Sulla tela di Svevo il pretesto dell’amore per tracciare un bilancio generazionale

Just stop your crying / It’s a sign of the times / Welcome to the final show / Hope you’re wearing your best clothes / You can’t bribe the door on your way to the sky / You look pretty good down here / But you ain’t really good

Harry Styles, Sign of the Times

Con La tela di Svevo (Les Flȃneurs 2023) Alessio Rega firma un romanzo breve agrodolce con il quale si apre una prospettiva non soltanto letteraria, ma soprattutto editoriale decisamente interessante. Rega, infatti, è il fondatore di Les Flȃneurs Edizioni e ha scelto di pubblicare La tela di Svevo dopo sette anni di processo creativo inserendolo nella sua collana Montparnasse dedicata alla narrativa. Il fatto editoriale è interessante perché Rega non soltanto produce in quanto scrittore questa storia, ma la inserisce in una struttura imprenditoriale del tutto personale.

Non a caso, La tela di Svevo è prima di tutto un contro-manifesto culturale nell’Italia contemporanea e, in particolare, nella provincia pugliese che non è esente da una certa spocchia miope: quella che fa puntare sui grandi nomi per palinsesti estemporanei invece che pensare alla costituzione di programmi culturali per accogliere e permettere ai giovani di trovare la propria voce. Il settantenne Svevo Altomare, pittore di talento, è una voce schietta e scomoda per la comunità di Molfetta: le pagine più gustose del romanzo sono quelle in cui Svevo guarda e descrive i borghesi radunati in uno dei tanti riti sociali che sfruttano l’ipotesi di un programma culturale per manifestare la loro vacuità. Sembra di essere rimasti nel 1800, ma chi frequenta certi ambienti conosce bene l’argomento: la borghesia è morta, ma ancora non lo sa, come direbbe con una certa violenza l’inarrivabile Carmelo Bene.

E, in effetti, Svevo ha qualche cosa in comune con il salentino Bene: l’insofferenza per certi contesti paludati, l’odio scoperto per i codici linguistici ed espressivi propri anche di un certo orientamento politico che pratica la religione e i suoi luoghi solo nella speranza di eternare la propria influenza e il proprio potere e persino l’amore per una Parigi mitica in quanto letteraria. Ma Svevo è pure il rappresentante di una generazione che ha edificato sulla propria sconfitta un fascino indiscreto: ciò che il pittore critica con livore e passione lo tiene in vita (economicamente e socialmente) e quindi gli appartiene. In fondo resta un’artista, cioè un privilegiato. Svevo non è un rivoluzionario, anzi.

Rega, come tutti i bravi narratori, è astuto: la tela di Svevo non è di Svevo. Il vero protagonista delle sue vicende, ma lo comprendiamo chiaramente quando il romanzo è fatto e concluso, è il femminile misterioso, seducente, potente e insondabile, non educabile persino che stravolge più volte la vita dell’uomo senza farsi mai afferrare.

Svevo è interessante proprio per questo: quando si innamora di Anna, arpista ventenne – pure lei artista e privilegiata, borghese –  in realtà si innamora proprio dalla parte di sé che, nonostante l’età, non ha mai potuto raggiungere. La parte di sé non addomesticabile, irrequieta, ma proprio per questo potente. E il narratore glielo fa dichiarare sin dall’incipit facendo riferimento ad Aristotele (attenzione, non a Tommaso d’Aquino): Svevo non riesce a trasformare in atto la potenza. Una riflessione filosofica, questa, che infatti ritroviamo nel riferimento al capolavoro di Jacques Brel, La chanson des vieux amants che in due versi racchiude la maledizione del nostro tempo: “Il nous fallut bien du talent / Pour être vieux sans être adultes”.

Svevo ama una donna che potrebbe essere sua figlia perché non è mai diventato padre, non ha mai esperito questa dimensione: non è solo questione di psicologia, il problema è sociale e politico. Anna avrebbe potuto rappresentare un’alternativa sfidante al presente nel romanzo se il rapporto tra i due si fosse sviluppato in parità, ma Rega intende rappresentare esattamente l’incapacità degli uomini – e delle donne – di uscire dagli stereotipi e dal conformismo persino quando si costruiscono un’identità scopertamente anticonformista: l’unica scelta che Svevo ha, di fatto, è il nichilismo e non perché Anna è una Lolita sfuggente degli anni 2000, ma proprio perché la loro relazione chiede a entrambi un livello di maturità che non hanno raggiunto e che, in fondo, non vogliono raggiungere. L’egoismo e la difficoltà di superare retaggi patriarcali e convenzioni anche nella gestione del desiderio è comune a entrambi: non esistono vittime in questa storia.

Per quanto il nome del protagonista possa rimandare a Italo Svevo – e in particolare al suo Senilità – in realtà Rega sembra volere sancire scopertamente la fine degli inetti e dell’inettitudine raccontando un “piccolo fatto vero” che, a tratti, pare essere la restituzione didascalica (in accezione positiva) della nostra contemporaneità. Dodici mesi bastano ai due protagonisti per cambiare tutto delle proprie esistenze, senza davvero cambiare nulla, per sovrapporre il passato e il presente in un movimento reciproco di fuga e di consolazione. La trama d’amore, del resto, è solo un pretesto, come lo è il capovolgimento del topos derivato dalla Telemachia: questa volta è infatti Ulisse a cercare Telemaco, ma l’assenza tanto seducente resta immodificabile, almeno quanto l’atteggiamento retrivo e bigotto della provincia. Nonostante la fissità delle geometrie dell’inettitudine, però, non sarebbe corretto sospirare la prevedibile clausola gattopardesca: Tomasi di Lampedusa non è un alibi per il nostro presente. I tempi cambiano, non in meglio, ma questo è un altro discorso.

E, infatti, Svevo potrebbe benissimo essere, paradossalmente, un bel ragazzo di oggi che magari non ha mai ascoltato Brel, e non ha molta fiducia nel futuro, ma che in segreto, aspettando la metro, ascolta in cuffia con lo sguardo malinconico e perso Sign of the Times di Harry Styles.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

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