecco, lui lo ha scelto per questo: perché una delle frasi che amava citare Bernardo era il cinema è la morte al lavoro. Faccio una ripresa anche per trenta secondi, e mentre la faccio in questi trenta secondo invecchiamo tutti. Le cinema est la mort au travail. C’è anche un film di Gianni Amelio che si chiama La morte al lavoro (1978).
Per concludere, secondo lei verso quale direzione sta andando il Cinema e qual è il ruolo della critica oggi?
Il Cinema è evoluto e anche la critica. Oggi si ha chiaramente l’idea che il Cinema fa parte del patrimonio culturale, questa parola, patrimonio, non si usava – in Francia almeno -. Vuol dire che si da al cinema un valore di bene comune come si fa con la musica, la pittura, cioè il cinema è diventato più maturo. Io penso che la critica faccia fatica a seguire questo processo. Da un lato mette i film del patrimonio, dall’altro quelli contemporanei e spesso per dire che i film del patrimonio sono migliori. È un po’ un luogo comune pensare il cinema del passato genericamente migliore. Anche se per certi aspetti è vero: negli Anni 60 e 70 il Cinema italiano è stato al vertice, oggi è un campo molto attivo, ma secondo me guardato con superficialità.