CreA(t)trici dell’Industria Culturale: Loïe Fuller

L’evidenza o forse, più semplicemente, le abitudini di lettura dei dati del reale sembrano consegnarci un destino apparentemente non aggirabile per l’universo creativo femminile: ricevere occasioni di lavoro da chi detiene i mezzi produttivi, ossia – quasi sempre – dall’altra metà del mondo, dall’uomo. Questa breve serie di annotazioni periodiche si prefigge di offrire una prospettiva diversa, raccontando storie di donne che non sono state solo delle geniali creative nelle loro arti, ma si sono distinte per capacità che oggi definiremmo “manageriali”. Artiste in grado di “creare” lavoro per sé e per gli altri, per le proprie compagnie, per le proprie colleghe – scoperte o valorizzate spesso con generosità –, per i propri compagni di vita. Un itinerario costellato di sorprese e – forse – di motivi d’ispirazione.

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All’età di appena sei settimane, feci il mio primo debutto. Lo feci perché non potevo fare diversamente. Ogni cosa che ho fatto in vita mia l’ho sempre fatta per questo stesso motivo. Non sono mai riuscita a fare in altro modo, così come non mi sono mai curata troppo del mio aspetto esteriore.

Non una danzatrice in senso stretto, non un’attrice in senso stretto, descritta come una “grassa americana, piuttosto brutta e con gli occhiali” da Jean Cocteau (e chissà se valutazioni di questo tipo sarebbero mai state rivolte a un artista di sesso maschile), al contrario, gli attributi che partecipano della “semidivinizzazione” di Loïe Fuller non si contano: the Goddess of Light, essere di luce, incantatrice, Salomè elettrica, più semplicemente, per antonomasia, La Loïe. Musa dei simbolisti francesi, creativa dalle mille risorse, esempio luminoso della capacità di impiegare come punti di forza le apparenti debolezze, gli inciampi della vita. Statunitense, nasce nel 1862 in Illinois in una famiglia travagliata, debutta giovanissima sulle scene dei vaudeville. L’aneddoto che racconta l’origine dell’ispirazione della “Danza Serpentina” è evocato nella parziale autobiografia Quinze ans de ma vie, introdotta da Anatole France e apparsa in Francia nel 1908 (possiamo leggerla nell’edizione italiana a cura di Elisa Guzzo Vaccarino, Una vita da danzatrice, Dino Audino, 2013).

Nel 1890, a New York, la sua interpretazione di una donna sotto ipnosi, complicata da un costume dall’orlo troppo lungo sul quale inciampa insistentemente, suscita la meraviglia più che l’ilarità del pubblico quando la Fuller, per mantenersi in equilibrio, agita le braccia fasciate di tessuto trasparente, facendolo inconsapevolmente attraversare dalle luci di scena. Le esclamazioni stupite della platea – “Una farfalla! Un’orchidea!” – sono la spinta a sperimentare gli effetti di luce proiettati su un particolare costume da lei successivamente disegnato, costituito da metri e metri di seta e retto da pertiche di legno, manovrate furiosamente dalle braccia.

Un successo talmente eclatante che nel giro di pochi mesi la caleidoscopica danza della Fuller inizierà a essere insistentemente imitata. Convinta dal suo impresario a firmare un contratto ingannevole per alcuni spettacoli in Germania (allestiti poi, a fatica, in condizioni logistiche ed economiche ben diverse da quelle pattuite), Loïe, dopo mesi di stenti e fatiche in Europa, raccoglie finalmente il denaro necessario per un viaggio in terza classe per la Francia, sperando di essere accolta nel tempio delle Folies-Bergère (e sognando l’Opéra).

È proprio in Francia che la Fuller riuscirà a depositare il brevetto della sua danza (ma la storia dei plagi proseguirà, come dimostrano i tanti microfilm muti di finte Loïe, consegnateci dai primordi del cinema).

Anche se fossi stata la prima a impiegare luci colorate, non meriterei comunque particolari lodi. Non saprei spiegare le mie scelte: io stessa non so come faccio. Potrei solo citare Ippocrate quando gli chiesero cosa fosse il tempo: “Chiedetemelo e non saprei spiegarvelo. Non chiedetemelo e lo so perfettamente”.

La prima avanguardia non si farà sfuggire un tesoro tanto prezioso: in poco tempo l’arte della Fuller conquista Parigi e pone le basi di un’economicamente solida impresa artistica: un sistema di produzione dello spettacolo dal vivo che non le consentirà solamente di poter sperimentare la propria arte accostandola alle più innovative ricerche sul campo della scenotecnica e della luministica, ma le permetterà di esportarla in tutta Europa (tornando, poi, da artista affermata anche negli USA) e di investire, allo stesso tempo, su giovani talenti, sia introducendoli nella sua compagnia, sia fornendo loro un trampolino di lancio produttivo. Tra questi, Isadora Duncan e le danzatrici giapponesi Sada Yakko (per la quale s’indebitò pur di mantenere vagoni carichi di cibi giapponesi al seguito delle sue tournée) e Hanako. Investimenti, talvolta, spregiudicati, che la condurranno spesso sull’orlo della banca rotta pur di onorare gli impegni contratti, ma che non scalfiranno mai una volontà di ferro e una rigidissima devozione all’arte. Ma anche Rodin avrà nella Fuller una vivace sostenitrice, attiva nel promuovere l’acquisto delle sculture del francese presso i neonati musei statunitensi.

Un corpo magnetico nel suo sottrarsi e riapparire dalle cortine accese dai riflettori, eppure così provato, oltre ogni limite: la vista fortemente compromessa dai proiettori diretti al volto; i dolori fortissimi alla schiena e alle braccia che le facevano terminare in barella ogni esibizione e che riusciva ad alleviare solo con impacchi di ghiaccio; il tumore che si ipotizza possa essere dipeso dai fluidi radioattivi con cui fece impregnare i suoi veli per sperimentare nuove luci fosforescenti (la Danse du radium, per esempio, è ispirata alle ricerche dei Curie, di cui era amica). A dispetto di tutto ciò, quella della Fuller è una vita da donna libera e da instancabile viaggiatrice, una vita tutta tesa all’incontro, alla scoperta dell’altro, al fascino per culture diverse da cui trarre ispirazione. Senz’altro il vertice del successo anche economico della Fuller coincide con la gloriosa Esposizione Universale parigina del 1900, in cui l’artista finanzia la costruzione di un intero padiglione dedicato alle sue ricerche artistiche: un trionfo di vetro, acciaio e seta su cui ogni notte è proiettata una luce arcobaleno, scenario impareggiabile per i suoi spettacoli.

La sua arte è riuscita a fondere mistericamente il corpo organico con il tecnologico. Una danza sinestetica di sublime armonia e libera espressività che certamente, pur al di fuori dei canoni della disciplina, è da considerare come il presupposto necessario alle rivoluzioni della danza del Novecento.

ARTICOLO DI LAURA PIAZZA

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