À la Recherche di Giulio Base: danzare tra le rovine

Oscar Iarussi (giornalista e critico cinematografico fiduciario del gruppo Puglia SNCCI) ha proposto al Cinema Abc di Bari la rassegna Visione e realtà DOC, tra i titoli presentati anche À la recherche di Giulio Base il 24 gennaio 2024.

La mia personale Madeleine de Proust è legata ai calzini rossi di Giulio Base. Quando il regista ha preso posto sul palco per il dibattito, non ho potuto fare a meno di notarli e così mi sono tornati in mente quelli di un altro regista, Costa-Gavras, che li indossò durante la sua masterclass per il Bif&st al Teatro Petruzzelli di Bari nel 2015. Il fatto che io abbia sperimentato un effetto proustiano proprio dopo la proiezione di À la Recherche (2023) mi ha fatto sorridere e parecchio: significa che il film produce una certa suggestione. Parto da questa evocazione, per ricordarmi che il cinema è un atto politico perché è la manifestazione dell’esistenza.

Base sceglie di circoscrivere in una struttura narrativa geometrica lo scontro, più che l’incontro, tra Ariane (Anne Parillau) e Pietro (Giulio Base). I due decidono di adattare “la cattedrale letteraria dell’Occidente”, cioè la Recherche di Proust in base a spinte personali diametralmente opposte, ma puntualmente egoistiche: un amore infelice, il desiderio di rivalsa autorale. Il copione dovrebbe raggiungere Luchino Visconti che, intanto, è preso da una furia creativa nell’ultimo scampolo di vita e sta cercando il soggetto per continuare a fare cinema opponendosi così al proprio corpo.

I due protagonisti ci parlano dal 1974, disvelando contraddizioni ideologiche e di prassi politica. “Karl Marx aveva ragione – dirà Pietro – la borghesia è destinata a distruggere sé stessa” eppure, la sua adesione al PCI italiano, per quanto appassionata e dettata proprio dalla posizione del suo idolo, il Conte Rosso (come fu soprannominato Visconti), è il frutto di una mancata elaborazione del socialismo marxiano e quindi di una presa di coscienza di classe solo parziale. Pietro è il perfetto esemplare del “fascista di sinistra” per dirla con Elio Vittorini, profondamente e pericolosamente attratto da slanci clerico-fascisti e a fargli da contraltare c’è Ariane che gli assomiglia, benché di estrazione sociale differente. Lei è la rappresentante dell’intellighèntsia fasulla e snob, giudicatrice e mai davvero coinvolta sino in fondo nella lotta ideale. Non a caso, entrambi, nella ieratica magrezza, trasmettono il senso di un fallimento e di una decadenza volutamente estetizzati e problematici. Base porta così i due personaggi all’esasperazione, li costringe a raggiungere l’apice delle loro tendenze sadomasochistiche: è proprio Ariane, del resto, a citare en passant De Sade per offrire a Pietro un riferimento concreto e strumentale al loro adattamento che dovrebbe insistere in modo malizioso e inedito sul rapporto tra Morel e il barone di Charlus.

La relazione tra Pietro e Ariane è dunque perfettamente coerente con la critica alla borghesia che ha distrutto il ruolo sociale e politico della famiglia, il loro sadomasochismo li conduce nelle pieghe di una violenza tanto raccontata quanto poi agita, l’ombra feroce che sta in agguato nel sorriso raggiante della donna rivela quanto l’impotenza sia il reale punto di incontro, il terreno fertile e la misura del tempo propizia per la reciproca devastazione. Eppure, sebbene questo film conservi nelle intenzioni la cinefilia (adorabile) di un certo Bertolucci e la consapevolezza critica di Godard, c’è un convitato di pietra che si insinua tra i discorsi di Pietro e Ariane e che si materializza in due inquadrature in particolare.

Pier Paolo Pasolini sembra osservare da lontano il quadro quando i due dialogano passeggiando lungo il perimetro della fontana che abbellisce la villa placidamente arroccata nei Castelli Romani. I due protagonisti si muovono partendo dai bordi opposti per incontrarsi al centro dell’inquadratura proprio come fanno Ida (Anne Wiazemsky) e Julian (Jean-Pierre Léaud) discutendo di politica e di marxismo in Porcile (1969). Conviene, a questo punto, ricordare che Pasolini scelse Anne Wiazemsky anche per affidarle il ruolo proustiano di Odetta in Teorema (1968). E poi, epifanico (e scomodo Joyce, con buona pace di Proust) è proprio il finale: Ariane e Pietro danzano delicatamente sullo sfacelo di loro stessi, dopo l’orrore della violenza reciproca e simmetrica, evocando in modo lieve e ambiguo, come ambigue sono le loro posizioni ideologiche, proprio il ballo finale dei due giovani soldati in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Al di là della ricerca che sostanzia la sceneggiatura (lo si nota nei titoli di coda che presentano una corposa bibliografia di riferimento), al di là dunque dell’omaggio a Proust e a Visconti, a Germi – Pietro ne cita Il ferroviere (1956) – e agli altri, resta proprio il senso dell’incompiutezza e della necessità di affrontare la decadenza e il decadimento tanto dei corpi quanto delle interpretazioni strumentali dell’ideologia marxiana. Un conflitto irrisolto, questo, che porta di fatto al disimpegno e alla replica stantia di stereotipi borghesi in cui il nostro tempo è ancora invischiato. Per essere certi di questo invischiamento basta prestare attenzione ai discorsi di un certo pubblico al termine delle proiezioni: arrogante, rispecchia il potere di cui è subalterno. È un pubblico che, proprio come i così detti “intellettuali” nazionalsocialisti contemporanei, si ritiene preparato sempre e comunque a imporre il proprio giudizio piuttosto che a dialogare sulla realtà, in virtù di una paventata competenza che, alla prova dei fatti, si rivela solo presunzione.  

Pietro e Ariane sono sadomasochisti perché incarnano l’anti-borghesia vittima e carnefice di sé stessa, quella borghesia intellettuale avanzata che avrebbe potuto produrre una rivoluzione culturale e politica, ma che ha finito per ripiegarsi su sé stessa, sabotandosi nell’approssimazione e nella produzione finalizzata al solo consumo dell’oggetto culturale. Base sembra suggerire, nello sguardo pietoso che rivela appunto nel finale, di considerare la possibilità di discutere ancora del ruolo dell’intellettuale nella società, del suo dovere essere o meno organico al partito, anzi, di farlo adesso perché domani non è un anatema, ma potrebbe diventare una condanna definitiva al nulla. E infatti “domani” è il lemma ricorrente della sceneggiatura, che giunge puntuale a ricordare ai due personaggi in che modo la speranza di cui si sentono privati coincida con il loro fallimento politico e quindi ideologico, intellettuale.

Base ci consegna un film di ricerca, ma la ricerca, visti i tempi reazionari, sembra tutta da programmare. Il canone, per dirla con Brecht e Pasolini, è ancora sospeso.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.